Capitolo 34

629 95 4
                                    

Andrea

«Zucchero?», chiesi.
«Sì, grazie», rispose.
Eravamo finalmente in una stanza d'albergo a fare colazione a letto con le cose che avevamo acquistato al supermercato la sera prima. Fare la spesa insieme era stato esilarante e allo stesso tempo quasi terrorizzante. Mi faceva sentire come se tra me ed Esmeralda le cose fossero importanti. Realizzai che forse lo erano. Svegliarmi accanto a lei era come una boccata d'aria fresca, la osservavo mentre sbadigliava – e faceva sbadigliare anche me – si sistemava i capelli con le mani e si strofinava gli occhi impiastricciati di mascara. «Odio struccarmi», mi aveva detto quella mattina quando le avevo chiesto perché si fosse teneta quel nero sugli occhi anche quella notte che eravamo in albergo.
Mi piaceva anche in versione "panda" e mi resi conto, di nuovo, che ero cotto da morire di quella ragazza dagli occhi blu.
Fuori pioveva e ci colse un po' di malinconia mentre ce ne stavamo ancora sdraiati a letto.
«Mi piace la poesia», disse.
Ci eravamo detti che tutto quello che stavamo facendo, la nostra partenza, aveva la finalità di conoscerci meglio, così a volte dicevamo la prima cosa che ci veniva in mente.
«Davvero?», chiesi. «Hai la faccia da poetessa».
Rise e mi diede un pugno scherzoso sul braccio.
Guardò fuori dalla finestra.
«Piove dalle nuvole sparse», disse
«Piove sulle tamerici salmastre ed arse,
piove sui pini scagliosi ed irti,
piove sui mirti divini,
su le ginestre fulgenti di fiori accolti,
su i ginepri folti di coccole aulenti,
piove sui nostri volti silvani,
piove su le nostre mani ignude,
su i nostri vestimenti leggeri
».
Fece una pausa, pensai che non la ricordasse più o che fosse semplicemente finita.
«Su i freschi pensieri che l'anima schiude novella,
su la favola bella che ieri t'illuse,
che oggi m'illude
».
«Di chi è?», chiesi, quando fui sicuro che non avrebbe continuato con i versi.
«Di Gabriele D'annunzio. Non è molto conosciuto, sicuramente non lo conoscerai», mi prese in giro.
«Certo, ma non imparo le sue poesia a memoria».
Sorrise.
Lei, evidentemente, le imparava.

Il terzo, il quarto, il quinto, il sesto giorno con lei... fu tutto meraviglioso. Anche quando ci rendemmo conto di aver finito tutti i soldi che avevamo portato con noi.
«Da buona scema quale sono ho scordato la carta di credito a casa», disse lei ed io mi sentii in colpa per aver fatto lo stesso. Non avevo messo in conto le stanze d'albergo e i pranzi costosi che avevo voluto offrirle a tutti i costi.
Per fortuna tutte le sere mi aveva convinto a mangiare qualcosa di leggero, altrimenti saremmo andati in rosso molto prima. 

Neanche una nuvolaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora