E ora, mi dica, come lo ama?

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"Josephine, ti avrò ripetuto mille volte almeno che sono un adulto e che non ho bisogno che tu mi faccia una maledetta predica per quello che è successo!" - urlai, ma la donna nell'altra stanza starnazzava come una gallina che ero un diavolo, che ero solo un inutile ammasso di sciagure continue che lei non meritava.

Ma chi diamine c'aveva detto di farsi quei problemi, a lei. Mi restava soltanto sbuffare e guardare la finestra dietro le mie spalle, aggrottando le sopracciglia. S'era arrabbiata perché ero tornato a notte fonda, ubriaco e senza la minima idea di quello che stessi facendo. Ma che ci potevo fare, io! Insomma, non mi concedevo uno svago mai, non mettevo piede fuori di casa per sei giorni a settimana, lavoravo fino a notte e be', lei con quello che guadagnavo ci viveva.

Dannazione, io avevo ragione!

Mi alzai, aprii la porta e salii le scale veloce, con un diavolo per capello, piglio sul naso, sguardo fiammante. Le dita scivolavano sul corrimano e mi ci stavo sfogando in anticipo, avrei voluto farlo con una persona - e il riferimento non è mai casuale. Misi piede nella cucina, e stranamente le urla di Josephine s'erano fermate, lasciando spazio ad un silenzio piatto. Non fui furbo nemmeno a sbirciare prima, ma perché ero un idiota.

"Che tu sia maledetta, Josephine, sono un adulto, io! Lasciami vivere, e-"

"Ciao" - le labbra sottili color pastello, le mani composte sulla gonna celeste e un cappello ben piazzato sui capelli biondi, tutti disordinati.

Così graziosa.

"Che sta facendo questa qui?" - la indicai, guardando Josephine ancor più confuso.

"Maleducato! Abbiamo un ospite e tu dovresti essere gentile con lei, intesi?" - sbraitò.

Le porse una tazza di tè, il mio tè. "Non dirmi che Dammann*".

Josephine annuì, guardandomi severa. "Non te lo meriteresti, ma siediti e prendi una tazza" - indicò una sedia.

Sbuffai, tirandomi le guance tra i denti. Mi gettai pesantemente una sedia, e Josephine mi schiaffeggiò la testa.

"Comincia a comportarti da civile, Harry" - mi respirò vicino all'orecchio, facendomi morire il fiato in gola.

Mi sistemai sulla sedia, tirandola vicino al tavolo. Lei stava ancora in silenzio a guardarmi, le dita di entrambe le mani poggiate sulla tazzina in porcellana a tema floreale - io ci tenevo a quelle cose, io ci tenevo tanto a quelle cose.

Josephine mi porse una tazzina, fui in grado persino di sussurrarle un grazie, e lei mi sorrise leggermente. Mi sgranchii la voce, guardando il colore scuro del tè, il profumo mi arrivava sin dentro le narici e si faceva un giro per la testa, come un treno viaggiava veloce. Sfiorai con un dito il bordo della porcellana, sorridendo tra me e me - che bella che era, la porcellana.

"Sono davvero belle, queste tazzine" - osservò lei, guardando tra le sue mani. "Josephine mi ha detto che sono le tue, è vero?"

Annuii leggermente, tenendo gli occhi fissi sul tavolo. Cominciai a girare il cucchiaino di ferro battuto dentro al tè, quel tanto per far sciogliere il miele che vi avevo aggiunto.

"Ma queste qui non si vendono in Inghilterra" - aggiunse, e corrucciò le labbra. "Sono francesi".

Feci cadere il cucchiaino nella tazzina, facendo un leggero rumore. Mi sistemai la testa sulle mani, cominciando a tirare le palpebre come se avessi visto qualcosa di terrorizzante - dovevo tenerle dentro, le mie cose.

"Sono francesi, allora?" - domandò ancora, e non so quale santo mi fermò dall'alzarmi e urlare che doveva tacere. "Anche il tè lo è" - ridacchiò.

"Puoi smettere di menzionare la provenienza di queste cose? Ti ringrazio" - dissi con voce tremante, guardando sempre il legno del tavolo.

"Oh, certo, scusami".

Il silenzio calò, il mio tè s'era fatto pure freddo, e il suo era finito. Josephine si sedette con noi e cominciò a parlarle, ridendo di tanto in tanto di cose che non stavo manco a sentire. D'un tratto m'ero fatto nervoso, le parole mi uscirono dalla bocca senza che lo volessi.

"Perché lei è qui?" - chiesi a Josephine.

Lei mi guardò, sospirando. "Come pensi d'esserci arrivato a casa, stanotte, mentre eri ubriaco?"

Voltai lo sguardo verso di lei, socchiudendo le labbra. Lei sembrò quasi vergognarsi, abbassò il viso e cominciò a guardare di soppiatto Josephine, come se cercasse qualche tipo d'aiuto.

Avrei voluto chiederle altro, ma non ne fui capace, allora abbassai di nuovo la testa sulle mie dita, rigirandole. Dopo che Josephine ebbe finito di sistemare il soggiorno e la cucina - la medesima stanza, in fondo - ci avvisò che sarebbe tornata a casa solo la sera, per alcune commissioni in paese.

Passarono diversi minuti in cui io e lei non riuscimmo nemmeno a sospirare, volevamo solo far finta che l'altro fosse sparito - era quello che lei pensava. A guardarla ti veniva voglia di sapere cosa si provasse a tirarle le labbra, a sapere di che sapesse la sua pelle del colore della neve. Ti veniva voglia di sapere come essere tanto bello e celeste potesse respirare davanti ai tuoi occhi senza strapparti via il cuore dal petto per tenerselo. Insomma, lei era davvero bella. Lei era bellissima, era la sua parola che non apprezzavo. Mi piaceva di più la voce dei suoi occhi, quella era bella tanto quanto lei. Poi, mi venne un'idea dettata dalla totale incoscienza, e mi divertii a metterla sotto con le mie proposte scomode.

"Posso sapere qual è il tuo nome?" - le domandai.

"Rose", sussurrò.

Annuii, poi mi alzai e le porsi la mano. "Senti un po', Rose, ti va di vedermi camminare sobrio o mi preferisci sbronzo?" - le mostrai un sorriso con tanto di fossette scavate sulle guance.

Sorrise un po', appoggiando la sua mano sulla mia. Con il pollice coprii le sue dita, poi uscimmo da casa e me la portai in giro, per il paese a vedere le drogherie con le spezie che venivano da lontano, o i negozi di pasticceria, dove si vendevano i confetti, oppure i giardini, ché a lei la spiaggia non piaceva.

Poi ce ne andammo in periferia, mi era piaciuto starle vicino e dirle tutto ciò che sapevo, dimostrare che pure un povero in una catapecchia sa essere colto e che lei, di conseguenza, non poteva sentirsi migliore. Ma quella passeggiata voleva essere pure un ringraziamento; io di tempo non ne dedicavo a nessuno, non stavo con nessuno, se non con Josephine, ma lei non era una compagnia tanto dilettevole come lo era quella di Rose.

Rose era giovane, teneva nemmeno diciott'anni e mi parlava come un coetaneo, quando io ne avevo quasi ventinove. Mi si parava davanti coi suoi occhi grandi e chiari e si divertiva a rendermi completamente dipendente da essi, mi piacevano assai, i suoi occhi. La feci sedere sulla staccionata in legno che si prolungava per poco, s'era tutta piegata. Lei era troppo corta, oh Dio, non così tanto, ma m'era scomodo. Quindi le tirai i capelli in una treccia che pareva grano al sole, e lei era raggiante.

Mi disse che le piaceva tanto ballare, che ogni tanto lo faceva con suo padre, e prese a fare giri su se stessa come se nessuno potesse vederla, e io mi misi a ridere. Poi mi prese le mani e cominciò a farmi girare con lei, ridendo e buttando la testa dietro, facendomi vedere il collo morbido del colore delle nuvole. Le clavicole sporgevano dal vestito e mi misi pure a guardarle, poi gli occhi scivolarono sulla scollatura del vestito mentre con una mano le tiravo la vita leggermente verso di me, lei che si piegava come lo stelo di un papavero al colore del tramonto. E rideva, mentre girava e si lasciava toccare come se le mie mani le conoscesse da sempre. Eppure sapevo appena il suo nome, di che colore fossero i suoi occhi.

Ma dopo aver passato quel pomeriggio con lei, ch'era meglio di una bottiglia di vetro, mi sembrava di aver scoperto tanto.

Mi pareva di conoscere meglio me stesso, dopo aver toccato la sua pelle e aver sentito la sua risata, dopo aver visto il suo corpo danzare agilmente sotto le mie mani.

E me ne andai a dormire col sorriso in volto, per Rose.


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