LA STORIA DI ME E ANGELICA

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È una storia sbocconcellata, persa a tratti fra le orecchie delle bambole di vernice carne, esangue.
Da piccola sognavo poco: mostri orrendi e viscidi, sputati direttamente dal faro, che cercavano fiammiferi polverosi, scavavano nel legno, bucandosi le mani e infettandosi le dita.
Tutte queste cose non mi invogliavano a chiudere gli occhi per più di quanto fosse dovuto.
Nelle tenebre, fissando le figure cieca, ricordavo i pensieri, come diceva Angelica, i pensieri che facevano l'inchino, una piroetta e ballavano per tutta la notte, in fila indiana.
Lei mi cullava con così tanta dolcezza!
Mi stringeva vicino al seno e sussurrava il pane di casa, quello friabile e morbido, di sognare quello, o al massimo le fusa del gatto, oppure i baci di mamma. Io mi concentravo, invocavo le parole, le immagini pane, gatto e mamma. Apparivano puntini, cose staccate ed una paura, singolare e immensa. Boccheggiavo, boccheggiavo e lei mi abbracciava un altro po', e rimaneva a parlarmi per ore, finché non mi addormentavo da sola.

Non so cosa sia successo, non so da dove ebbe inizio: mi hanno portato a credere che certe cose appaiono riflesse da specchi di prima, ma più indietro dei sogni non si può andare. Sebbene siano un effetto, alla fine si va sempre là a parare: alla prima volta in cui il mondo ci morse alle gambe come un cane.
Ma questo tipo di sogno non lo potei raccontare nemmeno ad Angelica.
Quando finí, il grammofono ripeté, sillaba dopo sillaba: "Tua sorella è morta e l'alba ancora squilla".
E al chicchirichì del gallo, al cinguettare delle galline, l'Ideale alto e nobile di poter scamparla, farla franca venne meno anche a me, piena di caldo, di terrore e vermi a non finire.
Il grammofono disse le parole che mi mancarono: "Chicchirichí, premi le penne, le penne del gallo. Ci sta sangue a fiotti, o mi sbaglio?".
È una storia sbocconcellata, mi dispiace di averla detta così, era un sogno di dieci anni fa o giù di lì: le galline sgozzate imploravano almeno un processo, ma le formiche perdonano poco. Le avete mai viste mangiare intere tavole?

Nella nostra casa rosso vivido di fragole, ci cantavamo a vicenda le imprese del dio poeta: a Leda scintillavano gli occhiali, mio padre e mia madre annuivano annoiati. Angelica lo nobilitava, rendendolo buono e glorioso, un sovrano giovane, cera di calda candela, io, invece, lo smembravo divertita, folle vanitoso, come tutti del resto, piangente su un albero  marrone a cosce morbide, schiavo anche lui del destino impietoso. Leda rideva, crudele faceva crollare entrambi gli argomenti e ci restava a guardare confuse e inviperite:"Bene bimbe ora vi racconto un'altra storia".
I miei genitori, stanchi, andavano a menare in altro modo le ore, mentre noi rimanevamo a sentirla, incantate, parlare di come i Greci si chiudevano nei loro miti, solo per appuntare la loro solitudine, celarla dietro a baccanti e vino, proroghe e campi elisi nati dagli assensi della folla.
Ci aveva cresciute a forza di racconti, imboccandoci neonate di misteri sepolti nella sua memoria.
Jniva i puntini delle leggende, Odino e Zeus re della terra di dragoni e cavalieri, ci metteva una tale confusione in testa, lasciandoci a sbrogliare i nodi piú sfilacciati: ma una domanda, al posto della morale, sembrava accompagnare sempre i suoi discorsi:"Fino a quando le stesse cose?"
Ed era una domanda troppo grossa, per il metro e un baffo che eravamo, per il nostro povero piccolo intelletto da bambine, una domanda troppo grossa e spaventosa.
Non so se saró mai abbastanza brava, Omero l'ha detto meglio.
Quello stesso sentimento, imbevuto di altri colori, ad aeternum.

Angelica, non ti faccio morire.
Ti lego ai rampicanti, ti dó acqua fresca e ti carico a pile.
Cosí ti aggrappi e cosí cedi, al tamburellare dei nostri stessi  pensieri piedi; su una montagna ci trasciniamo e la vetta è poco o niente: sebbene in due proprio non ce lo spieghiamo, quanto lontano  si vada e quando ci si arrenda.
Angelica, puoi distenderti fra queste parole, farti spazio fra il salto da una riga  all'altra, sgranchirti le gambe, rirendere rosse le tue guance vaghe. Angelica, eri nata per piegarti alle mie dita e per riformarti, plasmarti attraverso la mia matita: non so disegnare ma se mi impegno una linea dritta la posso ancora fare. Iniziasti il primo secondo della mia vita, ti buttai fuori, alla luce, fra le gambe della mamma e tu gridavi arrabbiata, come se ti avessi fatto un torto terribile, battendo i pugni e implorando il dolce buio dell'utero.
Io uscii poco dopo, piú composta e formale, affrontando il momento, come del resto avrei fatto per tutta la vita, in modo distaccato e spaesato: sbattevo gli occhi, guardavo sorpresa la tua pantomima e restavo in un silenzio limbo, infreddolita.
Con quanta violenza ti saresti approcciata alla vita, con quanta tristezza sarei rimasta a guardarti inerte: tutte le forze le avevi succhiate tu in pancia, io mi dovevo accontentare dell'acqua scolo della sporca placenta. A casa piangevi sempre, sembrava quasi ti stessero torturando, e niente sembrava aiutare, non il latte, non le moine della mamma disperata, né le parole di Leda, messe diligentemente una dietro l'altra.
L'unica cosa che sembrava riuscisse a calmarti era lo sguardo di papà, incazzato dopo una vita  passata a sentire gente piangere, stanco deluso che ti fulminava, dall'alto della tua culla di vimini e ti ordinava e cacciava in uno stato di immobilità debilitante.
A volte smettevi di respirare e diventavi bluastra, c'era qualcosa nei suoi occhi (lo sapevi anche allora), che non rifletteva i colori, qualcosa di nero che ribolliva e borbottava,aspettava,aspettava.
Io d'al canto mio, continuavo ad osservare silenziosa le pareti pallido rosa e intrecciavo le mie giornate a guardare gli angoli, mi divertivo a contarli non sapendo a quanto ammontassero: avevo numeri, in testa, che non erano altro che bava e saliva.
E Leda lo vide, certo, aveva quel tipo di sensibilità che porta a chiedersi perché  ogni azione avvenga ,meravigliosa donna, mi osservava come fossi una cavia da laboratorio:il suo cervello macinava e lavorava i miei pochi sbattiti di ciglia e i molti, frequenti sbadigli,  appuntando tutto su un libretto, facendomi giocare con i lembi del copriletto.
I giorni passavano veloci, fra i tuoi pianti e le tue urla, Angelica, crescevamo sorde e cieche di vero dolore, ma tu gridavi lo stesso e singhiozzavi, come fanno i fringuelli disperati che hanno perso la mamma.
Poi,a poco a poco, riuscisti ad abbassare il volume della tua voce, ad ingoiare le urla quando le sentivi crescere dal petto, non per paura di papá, ma per necessitá di imitazione :ti eri  accorta che io sopravvivevo con il fiato in gola,  spendendo anche molte meno energie.
Papá fiero e contento ti veniva ad accarezzare la sera: "Brava bambina" e, con l'orgoglio che avrebbe solamente un uomo che è riuscito a addestrare une bestia feroce ,"Brava Angelica, papá è molto fiero" se la sbaciucchiava e rigirava fra le braccia.
Non faceva cosí con me solo perché la nonna diceva che non avevo bisogno di affetto :"Anzi mi sorprenderei se si accorgesse che le stai dando attenzioni" diceva, ridacchiando.
E pure mio padre rideva, e a tratti sembrava che anche Angelica sbuffasse, guardandomi impietosita con un lampo di ironia negli occhi.
A due anni, peró, non avevamo modo di accorgerci di queste cose; io le so ora solo perché ho accettato tutto quello che è successo e succederá (amen) questa è la mia penitenza e la mia ostia, la mia religione che non ha nessun fondamento ma che muove guerre e strazia coscienze:è una meravigliosa macchina da guerra, la veritàmemoria, ed io sto per proclamare (finalmente!) la pace.
E in pace qualcuno dovrá pur dire qualcosa, e lo dico io Angelica, perché so che tu non ne hai mai avuto il coraggio, la paura ti mordeva i tendini e ridevi e apparivi viva solo per non stonare contro il mio di paesaggio, perché so che aspetti che lo dica  io, perché non lo dirá mai nessun'altro, datochè  ti ho seguito come un' ombra, cellula divisa dalla tua carne spezzata troppo presto.
So  la tua anima meglio di te:sognavamo di ritornare l'una dentro l'altra e sparire entrambe in un corpo vuoto ,sí ma coscienza piena: tu le mie radici, io la tua schiena.

"Vedile, vedile, non si distingue l'una dall'altra".
E dalla schiena nascono germogli se si permette, si sa, è una regola antica, tanto valeva spostarci nella stessa culla e piantarci alberi.
Plasmate fra le coperte, il tuo sangue scorreva verso il mio, partiva dalle orecchie, scendeva lungo la gola, e tu tastavi le vene, ti compiacevi ci fosse ferro, felice di me per me, mi dicevi come sei bella, come sei bella, con i tuoi grandi occhioni.
Pur troppo non ci potevamo capire e lungo le mie mani prolungamento delle tue appoggiavi la testa, respiravi piano l'ossigeno che ci divideva, un gesto  semplice, ma ti ci  impegnavi.
E io lá, persa nella culla, salmone soffocato dall'aria, contavo piano i mesi, aspettavo di poter finalmente capirci qualcosa.
Un giorno ci presero e cacciarono via dal nostro giaciglio ,e fu d'un tratto una baraonda d'aria, tremila lividi: ci avevano scaraventato sul pavimento con una tale violenza che sembrava il cielo fosse diventato marrone e spiaccicatoci contro.
"Liberatevi bimbe mie, libratevi" Leda diceva con voce secca e fredda, stagliandosi impavida come certi condottieri, tanto che ora penso ci avrebbe potuto tranquillamente trascinare all'inferno.
Avevamo due anni, credo. Lei era nuda, sotto la vestaglia di flanella bianca.Mio padre la venne a prendere, dopo mezz'ora di grida disperate, e la portó via, chiamando arrabbiato la mamma "Mettigli un cerotto o qualcosa del genere".
Piú tardi, dopo averci aggiustate, oliate per bene con l'acqua ossigenata, finalmente Leda si scusò, ma non ricordo cosa disse.
Tu aspettavi paziente che ci rimettessero nella culla, mentre io non riuscivo a pensare ad altro che al rumore delle allodole in giardino.

Gennaio veniva e scioglieva i lamponi sotto ai sassi in fondo ai burroni, camminavamo per ore, tu li indicavi e dicevi guardali, che belli, pungono poco e riempiono la bocca.
Acquamara e sapore pungente, ma a te piacevano e passavamo ore a cercarli.
Saltavamo di roccia in roccia, inventavamo canzoni, e tu le usavi per dire sempre la stessa cosa;  di avere una paura matta, di ansimare di notte nel letto. Io non ti potevo sentire, presa com'ero dal passare delle stagioni, a chiedermi come potesse tutto tramutarsi in qualcosa.
E sì, ci provavo davvero, cercavo di tradurre il mio pensiero e farlo apparire serio.
Non c'era posto in me per la tua piccola paura e tu, di risposta, ti abboffavi e riempivi: la tua lingua pizzicava a quel sapore cosí acerbo, che ti piaceva tanto, ti faceva andare e tornare, addormentarti d'un tratto. I tuoi sogni brumosi, grossi e neri come gli scarafaggi, come i ragni piú crudeli, si infilavano fra le insenature delle rocce, e tu li indicavi, con una vocetta tanto dolce: "Guardali apparire  e scomparire dopo un giro di spalle.Dove vanno? Cosa fanno?"
"Vivere, immagino."
"E chi è che vive?"
"Tutti, anche tu e io."
"Ma faccio sempre tutto io. Tu stai sempre indietro. È come se tu fossi lo scheletro e io la carne, ma nessuna delle due sente niente."
"E allora provaci di più."
E mi tenevi la mano ma proprio non riuscivamo a percepire il sottile grido dell'universo che si stagliava terso in quell'inutile giornata di sole, tirando su un vento, ma un vento tale, che le foglie si alzavano arrabbiate e io tacevo sola al ronzio del maestrale.
A percepire, in vero, siamo sempre state negate.

Avevamo imparato a camminare appoggiandoci l'un l'altra, fedeli bastoni che sorreggono il peso di poche gambe, per bene. E tu che a due anni pretendevi le montagne, roccia ridicola di sabbia a tuo parere, e io a fermarti dal camminare lungo i cornicioni.
Non si puó cadere, non si puó cadere dicevi, sebbene avessimo rovesciato piatti, sopportato rossi e sonori schiaffi.
Lo sapevi, non avrei fatto storie, ma guardare di sotto mi faceva saltare in gola il cuore.
E tu capivi, sebbene non potessi concepire paura: la luna si specchiava riflessa sulla finestra, e tu vedevi mostri in bagno, pillole che fiorivano dall'alto della tenda di plastica. Io, dietro la tua spalla, cercavo di scostarti e chiamare Leda e lei appariva, al suono delle mie parole ,precisa come un orologio svizzero ,sorridendo in un modo terribile.
Giocava con le mani e parlava, diceva la mia bambina, la mia bambina dolce bella, e io che da chilometri di distanza rabbrividivo,terrorizzata al punto quasi di morire, guardavo Angelica scuotere la testa, alzarsi e scomparire. Mi lasciavi sola e io tremavo fino al mattino. Per questo devo essere terrorizzata: perché tu non hai mai avuto paura.
Dicevi "Pensa cadere, finire fra le braccia di un uomo e vedere, figuratela, la sua faccia!"
Io dovevo ascoltarti, sentirti parlare per ore e ore, mentre avrei potuto occuparmi di cose di gran lunga piú interessanti: perdere tempo fissando il vuoto, non avere nulla né da dirmi né da fare, persa annegata nel nuoto dei miei pensieri.
Galleggiando sul dorso ti riservavo un angolo, uno spazio stretto stretto, piccino, e tu ti accontentavi di quell'orizzonte, ti sedevi con il tuo solito sorriso perlaceo, facendoti posto fra i gangli.
E c'era sempre la tua maledetta coscienza, la tua strana fantasma presenza ,che tornava lí con il solito pensiero, che cercava di estendersi e comprendere -finalmente!-  il vuoto sotto la finestra, il suo nero.

Era la tua ossessione.

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