"Mi è sempre piaciuto guardare dentro le finestre illuminate

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"Mi è sempre piaciuto guardare dentro le finestre illuminate. Non per rubare o altro. Io voglio vedere la vita reale che le persone conducono dietro quei fragili vetri. L'ho sempre trovato molto più interessante delle loro maschere sociali. Forse è per questo che la tua finestra mi ha colpito più delle altre. Ora non faccio altro che guardarti. Ti vedo. Sempre. In ogni tuo movimento. Ne sono quasi ossessionato. E spesso, ciò che quelle mura mi rivelano, non mi piace affatto."

Questa fu la prima lettera che ricevetti. Una lettera anonima in tutto. Battuta con una vecchia macchina da scrivere, su un normale foglio bianco. Nessun profumo, se non carta. Nessun segno del passaggio di una persona. L'unica cosa che riusciva a donarmi era una scarica di brividi e speranza, che pensavo di aver perso da tempo. Un'altra persona conosceva il mio segreto. Quel segreto che ora bussava insistentemente alla mia porta. Fissai le pupille al vetro che mi divideva dal mondo esterno. Mi sembrò di scorgere una figura là, nell'ombra più tenebrosa. Probabilmente era solo il mio desiderio di fuggire. La luce artificiale m'impediva di vedere altro, se non il mio riflesso.

Ingoiai la voglia di gridare. Ancora pochi secondi e la porta si sarebbe spalancata su un futuro prossimo molto simile ad ogni mio giorno passato. Nascosi la lettera sotto il cuscino. Ancora non sapevo com'era entrata, dato che ero sorvegliato ogni attimo della giornata. Il tonfo del metallo contro il muro mi fece accapponare la pelle. «Avanti n° 16-318L. È il tuo turno. Muoviti.»

Un uomo più grande e muscoloso di me, mi afferrò per il braccio. Forte. Già sentivo le sue impronte sulla pelle. Presto sarebbero state blu. O violacee. Non avevo mai imparato bene i colori o come sfumassero sulla mia epidermide. Non opposi resistenza. Era pressoché inutile: mi avrebbe fatto solo più male. Erano anni che, ogni notte, venivo preso con la forza e trascinato per ripetere lo stesso supplizio. Il corridoio bianco, le porte nere. Solo una di esse era diversa. Aveva il colore dei miei capelli. O del cioccolato, che ero sicuro di aver mangiato almeno una volta da bambino. Prima che lui mi prendesse. Camminai in silenzio. Io non parlavo. Non più. Da quando avevo capito che le mie urla e le mie suppliche non avrebbero fermato tutto questo, avevo deciso di non emettere più un suono. Per questo mi avevano insegnato a scrivere e leggere. Dovevo comunicare con loro. Obbligatoriamente.

Superammo la porta del colore differente e puntai le iridi sul mio posto. Non volevo vedere altro. Il lettino color livido era freddo in attesa del mio corpo. Al suo fianco c'era una finestra. Uno scorcio sul giardino esterno. Qualcosa si mosse in quella direzione e il mio cuore iniziò a battere potente. Vivo. Poi si fermò quando il riflesso inquadrò meglio il proprietario del movimento. L'uomo, o come preferiva essere chiamato, il Dottore si era avvicinato a me. «N° 16-318L, prendi posto sul lettino, per favore.»

Poteva sembrare gentile, paziente addirittura, ma il mio incisivo spezzato mi ricordava ogni giorno che non lo era. Eseguii l'ordine e ben presto le cinghie strinsero varie parti del mio essere: fronte, spalle, polsi, busto, ginocchia, caviglie e la mia anima a pezzi. Il Dottore era un uomo di mezza età. I capelli erano lunghi, sempre tenuti in una coda scarna. Avevano il colore di uno dei liquidi reagenti che dovevano somministrarmi. Quello che mi faceva bruciare ogni capillare nel corpo. Prese proprio quella siringa. Che colore era? Non lo conoscevo. Assomigliava alla calda luce dell'abat-jour che tenevo accesa da bambino per passare la notte. Avevo ancora paura del buio, ma adesso dovevo conviverci.

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