7. I'm getting way too deep

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«Sì.»

Nella mia intera esistenza non avevo ancora ascoltato un "sì" pronunciato in quel modo. Erano lotta, assenso, sottomissione e prevaricazione coagulati insieme in sole due lettere.

L'aveva pronunciato con un paio di ciglia che mi sfidavano, ma fingevano di asservirsi a me. Coi denti bianchi esposti, e la ferita della bocca che si allargò sensibilmente, sotto lo sforzo di un sorriso oltraggioso.

Strinsi il pugno attorno al tessuto della sua felpa e premetti le nocche sul torace. Infliggendogli una pressione che volevo fosse intimidatoria.

E anche lui strinse. Le sue mani sui miei fianchi. Con la forza di dita che comandavano senza ammettere repliche.

Ebbi la sensazione che ogni volta che fossimo insieme lui cercasse un contatto, un appiglio fisico al mio corpo. Come se toccandomi potesse illudersi di controllarmi.

Indugiò un paio di secondi studiando la mia reazione. Il sarcasmo sulle sue labbra sfregiate mi fece rabbrividire.

Mi strattonò. Una sola trazione secca, brutale.

Finii sopra di lui, a cavalcioni. Incastrata. Senza scampo.

Il mio corpo contro il suo. Le nostre mani ancora serrate: le mie sul tessuto e le sue su di me. Stavamo entrambi cercando di colpirci. Di trattenerci dalla smania di capirci, di studiare l'enigma che vedevamo l'uno nell'altra.

E quegli occhi nei quali non potevo fare a meno di riconoscermi. Di leggerci dentro una maledizione che mi parlava e mi sembrava sempre troppo familiare.

Mi sporsi in avanti, assicurandomi che la condanna nelle sue iridi si agganciasse saldamente alla mia.

«Non ho paura di te, Blaise.»

«No. Non hai paura di me, Lavinia.»

Le mani grandi, ustionanti, scivolarono verso la zona lombare. Mi attirò a sé accompagnando il mio bacino di modo che strofinasse sul suo cavallo.

E glielo lasciai fare.

Istinto. Rabbia. Potere. Fame. Mia e sua.

Lo assecondai muovendomi sfacciatamente in un percorso breve ma lento. Lo sfregamento di ogni centimetro delle mie cosce sopra le sue, compatte. Che si tesero di nervosismo non appena raggiunsi il suo inguine.

Avrei giocato al suo gioco. L'avrei fatto meglio di lui. E avrei vinto, la battaglia e anche la guerra.

Gli carezzai la clavicola e poi la spalla mentre con l'altra mano trovai l'incastro perfetto tra i suoi capelli sulla nuca.

Il risolino insolente che aveva scivolò via rapidamente, liquefatto sotto il bollore dei nostri bacini attaccati.

Tirai le ciocche corte che avevo afferrato e lui fu costretto a reclinare il capo, esponendo il collo. Divenne severo, con lo sguardo grave e le labbra schiuse. Il pomo d'Adamo salì lentamente quando lui deglutì.

Mi avvicinai al suo orecchio.

«Non mi fai paura.» Bisbigliai nuovamente, come fosse una promessa efferata.

«No.» Confermò lui.

E mi accorsi che avrei voluto. Avrei desiderato che mi facesse paura, che mi rendesse timorosa.

Invece mi scatenava dentro una detonazione di collera nucleare, che mi faceva venire voglia di combattere, di vincere con qualsiasi mezzo.

Mi sarei concessa tutto, sarei stata scorretta e si sarebbe pentito di essersi messo sulla mia strada.

𝐑𝐄𝐒𝐎𝐍𝐀𝐍𝐂𝐄Where stories live. Discover now