Capitolo trentaquattresimo

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Ma ottenne l'effetto contrario di ciò che desiderava. Io ero un bimbetto chiuso, timido e spaventato, e la soggezione che provavo nei suoi confronti mi faceva tremare le gambe e mi rendeva pure stupido. Vivevo con l'ansia e il timore di sbagliare, e morivo dalla paura ad ogni suo giudizio.

Così, quando arrivò il fatidico giorno in cui volle farmi incontrare con mio nonno – ero, sappiatelo, un fanciulletto di appena sette anni-, lo delusi nella maniera peggiore. Ricordo ancora perfettamente quella mattina: mi vestì coi migliori abiti da signorino che avevo e mi lustrò al massimo delle mie possibilità; poi mi rivolse un acceso sorriso che non mi aveva mai concesso, come se stesse mirando, in modo commosso, il bagliore della speranza e del successo in me, e mi spronò a fare del mio meglio con un ardore gioioso e fiducioso che mi fece sentire in impaccio. Dopodiché si misero in ghingheri anche lui e mia madre e partimmo per Londra. Per tutto il viaggio non fece che ripetermi cosa dovevo fare, mettendomi solo maggiore ansia e angoscia.

All'arrivo di fronte alla villa degli Harrington non ci fecero accomodare al suo interno come sperava, e ci lasciarono in attesa fuori dalla porta per un lasso di tempo che mi parve insuperabile; eppure mio padre, pur accennando del nervosismo, si mantenne placido e ottimista, coi suoi occhi verdi – erano dello stesso colore di quelli di mio nonno Ernest- luminosi e pieni di speranza. Quando la porta venne aperta non ci trovammo davanti, come ben potevamo immaginare, mio nonno, bensì il suo fidato maggiordomo che ci squadrò con sospetto. Mio padre iniziò subito a parlare con grinta, presentandomi lodandomi di complimenti fittizi e che non meritavo affatto, e quelle menzogne mi misero pressione e imbarazzo; mentre mia madre restò in silenzio affidando, come sempre, tutta la faccenda passivamente a lui.

Arrivò poi il momento in cui dovetti parlare io: il maggiordomo mi chiese semplicemente di presentarmi, eppure, quella sola domanda unita a tutta la mia tensione, mi fece andare in panico ed esitai – e sospetto anche che divenni pallido come uno straccio, visto che mi sentii mancare al punto da dovermi aggrappare al pantalone di mio padre-; iniziai a tremare col cuore che esplodeva nel piccolo petto, e osservai per primo il volto di mio padre: rimasi pietrificato quando mi accorsi che, di fronte alla mia deludente e impacciata esitazione, mi stava guardando sconvolto da un turbato disprezzo, come se tutte le sue speranze stessero andando di colpo in frantumi per colpa mia! Così agitato spostai lo sguardo in cerca di aiuto su mia madre: lei aveva la testa bassa e non mi guardava nemmeno, circondata da chissà quali pensieri. Caddi ancor di più nell'angoscia ed iniziai a sudare freddo, deglutii amaro e sollevai lo sguardo spaventato, intravidi un altro uomo distintamente vestito alla finestra: era mio nonno; tutti gli occhi erano puntati su di me e la mia inadeguatezza, e mio padre era già deluso e pieno di vergogna. Le lacrime iniziarono a sgorgarmi automaticamente dagli occhi, rigandomi le guance, e con voce tremante e piagnucolante risposi stupidamente alla domanda del mio interlocutore che "non sapevo", come se in quel momento non mi ricordassi neppure il mio nome.

Mio nonno tirò le tende, e il maggiordomo, dopo avermi dato un'occhiata di disgustato e altezzoso scherno, chiuse la porta di fronte a noi senza aggiungere parola alcuna; venni preso senz'altro per un demente da evitare, dopo quella scena ridicola e vergognosa, e quanto più sarebbe stato un disonore riconoscermi in famiglia.

Come potete ben immaginare, dopo tutti i suoi vani sforzi, mio padre andò su tutte le furie e, dopo un viaggio d'inferno, una volta giunti a casa mi aggredì verbalmente con una rabbia disumana; io mi misi a piangere e chiesi perdono in modo patetico, che era l'unica cosa che sapevo fare, e lui rispose picchiandomi, così che, oltre al bruciore agli occhi per le troppe lacrime, sentii anche le guance in fiamme. Dopodiché mi cacciò con disprezzo in camera mia per non dovermi più vedere e sopportare.

Mi rifugiai con la testa sotto alle lenzuola credendo scioccamente che mi potessero proteggere – come sono stupidi i bambini! La giovinezza non è altro che fragilità ed ignoranza, tutte cose di cui mi sono vergognato!-, ma continuai a sentire la sua voce nell'altra stanza che si accaniva su mia madre: le diede la colpa di aver messo al mondo un figlio buono a nulla, e la rimproverò in modo orribile dicendo che l'inutilità sua e mia si erano rese così tanto odiose a lui da non riuscire più nemmeno ad amarla – ed era una menzogna, Diavolo che non era altro! Perché io so, un essere crudele e taccagno come lui, che anelava solo ai suoi soldi, non l'aveva mai nemmeno veramente amata!-

Gridò ancora finché non si fece notte fonda, tra le suppliche languide di mia madre che cercava stupidamente il suo perdono; e anche quando tutto tacque io non riuscii a chiudere occhio, passando una nottata infernale. Rimasi a singhiozzare con il lenzuolo stretto tra i denti per impedire che si sentissero i miei miserevoli gemiti, e non feci altro che domandarmi cosa vi fosse di tanto sbagliato in me, fino a domandarmi perché fossi venuto al mondo, per soffrire a quel modo. Cominciai a credere che Dio si fosse scordato di me, anche perché se il Signore mi doveva amare come un padre, io non sapevo di cosa si trattasse questo agognato amore.

Il mattino seguente a quella discussione lui se n'era già andato, e mia madre crollò per la prima volta. Ancora debilitato da quella notte insonne, e con gli occhi tutti rossi e gonfi dal pianto, da bravo bambino sciocco cercai almeno il conforto di mia madre, ma mio nonno non me la fece vedere dicendomi che era a letto malata – e sia lui che mia nonna Harriet, per quanto mi abbiano voluto bene, non sapevano che chiedere solo scusa passivamente, come facevo io con mio padre-. Non compresi subito la sua malattia, o almeno quelli che erano gli inizi di essa.

Mio nonno sapeva ch'era pazza, ne stava dando tutti i sintomi coi suoi nervi deboli, e forse come lei lo erano stati anche i suoi avi; qualcuno dice che la pazzia sia ereditaria, e per questo quando vi è un caso in famiglia si cerca di tacerlo il più possibile, per evitare la vergogna e l'infamia collettiva. Io son quasi certo d'essere pazzo come lei, e mia moglie, condividendo parte del mio stesso sangue, mi dimostrò con certezza di appartenere a questa orribile categoria.

Ma, oh, mia dolce Sophie, cosa sono quegli occhi lucidi e addolorati? State provando compassione?» domandò fissandola.

«Ne provo, signore, mi dispiaccio per voi!» annuì Sophie.

«Siete troppo buona, è comprensibile», la interruppe lui, «Ma non sono un Santo; l'accetto perché vi amo, ma non la merito come ogni buon sentimento che mi riservate. Lasciate che termini il racconto.» Sophie stette in silenzio, con il cuore stretto nel petto, e un forte desiderio di abbracciare e confortare il suo sfortunato amato.

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