Capitolo 19

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Gloria era emozionata. Quella sera aveva ricevuto un invito a cena da Giacomo e adesso si stava preparando con la stessa ansia adolescenziale di una diciottenne. Voleva essere carina.

Perché quella sensazione di struggimento allo stomaco? Giacomo le piaceva forse? Non era troppo presto per provare qualcosa per qualcuno? Eppure cos'era quella sensazione di farfalle che svolazzavano nel suo stomaco? Avrebbe dovuto sentirsi affranta e invece era elettrizzata, lo specchio le rimandava un'immagine di sé che le piaceva. Era da poco uscita dalla doccia e si era infilata l'accappatoio rosa. Da sotto, la pelle appariva di una tonicità meravigliosa come seta. Il viso era colorato di rosa, le labbra rosse. Provò disagio nel vedere questo suo fiorire, mentre Gabriel giaceva per sempre nella fredda terra che lo aveva accolto in grembo. Eppure lei lo amava! Ma quelle rivelazioni su di lui l'avevano fatta rimanere di sasso, il dubbio, il sospetto che lui potesse averla tradita le si era insinuato dentro, distruggendo quella parte candida di sé. Quindi era plausibile che potesse provare una cosa del genere per qualcun altro, visto che comunque lui con ogni probabilità l'aveva tradita. Continuò ad asciugarsi e a frizionare la sua pelle, sognando mani che la toccavano con rudezza e dolcezza insieme. Si sentì sciogliere, si allentò l'accappatoio e volle constatare quanto fosse morbida la sua pelle, toccandosi. Si era cosparsa di una crema profumata ai fiori di dalia e poi si era vestita, indossando una lunga gonna nera con lo spacco, che lasciava intravedere le gambe e una camicia bianca con il fiocco allacciato al collo. Indossò poi un paio di scarpe con il tacco, si rimirò nello specchio e l'immagine che le rimandò la soddisfece. Infine mise una cura particolare nel truccarsi, stendendo un ombretto grigio madreperlaceo sugli occhi azzurri e passando poi l'eye liner. Si spazzolò i lunghi capelli biondi e li sistemò con una piastra, facendo delle leggere onde in fondo. Infine soddisfatta del risultato prese la borsetta nera e dopo aver indossato un lungo cappotto dello stesso colore, chiuse la porta, spingendola con la punta della scarpa e uscì, non volendo far aspettare Giacomo.

Fuori c'era una bella luna piena che illuminava i contorni delle cose di una luce magica. Faceva freddo, il cielo era limpido e di un colore blu cobalto che si rischiarava in prossimità delle luci cittadine. Strizzò gli occhi per vedere se Giacomo arrivava. Forse doveva aspettare dentro? Presa da un impulso incontrollabile era scesa, ma adesso era pentita. La notte, nonostante la luna, era piena di insidie che si nascondevano dietro a qualsiasi ombra.

Il fermento della città, con le persone che tornavano dal lavoro, il tran tran quotidiano, la rinfrancarono quel tanto che bastava a farle dimenticare le angosce inspiegabili che l'avevano assalita per un attimo. Dall'altra parte della strada assistette a un litigio fra una ragazza e il suo fidanzato, litigio che stava accalorandosi sempre di più, dal momento che lui la stava trattenendo per un braccio in malo modo. Il freddo la avvolse come in un abbraccio. Ma quanto ci metteva Giacomo ad arrivare? Presto i due sarebbero arrivati alle mani? Lui pareva particolarmente aggressivo, aveva preso anche a urlarle contro. Doveva avvertire qualcuno? Continuò a scrutare con la coda dell'occhio. Adesso lei era quasi implorante, con il braccio e la mano cercava di calmarlo, ma lui continuava a inveirle contro. Cosa avrà mai fatto quella ragazza di male, pensò. Rabbrividì e tirò su il bavero del cappotto. Giacomo era sensibilmente in ritardo. Pensò che gli uomini non dovrebbero far aspettare troppo le donne. Le arrivò in quel momento un suo messaggio, l'icona verde di WhatsApp si accese con la foto di lui che le diceva che a causa di un contrattempo sarebbe arrivato in ritardo di venti minuti. Gloria pensò di salire di nuovo. Il freddo si era fatto più intenso e non aveva voglia di stare lì come una prostituta che aspetta i clienti. Sentì lo sportello di una macchina richiudersi in modo forte, udì passi dietro di sé e poi una mano le tappò la bocca, un potente odore di cloroformio le invase le narici e poi non si accorse più di niente. Il buio più totale.

Lentamente aprì gli occhi. La stanza era avvolta dall'oscurità ad eccezione di oblique lame di luce che le ferivano gli occhi, provenienti forse da un lampione fuori. Si sentiva tutta intorpidita. Dove l'avevano portata? C'era solo silenzio intorno a lei. Qualcuno sarebbe venuto a prenderla? Ne dubitava. Continuava a pensare, la paura le si era insinuata addosso sottopelle. Cosa avevano intenzione di farle? I rumori si amplificavano nella sua testa. Pensava a Giacomo, a quel loro incontro mancato, a come l'avrebbe presa quando avesse saputo. Si sarebbe preoccupato un po' per lei? Quando era bambina aveva paura del buio perché pensava che in esso si nascondessero creature di ogni genere: mostri e fantasmi. Aveva ideato un sistema per sconfiggere la paura. Lasciava sempre una piccola luce accanto al comodino. Una volta le era successo di essere stata rinchiusa in uno sgabuzzino da un suo compagno di classe quando frequentava le elementari e lì sì che c'era buio. Lo aveva implorato per dieci minuti buoni che le aprisse, ma lui se ne era andato, lasciandola a combattere con i suoi demoni interni. Era stato uno scherzo di cattivo gusto. Nello sgabuzzino c'era un tanfo insopportabile di puzza di piedi. Era infatti il ripostiglio delle scarpe. Oltre allo spazio piccolo e claustrofobico c'era anche un odore da svenire e forse sarebbe svenuta davvero se quel suo compagno di classe non le avesse di nuovo aperto la porta. Non aspettò nemmeno le sue scuse, gli sferrò un pugno ben assestato su quella faccia sorridente, su quei denti, spaccandoglielo uno. Avrebbe detto che si era trattato di legittima difesa. Nessuno avrebbe potuto incolparla di niente e lui se lo sarebbe proprio meritato il suo disprezzo. Si era presa pure una bella cotta per quel bambino moro con le lentiggini e gli occhi color nocciola, magro e sempre sorridente. Ma fu davvero cattivo con lei e la cotta dopo quell'episodio sfumò, fino a trasformarsi in un astio cieco, un'ostilità che sfociava quasi in un odio torbido, di quelli che non lasciano alcun scampo a chi ne è colpito. L'umiliazione era stata troppo cocente per essere perdonata. Tutte le volte si ripresentava alla sua memoria e tutte le volte le bruciava dentro, come se lo spirito di vendetta che aleggiava nel suo animo di allora non si fosse ancora placato. Decisamente non le piaceva subire, ma di fatto se succedevano queste cose, voleva dire una sola cosa: che era succube e che stava facendosi manovrare da mani invisibili. Non riusciva a capire per cosa. Due persone erano state uccise e lei avrebbe rischiato di fare la stessa fine. Cosa volevano da lei? Cominciò a sentire freddo. Non c'era un riscaldamento in quella stanza, l'aria attorno era fredda. Con il bavaglio chiuso davanti alla bocca e al naso rischiava quasi di soffocare. Aveva le gambe legate alla sedia. Per forza doveva aspettare l'arrivo di qualcuno. In bocca aveva un sapore acre. Ecco, l'aveva sentito, un rumore. Da dove proveniva? Non riusciva a identificare per bene né cosa fosse, né la provenienza. Poi a un tratto un fischio, seguito da un sibilo, poi più niente.

Uno scalpiccio di passi, poi la porta si aprì cigolando, un cigolio che suonava sinistro alle sue stesse orecchie. Un occhio, poi due che la fissavano, poi dei passi e infine davanti a lei si materializzò una figura nera e imponente che alzò la mano.

Chiuse gli occhi, rassegnata al suo destino. La slegò piano piano, poi le fece cenno di seguirla. La sorresse un attimo perché quando si alzò dalla sedia barcollava paurosamente.

Lei gli andava dietro, curiosa solo di vedere dove l'avrebbe condotta.

La tempesta sul mare di GalileaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora