L'Altrove

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La stazione sembrava sempre la stessa: le cartacce che sfuggivano dai cestini colmi cavalcando una folata di vento, il disegno osceno aggiunto al sorriso smagliante della pubblicità di un dentista, un paio di persone annoiate in attesa del loro treno. 
Da qualche parte sopra di loro, la granisca infuriava. A Ivan era sempre piaciuto nascondersi nelle metropolitane quando il cielo si faceva sulfureo. Si sentiva al sicuro sottoterra, come un furetto, anche se sapeva che così si poteva morire intrappolati a causa dell’acqua, se la tormenta decideva di dare il meglio di sé per tutta la notte. 

Era seduto su una panchina e stava sudando copiosamente. Non si sentiva tanto bene, eppure eccolo lì, in stazione Alameda, ben lontano dal suo quartiere. Non ricordava come ci fosse finito, ma non dava troppo peso a questa mancanza: era troppo instupidito dalla sete. 

“Perché Oleg non mi ha portato l’acqua?” si domandò ad alta voce, con un accenno di sdegno.

“Non c’è acqua che possa calmare quella sete” affermò una voce femminile alla sua sinistra.

Ivan piegò lentamente la testa in quella direzione e rimase stolido ad osservare la ragazza che aveva parlato. Era in piedi, a un metro da lui. La riconobbe subito.

“Lutxi?” domandò, con un filo di voce.
 
“In carne e ossa. O quello che ne rimane” rispose lei, aprendosi in un sorrisetto di dentini aguzzi. 

Era esattamente come la ricordava. Una di quelle persone dall’aspetto eternamente giovane. Aveva un viso a forma di cuore, un nasino aguzzo e due occhi neri che brillavano come ossidiana. Le punte dei capelli lisci le incorniciavano le guance e il cerchietto di perline color crema luccicava sotto la luce giallastra che filtrava dai grandi finestroni sopra di loro. Aveva ancora la pelle d’oca sulle braccia e sulle gambe lasciate scoperte dalla poca stoffa che la ricopriva. Si dondolava sulla punta nei piedi, che calzavano un paio di semplici sandali di pelle. 

Ivan non sapeva cosa dire. Lei era morta, se lo ricordava chiaramente. Una metropolitana le era passata sopra, probabilmente tagliandola a metà o rompendola in mille pezzi, come una bambola di porcellana. 
“Tu sei morta” sussurrò.

Lutxi annuì sorridendo. “Sembra di sì. Non ho sofferto, se è questo che ti preoccupa. È stato veloce. Non ho sentito niente”.

Il ragazzo si portò le mani al volto, si afferrò con forza i corti capelli biondi. Aveva bisogno di provare dolore. 

“Non avrei voluto ucciderti. Tu mi stavi… non lo so cosa mi stessi facendo. Ma ho avuto paura”.

Lei annuì di nuovo, comprensiva. “Lo capisco. Non sono arrabbiata con te”.

“Allora perché sei qui?”

“Perché io ora vivo qui. Ti ho morso e tu mi hai ucciso, quindi mi devi un posticino in questo mondo e nella tua testa, non pensi?”

Ivan alzò gli occhi e la osservò tra le dita che ancora tenevano strette le sue ciocche. No, non capiva. Il sorriso da faina di Lutxi si allargò e i suoi occhi brillarono divertiti, come quelli di una bambina impegnata in un gioco eccitante. 

“Avremo tempo di conoscerci meglio. Ora io sono una parte di te, e tu sei una parte di me. La tua vita non sarà più la stessa”.

“Morirò d’infezione?” chiese lui, preoccupato. Lutxi scosse la testa e rispose: “No. Ma quando ti sveglierai, non sarai più quello di prima. Sarai affamato. Asseconda il tuo desiderio”.

“Cosa vuol dire? Quale desiderio? Io ho la febbre, non voglio mangiare”. 

“Non potrai capire fino a quando non avrai provato la fame”.

Lutxi gli si avvicinò e si sedette al suo fianco. Rimasero lì in silenzio, entrambi con gli occhi bassi, come se fossero amici di lunga data e non fossero necessarie altre parole. Ivan ne era pieno, ma non sapeva come lasciarle uscire. Erano incastrate in gola come caramelle rotte. Non poteva deglutirle e non riusciva a sputarle. Avrebbe voluto sapere perché lei aveva quegli strani denti aguzzi e gli occhi grandi, voleva sapere perché l’aveva morso con così tanta ferocia, ma più di tutto voleva sapere perché non era arrabbiata con lui. 

“Avremmo potuto essere amici nella vita vera” disse Lutxi, come se gli avesse letto nel pensiero. “Mi saresti piaciuto. Anche mia mamma non c’è più. E so cosa sei, da dove vieni. Cosa hai dovuto vivere”. Si interruppe e dopo qualche istante di silenzio, terminò: “Ora non siamo nemmeno più così diversi”.

La ragazza sollevò una mano e strinse una delle sue. Ivan si accorse che aveva le unghie corte, ben tagliate e dipinte di un grazioso rosso chiaro. All’anulare sinistro portava un piccolo anello d’oro, un semplice cerchietto senza decori. 

“Perché sei nella mia testa?” si limitò a gorgogliare, incapace di chiedere di più.

Lutxi sorrise di nuovo. “Perché questo è il mio Altrove. Ma ora è tempo di svegliarsi”. 

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