Avrei voluto attraversare il diamante, raggiungerlo, prendere quei fogli e strapparli davanti il suo viso. Avevo anche la frase perfetta da urlargli contro. "Se volevi conoscere il mio talento, avresti dovuto rimanere al mio fianco".

«Samuel, segui i miei comandi, non fare di testa tua», Chris mi diede una leggera gomitata e io annuii. Il ricevitore aveva il compito di suggerire al lanciatore, con dei gesti della mano libera dal guantone, che tipo di lancio fare, ma non sempre seguivo i suoi consigli; a volte mi prendevo la libertà di fare come mi pareva, obbligandolo a muoversi di più per afferrare la palla, perché arrivava dove non si aspettava.

Quella insubordinazione era poco accettata dal coach Moya, motivo per cui, spesso, Chris evitava di lamentarsene, per evitarmi guai. Ma avrei preferito da lui un po' più di coraggio, avrei preferito che mi "denunciasse" con Moya, che mi facesse passare i guai, perché stavo iniziando a credere che trattarmi sempre con i guanti fosse un modo per tenermi legato a lui.

«Seguirò i tuoi comandi finché li riterrò giusti», avanzai con ampie falcate fino a raggiungere il mound, ma Chris non si diresse verso la casa base, dove si sarebbe dovuto accucciare, bensì mi seguì e mi afferrò il gomito per farmi voltare verso di lui.

«Samuel, che ti prende?».

«Se non riesci a capire quale sia il mio problema, forse non hai il diritto di saperlo», strattonai il braccio per sfuggire dalla sua presa e gli indicai il punto del diamante che avrebbe dovuto occupare lui. «Scendi dal mound, questo è il posto mio».

Non si mosse, rimase al mio fianco, mentre il resto della nostra squadra e della Briza prendeva posto in campo.

«Non mi muovo da qui finché non ti sarai calmato».

Lo fulminai e nel farlo notai sul suo volto un'espressione estremamente preoccupata. Mi sciolsi e chinai il capo colpevole.

«Perdonami, Chris. Sto bene, sono calmo ora, sono pronto a giocare», allungai la mano verso la sua e le nostre nocche si toccarono. Avevo mentito, non ero pronto e non ero calmo, ma che avrei potuto dire? Non volevo nemmeno scendere dal mound, quel posto mi apparteneva, non mi sentivo mai abbastanza adatto al mondo finché non raggiungevo quella collinetta di terra. Lì sopra avevo una visuale differente di ciò che mi circondava e mi sentivo "giusto".

Ricevetti la palla direttamente dall'arbitro, che mi squadrò dalla testa ai piedi, poi tornai a guardare di fronte a me. Chris piegato sui calcagni e l'avversario con la mazza di legno sollevata.

Inspirai profondamente, lanciai un'occhiata a mio padre, che con i muscoli tesi guardava il suo giocatore, e poi tornai con l'attenzione sul guantone del mio capitano.

Devo solo lanciare la palla a Chris, nient'altro. Solo questo, pensai mentre sollevavo il ginocchio sinistro e mi chiudevo su me stesso per fare da involucro alla palla, pronto a lasciarla andare con un lancio possente.

Sentii le cuciture premere contro le dita, chiusi gli occhi un istante, cercando di concentrarmi sul filo che teneva tutta d'un pezzo la palla, e poi li riaprii di scatto e mi buttai in avanti disegnando un semicerchio con la punta del piede, per poi piantarlo nella terra e mandare avanti il braccio.

La palla sfrecciò in direzione del guantone di Chris, ma la mazza di legno si frappose un istante prima che il capitano potesse accoglierla nel suo palmo coperto.

La palla venne spedita oltre la mia testa, arrivando nel riquadro di terra tra la prima e la seconda base. Mi voltai alzando già la mano su cui indossavo il guantone e attesi che mi tornasse la palla.

Daniel corse, si piegò afferrandola e si girò verso Mark, il quale scosse la testa e indicò James, che già si trovava sporto in avanti con il guantone aperto nella sua direzione e con la punta del piede ancora sulla seconda base. La palla volò dall'esterno destro fino a James, il quale si voltò verso di me e mi passò di nuovo la palla.

La teoria dei calzini spaiatiOnde histórias criam vida. Descubra agora