10. Addio e bentornato

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Joel li caricò tutti sull'unica automobile privata della famiglia, una Peugeot tipo berlina color grigio perla. In silenzio iniziò a guidare verso la periferia estrema di Valencia, dove si trovavano le centrali di acquamazione.

Non era più legale cremare i morti, Ivan lo sapeva. L'Unione Europea – quello che ne rimaneva – aveva promulgato nuove proibizioni quando i gas serra aveva iniziato a raddoppiare le proprie concentrazioni in atmosfera nel giro di cinque anni. Ora solo le persone ricche potevano permettersi una tomba con dentro un corpo ancora intatto, tutti gli altri dovevano accontentarsi di essere acquamati.

Il metodo non era affatto nuovo, gli aveva spiegato Joel durante un pranzo. Era stato usato da anni per eliminare i resti infetti degli animali da reddito, ma poi era diventato interessante anche per gli umani, perché inquinava poco e non era troppo costoso. Ora, tutte le grandi città spagnole avevano almeno un impianto pubblico dove i morti terminavano la propria corsa, in una speciale cisterna con acqua bollente e potassa.

Ivan non sapeva cosa pensare di quella situazione. Ricordava chiaramente il pastore della chiesa ortodossa tuonare contro i nuovi obblighi imposti dalla città verso i morti di tutti, nessun gruppo religioso escluso. Per la loro chiesa era una cosa proibita. Ma nessuno di loro aveva mai avuto i soldi e il potere per contrastare quelle nuove leggi.

Anche sua madre era finita nella cisterna. Ivan serrò forte gli occhi nel tentativo di bloccare i ricordi, ma l'immagine di una minuscola urna bianca di plastica gli violentò il cervello. Non era mai andato a visitarla, nel ristretto cimitero slavo dietro la stazione dei treni. Le sue ceneri erano affondate nella stessa pozza di catrame dove era annegato il suo cuore, tanto tempo prima.

Si rese conto che erano arrivati a destinazione solo quando udì la portiera del guidatore sbattere.

"Tutto bene?" gli domandò Eriel in un sussurro, quando anche Henar fu scesa dall'auto. Ivan fece un cenno affermativo senza guardarlo e seguì gli altri.

La centrale dove li attendeva il corpo di Lutxi era la più nuova e moderna del poligono industriale. Un piccolo palazzo di vetro e acciaio dai riflessi azzurrognoli, con porte automatiche e una hall minimalista ricolma di fiori bianchi e rosa in vasi di cristallo. La signorina alla reception, una biondina che profumava di cannella, riconobbe immediatamente Joel e lo accolse con un sorriso triste. Non vi fu bisogno di indicazioni né di accompagnamenti: presero un ascensore fino al primo piano ed entrarono in una stanza che era segnalata con il cartellino cappella ecumenica.

Lutxi non era stata preparata alla loro funeraria. Joel e Henar – Ivan l'aveva scoperto solo quella stessa mattina – lo avevano fatto direttamente alla centrale, dove la polizia aveva lasciato il corpo in sommario ordine. Il disastro che aveva prodotto era troppo grave per uscire da lì.

La cappella era piccola, con una ventina di sedie di legno sistemate a semicerchio davanti a un minuscolo altare, un semplice blocco di marmo senza pretese. Non vi erano figure di santi né riferimenti biblici, ma solo vetri colorati di verde, rosa e arancione, sapientemente illuminati da calde lampade color mandarino. Il profumo di decine di persone diverse si mescolava all'olezzo di detergente chimico disinfettante.

La piccola bara di compensato era già lì. Per un terrificante istante Ivan pensò ai denti che ancora luccicavano candidi nella metropolitana, non ancora ritrovati dal personale di pulizia incaricato, ma Lutxi non era visibile. La bara era chiusa.

"Dio mio" sussurrò Joel, in un sussurro impercettibile ma così carico di dolore che il ragazzo si sentì morire. Avrebbe voluto strapparsi il cuoio capelluto, le guance, cavarsi gli occhi dalle orbite. Forse l'unico modo per risarcire quel dolore. Invece, si sedette rigidamente su una di quelle scomode sedie, sul lato sinistro del corridoio. Henar era in piedi, una mano appoggiata al compensato, gli occhi bassi, come se fosse capace di fargli una radiografia e osservare il corpo della sua defunta compagna. Quando alzò lo sguardo e incrociò quello di Ivan, non c'erano lacrime, ma solo uno stillicidio di rabbia repressa. Era acido, arancione fosforescente, in quelle iridi color ambra. Ivan lo sostenne. Se non poteva farsi del male, quantomeno poteva accettare che gliene facessero.

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