Capitolo 5

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Quegli occhi.

Non riuscivo a leggere il mistero nascosto dentro di essi. Eppure erano riusciti ad imprimersi nella mia memoria nel modo in cui si può imprimere un tatuaggio. Intangibile, ma soprattutto irremovibile. Non erano solamente azzurri, erano molto di più. Vivi e splendenti, come se un'aureola facesse da contorno all'iride trasparente e riflettesse il cielo stesso.

La mattina dopo mi ero svegliata con quel ricordo tra i tanti pensieri che mi frullavano per l'anticamera del cervello. Quell'immagine aveva scavalcato addirittura il fatto che io fossi stata licenziata.

Eppure in tutto questo non riuscivo ancora a ricordare cosa fosse accaduto quella notte. Cosa avessi fatto dopo ch'ero entrata al Metropolitan o cosa fosse successo in seguito. Niente. Memoria vuota.

Più cercavo di sforzarmi, più il mal di testa da sbronza mi annebbiava la vista rendendomi uno zombie ambulante.

Quando sollevai lo sguardo verso l'orologio dovetti attendere prima che la vista mettesse a fuoco. La dura e cruda verità mi riportò con uno schiaffo sul pianeta terra. Mancavano venti minuti a mezzo giorno: ero nuovamente in terribile ritardo al lavoro.

Non feci in tempo a chiedermi il perché la sveglia del cellulare non avesse squillato. Afferrai la maglietta e i pantaloni del giorno prima e me li ficcai addosso. Una spazzolata ai capelli – che ora avevano preso più le sembianze di un nido di un pettirosso – e volai fuori dalla camera.

La cucina era come sempre in disordine, piatti ancora da lavare, i fornelli mezzi sporchi e bottiglie di vetro ancora da portare via da un mese intero. Vicino alla mia borsa scorsi una bottiglia di grappa mezza finita. Storsi il naso.

Mia madre aveva bevuto di nuovo, quando si era ripromessa di non farlo. Faceva sempre così, ogni santa volta.

Se succedeva qualcosa che non andava, beveva.

Se succedeva di pensare a mio padre, beveva.

Per ogni cosa aveva sempre il suo bel bicchierino pronto all'uso. Grappa, Vodka, Whisky e Rum. Questi erano i nomi dei suoi migliori amici; questi erano i nomi dei suoi unici amici.

Presi la bottiglia e la gettai insieme alle altre vuote, non avevo neanche lontanamente voglia di fermarmi alla campana del vetro e buttarla, anche se pensai che avrei dovuto farlo.

Mi voltai verso l'atrio d'ingresso accorgendomi, così, della silenziosa presenza di Ginevra seduta al tavolo della cucina intenta a guardare il monitor del suo portatile.

«Non dovresti essere a scuola?» le domandai, fissandola da testa a piedi.

Era vestita nuovamente a suo modo, con una minigonna ancor più corta della stretta maglietta che portava, sebbene la stagione autunnale avanzasse di giorno in giorno.

«Non dovresti essere al lavoro?» ribatté lei senza distogliere lo sguardo dallo schermo.

«Sono in ritardo» risposi.

«Sono rimasta a casa» ribadì lei di rimando.

Mi ammutolii, ma non potei trattenermi nel puntarle gli occhi addosso nella speranza che si voltasse, che dicesse qualcosa di più. Magari che si scusasse. Ma non fece niente.

«Sai Gine, dovremmo proprio parlare io te, un giorno» esordii allora, interrompendo il silenzio.

«Come credi».

«No, davvero. Prima di tutto dovresti spiegarmi perché non dici la verità alle tue amiche».

«E cioè?».

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