Odio

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Le notti che sono seguite sono state anche peggiori. Ogni sera era un continuo ripetersi di incubi, dove le persone non facevano altro che abbandonarmi. Mi svegliavo nel bel mezzo della notte gronda te di sudore, col respiro affannato e la voglia di sprofondare nel buio. Discutevo quotidianamente con mia madre, anche per cose stupide ed inutili. Qualsiasi cosa era un pretesto per iniziare a litigare; e allora noi ci urlavamo contro, ci ferivamo con cose che non pensavamo e sanguinavamo. E ogni giorno il solco che ci divideva si allargava, allontanandoci sempre più. Ma nessuno dei due aveva intenzione di fare qualcosa per sistemare la situazione.
Poi quelle parole tornavano la sera, pronte a tormentarmi nel mondo dei sogni. Non avevo un luogo in cui rifugiarmi; non sapevo dove scappare per porre fine a quell'inseguimento. Volevo soltanto vivere tranquillo. Niente paranoie. Niente insulti. Niente litigate. Niente urli. Solo io e il silenzio della mia mente.

Il tempo passava e l'università si avvicinava, giorno dopo giorno. A quel punto avrei solo dovuto in quale studiare: ormai la carriera e l'indirizzo erano stati scelti. Avrei fatto il calligrafo; avevo sempre avuto una buona grafia, almeno secondo i professori. Inoltre il percorso di studi era colmo di argomenti che avevano catturato la mia attenzione, spiengendomi verso quella direzione. Da quello che avevo visto i calligrafi erano anche ben pagati, cosa che aveva certamente influito sulla mia scelta.
Avevo cercato le università in cui era presente l'indirizzo che avevo scelto: ce n'era parecchie a Tokyo, naturalmente, di buona fama, ma erano troppo costose e lontane da Okinawa. Dopo svariate ricerche finalmente riuscii a trovarne una che rientrava nelle mie condizioni: una retta che potevo permettermi, famosa per essere ottima e soprattutto ad Okinawa. Sarei potuto rimanere lì, senza dover obbligatoriamente lasciare i miei amici e rifarmi completamente una vita. Preferivo che fosse così.
Così tutto ciò che rimaneva da completare era studiare per superare con il massimo dei voti la scuola. Passavo pomeriggi interi sui libri, studiando, preparando schemi e facendo approfondimenti. Inziia o il pomeriggio presto e continuavo fino a tarda sera, facendo raramente delle pause per bere tazze di caffè. Anadavmo avanti così e speravo che nessuno si accorgesse di cosa stavo combinando al mio corpo; anche se, nel profondo, sapevo - o forse speravo, che primo o poi lui se ne accorgesse; che, come sempre, mi salvasse da guai in cui mi ero ficcato di mia volontà. Ci speravo veramente. Ma mi ripetevo che nessuno mai avrebbe voluto immergersi in quelle sabbie mobili solo per la speranza di salvarmi, non rendendomi conto che ormai Kojiro ci era immerso per metà corpo. Forse un po' di più.

Mi mancava andare in giro per la città senza nessuna preoccupazione. O meglio, mi piaceva farlo lasciandomi tutti i problemi alla spalle. Li dimenticavo e lasciavo la mia testa vuota, disposta ad accettare soltanto idee su come svuotarlo ancora di più. Mi piaceva diventare finalmente me stesso fuori da quelle quattro mura, diventate la mia prigione con il passare degli anni. Le sentivo strette intorno a me: vivevo lì dentro nell'attesa di uscire. Preferivo rimanere a scuola anche tutto il giorno pur di non tornare lì dentro. Niente era veramente mio, nemmeno la mia stanza; i poster attaccati, lo zaino per terra, le lettere e le polaroid appese in giro. La lampada da scrivania che possedevo da quando avevo appena sei anni, che illuminava la zona in cui erano poggiati miei libri. Il letto ad una piazza e mezzo, sui cui mi addormentavo ricordandomi la sera che avevo trascorso con lui. Non sentivo che mi appartenessero; erano solamente tracce del mio passaggio, ma non oggetti che raccontavano di me. Solo lo skateboard lo era.

Ero stanco di rimenere chiuso in casa, di passare le sere a studiare e andare a dormire, ritrovandomi a sognare solo e solamente incubi. Volevo uscire e divertirmi, come avrebbe fatto qualsiasi altro diciottenne.
Avrei dovuto controllare lo skateboard, siccome non lo facevo da un po'. Mi alzai dalla scrivania e andai a fianco al guardaroba, dove ricordavo di averlo poggiato qualche giorno prima. Ma non lo trovai. Credetti di ricordare male, che magari l'avevo lasciato da qualche altra parte. Lo cercai dovunque ma non lo trovai: né sotto il letto, né vicino la scrivania e nemmeno affianco la finestra. La mia stanza non era enorme, perciò non c'era dubbio: non era lì. Ma dove sarebbe potuto essere? Avvertii un brutto presentimento. Un brivido attraversò fugace la colonna vertebrale, lasciandomi immobile per qualche secondo. Il miei occhi erano fissi su ciò che si trovavano oltre la finestra, ma non osservavo nulla. Non ero presente. Cercavo di capire perché stessi iniziando ad essere ansioso.
Scesi di corsa le scale, cercando di non cadere e non rompermi qualche osso. Sentivo una puzza - purtroppo - familiare farsi sempre più forte, fino a quando non dovetti tapparmi il naso con le dita pur di non sentirla. Mi stordiva e cominciavo ad essere stanco anche di quella situazione.
Passo dopo passo, entrai nel salotto. La scena che già immaginavo si presentò di fronte ai miei occhi: mia madre che, in completa sbornia, dormiva stesa sul divano. Un braccio che penzolava verso terra, un rivolo di saliva che scivolava dalla coca aperta, le bottiglie vuote e quelle ancora non completamente svuotate. La puzza di sigarette e di tabacco Tutto ciò stimolava la mia voglia di vomitare. Avevo lo stomaco in subbuglio e, per evitare di impazzire, mi ripetevo solo una cosa: non era la prima volta. E sapevo che non sarebbe stata nemmeno l'ultima. Ma ero fottutamente stanco di quelle sceneggiate.
Mi avvicinai lentamente nella sua direzione, facendo attenzione a non calpestare pezzi di vetro e bottiglie sparse. Ciò che vidi mi devastò.
Scheggie di legno vicino al suo braccio. Sangue coagulato sulla sua mano. Il suo trucco sbavato è i capelli arruffati non intenerino per niente ciò che si era appena creato in me. Vidi le ruote qualche centimetro distanti, mentre vere e proprie parti di legno erano sparse lungo il pavimento. Riuscivo ancora a distinguere i colori con cui io e Kojiro l'avevamo dipinto. Quello era l'inizio della fine e nulla l'avrebbe potuta fermare.

Rabbia. Provavo solo rabbia. Non una sola lacrima osò presentarsi. Un formicolio si presentò impaziente nelle mani, vogliose di spaccare tutto ciò che mi circondava. A partire dalla sua stupida faccia da cazzo. La odiavo. L'avevo sempre fatto. Ma in quel. momento era tutto raddoppiato e non riuscivo più a contenermi. Volevo scappare via da quel posto. Volevo starle lontano. Così lo feci.
Ritornai in camera mia, presi lo stretto necessario, mi infilai le scarpe e andai via. La porta si chiuse bruscamente, ma non abbastanza velocemente, permettendo i di vedere la figura alzarsi da divano e lanciarmi uno sguardo fulminante. Ma a me non fregava un emerito cazzo di ciò che provava o pensava.
Corsi. Lo feci fino a quando non sentii i miei polmoni i bruciare, la fronte colma di sudore, le gambe stanche che supplicavano di fermarsi. Non sapevo dove stessi andando. Credo non mi importasse. L'unica cosa che contava era correre lontano da quella donna, che ormai non meritava più di essere definita madre. La odiavo. La deyestavo per tutto ciò che avevo sempre dovuto subire a causa sua e del suo egoismo. Non sapevo nemmeno come avessi fatto a sopportarli così a lungo. Gli schiaffi, le grida, le parole che derivano più degli schiaffi. Era sempre stata la causa di tutti i miei problemi, infialndomi in testa paranoie e odio. Non riuscivo ad amare me stesso perché lei mi aveva cresciuto in quel modo. Aveva fatto sì che io non potessi amare me stesso. Perché secondo lei non valevo nulla, quindi non aveva senso amare qualcosa di inutile. Lei mi aveva infilato in mente l'idea che i miei amici non mi volessero bene. Ancora non sapevo perché stessero con me, non avevo ancora imparato ad apprezzare né me stesso né ciò che regalavo al mondo. Ma sapevo che un motivo c'era. Lo speravo. Volevo credere che ci fossero persone che pensavano che la mia presenza facesse la differenza. Volevo essere amato, volevo sentirmi amato. Avrei dato tutto per qualcuno che avesse dichiarato di farlo. Non avrei mai avuto la prova che stesse dicendo la verità, ma vivere nel dubbio sarebbe stato meglio che non vivere affatto.

E quindi correvo. Sul marciapiede, le poche persone che passeggiavano si scostavano immediatamente, non volevo subire un impatto con un adolescente in piena crisi di rabbia. Ricevevo sguardi sconcertati dai passanti, dalle persone in bici e persino da chi utilizzava la macchina. Li sentivo giudicarmi, guardandomi ostilmente. Mi credevano uno stupido ragazzino che correva senza motivo. Loro però non mi conoscevano e in quel momento avevo ben poca voglia di dare importanza agli sguardi di chi non conosce la mia storia. Sentivo il mio cuore esplodere, voglioso di scappare dal petto. Volevo smettere di correre. Ma non avevo nessun posto dove andare.

La promessa del ventidue aprile - matchablossomDove le storie prendono vita. Scoprilo ora