Prologo

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KYLIAN

La sofferenza della mente è peggiore
di quella del corpo.
Publilio Siro


Ho sempre creduto che tutto accadesse per una ragione.

La scelta di un paio di scarpe, di cosa mangiare a pranzo, del film da guardare in tv...
Tutto faceva parte di un grande piano e i fili erano nelle mani di qualcuno lassù, che manovrava ogni cosa a suo piacimento.

Ne ero fermamente convinto e ci ho sperato fino all'ultimo.

Fino al momento in cui ha chiuso gli occhi e ha smesso di respirare proprio tra le mie braccia.

Ho sperato che avvenisse un miracolo. Ho sperato che quel giudice non fosse così spietato da assegnare una pena così crudele a chi non la meritava.

Insomma, aveva ancora tutta la vita davanti e tante esperienze da vivere, per non tenere conto della brava persona che era.

Come avrebbe giustificato tutto questo? Perché aveva fatto andare le cose così?

«S-sto morendo, Kylian.» mi aveva detto.

Le lacrime strisciavano via dal mio viso e mi appannavano la vista.

«Tu non morirai, mi hai capito? Ci sono io qui.»

«A-ascoltami... non è colpa tua, tienilo bene a mente. V-vivi anche per me, okay? Io...io ti guarderò da... lassù.»

Il suo corpo iniziava a cedere ed io feci più pressione sulla ferita per fermare l'emorragia.
«Combatti. Mi senti? Non arrenderti, stanno arrivando i soccorsi.» urlai con tutto il fiato che avevo.

Il suo battito cardiaco era sempre più debole, gli occhi si chiusero e le dita che erano racchiuse nella mia mano mollarono la presa.

«No. No. No.» lo scossi leggermente per svegliarlo.

«Non abbandonarmi, ti prego. Sei l'unica persona al mondo che conta per me, non puoi andartene.»

Capii che non c'era più niente da fare quando l'ambulanza arrivò e il paramedico mi diede le condoglianze, ma non realizzai la sua morte prima di qualche settimana.

Tornato a casa mi lasciai andare ad un urlo liberatorio e mi guardai allo specchio: avevo le mani e i vestiti sporchi di sangue, il volto distrutto e l'anima straziata. Lo ruppi, in mille piccoli pezzi, e feci lo stesso con tutto ciò che trovai nella mia stanza.

Quello che provai nei giorni a seguire fu puro e autentico dolore, non descrivibile a parole.
Non mi presentai ai funerali, credendo di non esserne degno, e non trovai neanche il coraggio di andare a fargli visita al cimitero.

Mi estraniai completamente dal mondo. Non parlavo con i miei genitori, con i miei amici, con nessuno.

Trascorrevo le mie giornate a fumare erba dalla mattina alla sera, senza fermarmi un attimo perché sapevo che, se avessi smesso, i miei pensieri mi avrebbero logorato.

Non doveva andare così, non se lo meritava, cazzo.

Se solo non fossi uscito di casa quel maledetto pomeriggio.

La mia gola è pronta ad accogliere il sesto shot della serata e interrompo il flusso dei miei pensieri quando mi rendo conto che all'interno del mio bicchiere non è rimasto altro che una misera goccia.

«Un altro, Laia.» esorto la barista mentre si muove a suo agio tra gli alcolici.

Il mondo trema, vedo doppio e fa un caldo bestiale. Mi guardo intorno, in attesa di immergere nuovamente le labbra in quel liquido trasparente che mette a tacere il mostro che mi ritrovo nella testa.

E gli ultimi quattro mesi della mia vita sembrano annullarsi non appena vedo Jacob entrare da quella porta, in compagnia dei suoi amici.

Mi alzo dallo sgabello proprio quando Laia mi porge davanti il bicchiere riempito. Le mie gambe pesano incredibilmente e compio una fatica immane per raggiungerlo.

«Merda, sei proprio tu.» allungo una mano per toccargli il viso, che però si trova qualche centimetro più in là.

Maledetto l'alcol che ho in corpo.

Se avessi saputo di ritrovarlo, mi sarei presentato vestito in maniera più decente e, soprattutto, non avrei bevuto.

Mi fissa stranito, con uno sguardo che non appartiene affatto a lui.
«Ehi... so di esser un po' malconcio stasera ma sono sempre io, non mi riconosci?»
Le parole mi si fermano in gola e continuo a biascicare.

«Amico, levati di mezzo.» è uno dei tizi che sono con lui a parlare.
Stranamente non ricordo il suo volto, forse è un compagno di college che ha conosciuto da poco.

Non mi piace per niente.

«Brutto pezzo di merda, tu non mi dai ordini.» urlo.

«Che hai detto?»

Queste sono le ultime parole che sento, prima di impattare con il pavimento e avvertire un forte dolore all'addome.

L'amico di Jacob mi assesta un pugno in piena faccia e lui se ne sta lì, fermo ad assistere.

Non ha intenzione di aiutarmi.

Forse mi odia per quello che è successo ed ha voglia di farmi capire cosa si prova ad essere al tappeto mentre chi pensavi ti volesse bene resta lì a guardare. Forse anche lui si sente immobilizzato, proprio come me quella notte. Anche lui avverte il panico salire e non riesce a realizzare, udendo il suono delle sirene farsi sempre più vicino.
Cado a terra, lasciandomi colpire e incassando tutto il dolore che merito, quel dolore che mi fa sentire vivo.

Improvvisamente il tizio si allontana da me che piano piano chiudo gli occhi, godendomi la sensazione piacevole. Mi sento così bene, cazzo.

«Ti prego, continua.» provo a dire.

Rompimi anche fuori, così che di me non resterà più niente. Metti fine alla mia vita e fammi sentire tutto, dal primo pugno all'ultimo. Fammi soffrire, perché è questo ciò che merito, è questo che tutti vorrebbero.

La voce di Esteban si insinua nelle mie orecchie.
«Non presentatevi mai più qui, altrimenti ne pagherete le conseguenze e vi assicuro che non sarò tanto clemente come stasera.»

Farfugliano qualcosa prima che io avverta il forte profumo del mio amico proprio sotto il naso.

«In che stato ti sei ridotto, Kylian.» scuote le testa e mi afferra per le braccia, mettendomi in piedi.
«Vieni, ti porto a casa.»




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