«Posso fare qualcosa?» Afferrai il mio cellulare e aprii la chat con lui.

No. L'incubo passerà.

«Ti va di raccontarmelo?» I miei occhi si abbassarono ancor di più e solo in questo momento notai una delle sue mani coprire l'altra, chiusa in un pugno. Era così stretto da rendere le nocche giallognole. Il lenzuolo che tratteneva sembrava acqua agitata ma immobile. Era arrabbiato.

Ho sognato il Dottore e i miei genitori. Mi obbligava a far loro del male.

Non volevo dirgli che mi obbligava a farne anche a lui. Vederlo nel mio sogno, terrorizzato da me, mi aveva fatto uno strano effetto. Avevo ancora la potenza di quelle sensazioni alla fine della gola, che la stringeva forte come una mano.

«Scoprire dei tuoi deve essere stato molto da digerire.» Annuii. Era vero: scoprire che anche io avevo una famiglia era stato... surreale. «Quel bastardo non farà del male a loro. Probabilmente non sa nemmeno della loro esistenza.»

Lo sperai. Anche se non li conoscevo e non avevo con loro un legame affettivo, mi sarei sentito in colpa se fossero stati feriti a causa mia. La luce calda della lampada di fianco a Trevor gli disegnava confini lungo tutto il profilo del corpo. Mi era ancora strano trovarmi con delle persone nel mio spazio vitale e mi spaventava ancor di più la facilità con cui sembravo abituarmene. Il Dottore avrebbe detto che abituarsi era un istinto di sopravvivenza innato in ognuno di noi. Mi rendeva forte. Eppure io volevo solo smettere di esistere.

Con un movimento che gli servì per sciogliere la tensione trattenuta nei muscoli, Trevor si alzò dal letto. «Bene, Rovere. Andiamo a prendere un po' d'aria.»

Tese la mano verso di me. Un invito. Mi piaceva la sua compagnia, ma non potevo fidarmi. Non dovevo...

Accettai.

∆∆∆

Sapevo che le luci della città si stavano riflettendo nei miei occhi. Non avevo mai visto così tante luci in un solo posto, così come non avevo mai visto così tante case. E macchine. E persone. Un leggero vento mi soffiava in faccia, dispettoso, ma non osai nemmeno una volta a stringere le palpebre per evitarlo. Lasciai che i miei occhi lacrimassero senza un vero motivo. Le mie dita stringevano il ferro della balaustra, alta quasi fino al mio petto. Era fredda e mi teneva ancorato alla realtà. Mi faceva venire voglia di gridare, lasciare che l'aria portasse via quel peso che la mia voce mancante ancora nascondeva. Trevor, al mio fianco, dava le spalle a quello che per lui doveva essere la normalità. Con la parte bassa della schiena era appoggiato al parapetto e guardava verso di me. Le mani nelle tasche e i capelli che fluttuavano ad ogni soffio dispettoso. 

 «Ti piace?» Il suo sguardo si tinse di curiosità. 

 Annuii e inspirai. I profumi e gli odori della città si scontrarono in fondo alla mia gola, creando una fragranza diversa ad ogni respiro. Ridacchiai. 

«Cosa c'è di divertente?» Tastai le tasche per cercare il cellulare ma non lo trovai. 

Aggrottai la fronte, confuso: credevo di averlo con me. Non avevo fogli o matite da poter usare. Il ragazzo se ne accorse e mi passò il suo dispositivo. Di nuovo, accendendosi, comparve l'immagine di una finestra colma di luce opaca. Al centro stazionava una persona, un ragazzo, con in mano un libro. La sua silhouette mi sembrò familiare, ma scomparve in fretta.

«Ecco, scrivi qui.»

I profumi sono divertenti. Sono tanti, strani. Un po' diversi. Non mi ricordano il sentore di alcool o disinfettante.

I muscoli della mascella s'irrigidirono, ma Trevor non mancò di mostrarmi un sorriso. «Se non sarà strettamente necessario, non dovrai più preoccuparti di sentire quegli odori.»

The Voices I've LostWhere stories live. Discover now