7. I'm getting way too deep

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Lo spintonai.

Una. Due. Tre volte.

Mentre lui restava immobile a guardarmi.

E sì, avevo mandato via tutti.

Lo studio era placido, a luci spente. Illuminato solo dal bianco lattiginoso di una mattina fredda. Tutto taceva. Le opere dormivano comode nelle stanze mute, e l'aria raccontava di una pace che io non avrei mai avuto.

«Dimmi. Parla!»

Lo colpii ancora mentre gli urlavo addosso a pieni polmoni. Sempre più forte. Sempre più vicino alla mia soglia di rottura.

Mi fissava dall'alto, impassibile.

Scrutava ogni mio gesto con quella calma letale di chi aspetta il momento propizio per colpire. Ma non reagiva.

Lasciava che continuassi a travolgerlo con il corpo. Con le parole. Con la bile che mi attraversava le braccia e trovava sfogo sulle mani che battevano contro il suo sterno.

Ogni impatto era una confessione non detta. Ogni colpo sul petto un tentativo di strappargli via la verità dalle ossa.

E lui restava lì. A reggere la mia furia. A incassare ogni scossa come se lo meritasse. Come se in qualche modo sadico, ne traesse piacere. Un piacere ferino, che teneva nascosto dietro la sua espressione monolitica.

«Mi devi dire cosa sai su di me. Pezzo di...»

Il suo sopracciglio si mosse. Fugace. Un guizzo d'espressione subito inghiottito dal marmo del suo viso imperturbabile.

Ma io l'avevo visto, ed era bastato a privarmi di ogni freno.

Lo spinsi ancora.

Stavolta vacillò. Non perché avessi vinto, ma perché si lasciò andare. Di proposito, come se stesse acconsentendo a qualcosa, o mi stesse sfidando ad andare oltre.

Quel silenzio infame che si ostinava a mantenere, caricò in me la furia necessaria a dargli un ultimo spintone, pieno di tutta la frustrazione che mi vibrava dentro ai muscoli.

Barcollò indietreggiando di poco. La sedia alle sue spalle lo accolse con lo sbuffo dell'imbottitura. E lui vi si adagiò pesante, a gambe larghe e mento alto. Come se, anche da seduto, mi stesse sovrastando.

Mi addentrai in quella zona pericolosa tra le sue gambe divaricate. Quello spazio in cui ogni gesto poteva diventare fatale.

Fu il mio errore.

Quando mi avvicinai, le sue braccia poggiate sui braccioli ebbero uno spasmo, come se volessero compiere un movimento che però aveva interrotto prima ancora di iniziare.

«Dimmelo.»

La pietra del suo viso si crepò davanti a un sorriso. Alzò un angolo della bocca, e solo allora lo vidi: un taglio sottile che gli offendeva il labbro inferiore.

𝐑𝐄𝐒𝐎𝐍𝐀𝐍𝐂𝐄Where stories live. Discover now