11. Piltrafilla

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Matilde li attendeva seduta nel salottino dell'agenzia. Stava riempiendo un documento appoggiato su una cartellina arancione. Quando Henar aveva aperto la porta d'ingresso, aveva sollevato gli occhi, ma ruotando leggermente la testa per permettere a quello destro di mettere bene a fuoco.

"Ciao a tutti" disse semplicemente.

La casa non era cambiata di un millimetro e Ivan si ritrovò sorpreso dinnanzi a quella banalità. Nessuna pozza di sangue sul mosaico fiorito dell'ingresso, niente grida né piatti lanciati contro le pareti. Non sapeva perché si era immaginato quello scenario, ma sicuramente non si aspettava quella quiete, interrotta solamente dallo scricchiolio del legno, dal soffice fruscio dalla penna della dottoressa sulla carta e dalle vocine dei gemelli, che pigolavano in qualche angolo della casa. Il salottino era imbevuto del profumo di vino speziato della medica, tanto che a Ivan girò un poco la testa, come se stesse respirando una nube di etanolo.

"Ciao. Victor è tornato?" domandò Henar. La donna annuì e poi lanciò un'occhiata in direzione di Ivan ed Eriel. Il ragazzo sapeva che stava guardando lui. Deglutì a fatica, ma non c'era abbastanza saliva tra le sue mascelle. La sua gola emise un leggero crepitio.

"Sì" ribatté Matilde. Fece scattare due o tre volte la punta della sua penna, prima di aggiungere: "Non era solo. È andato direttamente nel laboratorio. Non è in casa".

"Deve essere andato in montagna" rifletté Henar, con un sospiro. Respirò a fondo e raddrizzò le spalle. "Non fa niente. Dopo gli parlerò. A te ha detto qualcosa?"

L'altra annuì e il suo occhio sano si posò di nuovo su Ivan. "Vuole conoscerti".

"Immaginavo" rispose per lui Henar, "C'era da aspettarselo. Beh, con calma. Una cosa alla volta".

"Era calmo, comunque" confermò Matilde, come se quella potesse rappresentare una timida consolazione. "Deve aver... consumato la sua rabbia". Non attese che nessuno ribattesse a quello strano e inquietante commento. Si alzò in piedi, appoggiò la cartella sulla poltroncina e stirò le pieghe dei suoi larghi pantaloni. "Devo andare. Invierò a Joel le analisi dei bambini, tutti gli altri parametri sono positivi. Tornerò la settimana prossima per te, Eriel, e se vuoi anche per te, Ivan".

I due adolescenti annuiscono all'unisono ma Ivan sentì il proprio collo rigido come un cardine arrugginito e il movimento risultò meccanico e goffo. Henar si voltò a guardarli e disse: "Andate a cambiarvi. Per oggi è finita".

Era chiaro che volesse rimanere sola con Matilde. Eriel fa un cenno di saluto alla loro ospite e si avviò verso la porta che conduceva al piano superiore. Non aveva aperto bocca dal momento in cui Lutxi era stata caricata sulla scintillante astronave che avrebbe permesso la sua metamorfosi a sostanza inorganica. Ivan rimase ancora per un secondo immobile lì, piantato al centro del salotto. Henar gli lanciò un'occhiata distratta mentre si avvicinava a Matilde, poi il suo cervello parve assimilare il suo ritardo nell'obbedire alla sua richiesta, così si voltò direttamente per fronteggiarlo.

"Devo... devo presentarmi da solo?" domandò con un filo di voce. Lo sguardo freddo e scostante di Henar si ammorbidì in qualcosa di più gentile e comprensivo. Fece un cenno di diniego con la testa.

"Te lo presento io. Torna qui tra dieci minuti. Cambiati".

Ivan annuì e non chiese altro. Si mosse rapido e si chiuse la porta alle spalle, ma quando fece per appoggiare un piede sul primo scalino, il suo fine udito da Indeseable percepì di nuovo la voce della ragazza aldilà del battente.

"... è peggiorato. Continua a peggiorare". La voce di Henar era acuta, uno squittio carico di apprensione. Ivan sapeva che avrebbe fatto meglio a farsi gli affari propri, ma c'era qualcosa in quella giovane donna che continuava a sfuggirgli e che lo turbava. Tornò ad avvicinarsi alla porta e appoggiò l'orecchio contro il legno fresco.

"Devi stare calma. Se ti agiti, se continui a pensarci, peggiorerà sicuramente".

Il tono di Matilde non esprimeva grandi preoccupazioni. Sembrava quasi che stesse parlando con una bambina ipocondriaca.

"Devi darmene altre. Queste non funzionano più. Ho paura che se io non..."

"Henar. È probabilmente tutto nella tua testa. Gli esami sono uguali a sempre, non hai alcuna carenza. Il tuo corpo non..."

"Non sappiamo cosa stia succedendo a questo cazzo di corpo".

Era la prima volta che Ivan udiva una parolaccia proferita da Henar. Si sentì turbato, come se quella fosse una normalissima conversazione e non uno scambio altamente sospetto.

"No, non lo sappiamo con certezza, ma ti posso dire che nulla sembra essere cambiato. La scienza è scienza, o mi sbaglio?"

Nessuna risposta da Henar.

"Ne abbiamo già parlato tante volte" continuò Matilde, più dolcemente. "E ti è già successo. Sei molto stressata, tesoro. Sei solo molto stressata. Soprattutto dopo quello che è accaduto a Lutxi. Senti che stai perdendo il controllo, come succede a qualsiasi altro umano durante i momenti di grave stress".

Il fruscio che seguì quelle frasi fece capire a Ivan che le due si stavano abbracciando. Era sufficiente: fece gli scalini a due a due e arrivò al piano superiore, con la gola ancora più secca di prima. Eriel non era in vista, sicuramente si era già chiuso nella sua stanza o era sparito nell'aria polverosa di quella mattinata uggiosa, come succedeva spesso. Ivan non se ne curò. Ubbidì al consiglio di Henar, si cambiò gli abiti da lutto e indossò il maglione e i jeans che la ragazza gli aveva procurato. Si guardò nello specchio nascosto dentro l'armadio che era appartenuto a Lutxi, e che adesso era suo, anche se il lato occupato da lei era rimasto, come una specie di angolo dei ricordi. Nonostante fosse passata poco meno di una settimana dall'inizio della sua nuova vita, faceva fatica a riconoscersi. Era sempre stato macilento, capelli stopposi e poco puliti, viso scavato e occhi circondati da una spessa banda nera. Ora, invece, il ragazzo che ricambiava il suo sguardo sulla superficie riflettente aveva luminosi capelli biondi, che iniziavano ad essere un po' troppo lunghi, un volto dalla pelle rosea e le occhiaie erano quasi del tutto scomparse. Che fosse merito della carne umana era indubbio, ma Ivan ricacciò malamente indietro quel pensiero. Joel non era stato in grado di spiegargli niente sulla natura di quella... poteva chiamarla malattia? Sì, l'avrebbe definita così da quel momento in avanti. La loro malattia aveva cause sconosciute, aveva detto, anche se era probabile dipendesse da un microorganismo, perché era contagiosa.

"Come gli zombie. O i vampiri" disse a bassa voce. Peccato che non avesse acquisito nessun benefit extra da quell'acquisto, a parte non riuscire a deglutire biscotti e sentire la necessità di uccidere senzatetto per mangiarne gli organi interni. Scosse la testa, ripensò ancora una volta a Lutxi. Chissà se il suo corpo aveva già perso sembianze umane. Chissà se, una volta distrutto l'involucro, lei non sarebbe più tornata a fargli visita.

No. Lei è dentro di me. Vive con me.

Udì la porta che conduceva alle scale aprirsi e chiudersi. Poi passi. Chiuse l'armadio, perché Henar stava sicuramente venendo a cercarlo. Non si ricordò subito che la donna gli aveva dato appuntamento nel salotto, ma quando realizzò, ebbe solo un secondo libero prima che la porta della sua stanza si spalancasse di botto. Si voltò preso alla sprovvista e si trovò davanti uno conosciuto molto alto, vestito con un pesante maglione nero. I suoi occhi erano nascosti da una larga frangia di capelli scuri, ma sul suo viso cavallino, dal colorito olivastro, si aprì un largo ghigno di denti storti quando Ivan lo guardò.

Percepì solo confusamente lo sbattere di un'altra porta, perché in quel momento non esisteva nient'altro che quel tizio, che gli bloccava la via di fuga con il suo corpo allampanato. In lontananza, udì la voce di Henar che gridava un nome.

Beh, troppo tardi.

"Finalmente ci conosciamo, piltrafilla".

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