Capitolo sedici

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Il posto in cui abito non è altro che un vecchio edificio color ruggine, pieno di crepe che si diramano sul muro come una ragnatela. All'entrata, ai lati del cancello, vi sono due lampioni, che ricordano vagamente la forma di un tridente, i quali sprigionano una luce calda e accogliente, come se parte del tramonto fosse rimasto intrappolato lì dentro.
Superato il cancello vi è un piccolo cortile, con due panchine di marmo color corallo piene di graffiti e alcune citazioni, tra cui una di George Orwell scritta col pennarello indelebile. Un albero ormai spoglio si innalza quasi fino al secondo piano e la scritta "Vai a farti fottere" sull'intonaco scrostato, vicino all'entrata, non è esattamente un invito accogliente. Il mio capo, per la prima volta, piega la testa e osserva meglio la scritta e accenna un sorriso divertito.
«Interessante», dice, girandosi verso di me.

«Grazie per il passaggio. Posso sapere per quale motivo sei venuto al ristorante?», mormoro, stringendo la borsa all'altezza del ventre.

«Volevo conoscere la nuova fiamma di mio fratello», storce per pochi secondi la bocca e poi finge un sorriso.
Non è la risposta che mi aspettavo.

Dà un'altra occhiata verso il cancello e osserviamo entrambi un uomo che cammina velocemente sul marciapiede con il cellulare attaccato all'orecchio, mentre la sua risata si disperde nell'aria insieme al suono di un clacson.

«Deduco tu non abbia voglia di chiedermi di salire», esclama impulsivamente e spalanco gli occhi.

«S-salire?», balbetto.

Kenneth si stringe nelle spalle e fa un passo all'indietro, inciampando in un sassolino. Mi porto la mano davanti alla bocca e trattengo una risata divertita, nonostante lui abbia già intercettato l'ilarità nel mio sguardo.

Inarca un sopracciglio imperturbabile e dice: «Sono lieto che tu sorrida, ma avrei preferito discutere con te in un posto più caldo e non qui fuori. Ma non sarà il freddo a impedirmi di parlarti di quello che è successo oggi, quindi-», sollevo una mano per zittirlo, scuotendo confusamente la testa.

«No, aspetta», sbatto le ciglia allarmata. «Posso darti del tu, vero?», domando di nuovo. Lui annuisce e un sorriso genuino gli illumina il volto.

«Tu vuoi salire per parlarmi?», mi sento alquanto idiota nel porre una simile domanda, infatti appare turbato anche lui.

«Sì, parlare. A cosa stavi pensando?», chiede e mi limito a mettere su un sorriso di circostanza, poi gli faccio cenno di seguirmi. L'aria all'interno dell'edificio è abbastanza stantia e le pareti sono leggermente ammuffite a causa dell'umidità.

«Non volevo sembrarti maleducata. Non pensavo volessi realmente parlare con me.»

La sua voce roca risuona all'interno dell'edificio: «No, non sembri maleducata. Mi sono quasi autoinvitato. Sono stato io ad aver fatto la figura del cafone.» E mentre lo dice alzo gli occhi al cielo. Giro di poco la testa per guardarlo oltre la spalla, lui cammina con lo sguardo puntato sulle scale.
Quando arriviamo davanti alla porta, nello stesso momento Arnold esce dal suo appartamento e si sistema meglio il berretto nero. Lancia un'occhiata torva a Kenneth e poi guarda me, salutandomi con un cenno del capo.

«Buonasera, Arnold», dico io in tono allegro.

«Speriamo tu non finisca in lacrime di nuovo», borbotta con una vena di fastidio nella voce e prosegue verso le scale, portando giù il sacchetto della spazzatura, come ogni sera.

«Come?», chiede Kenneth, incuriosito.

«Non farla piangere, giovanotto. Il suo pianto è irritante come il rumore del trapano alle prime ore del mattino. A quest'età ho il sonno più leggero», continua a serbare quell'espressione burbera che ha di solito, poi alza una mano per salutarci e scende le scale brontolando qualcosa tra sé e sé.

Boyfriend- Un ragazzo in prestitoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora