Capitolo 14

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La stanza in cui Ginevra stava riposando profumava di lavanda.

Ve ne era un mazzolino riposto in un vaso antico a pochi passi da me, su una cassettiera color avorio. Me ne restai lì, in piedi ad osservare il sonno – ora tranquillo – della mia sorellina e pensai come in casa, una volta, eravamo soliti a comporre un centrotavola con i fiori freschi. Per lo più peonie perché a mia madre piacevano quelle, e perché racchiudevano un significato bellissimo: matrimonio felice e prosperità. Come era stato quello dei miei genitori. Secondo, invece, la tradizione cinese la peonia era considerato un fiore magico dalle proprietà rigeneranti e curative, tanto che la chiamavano "Erba beata" e nell'antichità si diceva rappresentasse un simbolo di eternità.

Ginevra sospirò. Ora sembrava in pace con sé stessa.

Chissà cosa aveva patito, non doveva esser stato facile per lei comprendere che non tutti i ragazzi hanno la testa sulle spalle. Era inevitabile che mi sentissi in colpa. E poi avevo ancora le sue parole tra i miei pensieri: "Ti ho chiamata ma non hai risposto". Per questo, ora che l'avevo trovata, non riuscivo a staccarmi un attimo da lei. E ero grata di ogni respiro che le sue labbra producevano perché voleva semplicemente dire che stava bene. Ora avrei solamente dovuto cercare mia madre. Ma lo sapevo, accidenti se lo sapevo: non sarebbe stato facile. Anche se avessimo trovato Sebastian, e in un qualche modo immaginavo che fosse con lei, cosa avrei fatto? In che modo Colt Devon mi avrebbe aiutata? Ci sarebbe stato bisogno di lottare? O sarebbe stato inutile?

Erroneamente, nella mia testa, frullavano un sacco di modi per salvare la vita di mia mamma. La prima che pensai fu il suicidio, perché così non ci sarebbe stato più bisogno di cercarmi; ma sarebbe stata la scelta più sciocca e insensata, poiché non sarei riuscita in nessun modo, neanche tentando, di salvarla. In secondo, avevo in mente di lottare, compiere un gesto folle e disperato di salvataggio; eppure anche questa opzione non si staccava molto da quella precedente. Però almeno non me ne sarei rimasta ferma a guardare.

No. Non erano scelte che potevo fare, sebbene la mia mente non riusciva ad elaborare nient'altro e pensai per un attimo che avrei fatto bene a chiedere consiglio a Colt, anche se quest'ultimo mi aveva già ripetuto due volte di lasciar perdere. Eppure lui conosceva questo mondo parallelo. Era stato lui a schiarirmi le idee sui fatti accaduti e sebbene non fossi ancora del tutto certa di ciò che stava accadendo, sapevo che almeno lui potesse riservare qualche buona spiegazione sul come uccidere un demone.

"Demone"... Santo cielo! Mi faceva uno strano effetto pensare a quella parola, come se da un giorno con l'altro avessi accettato la cruda realtà dei fatti e l'esistenza di quelle creature. Era esattamente come credere nei fantasmi, ma diversamente perché incutevano una paura ben diversa. Sebastian era stato scaltro e aveva pianificato una strategia per i suoi fini più oscuri. Scopi che non capivo minimamente quale senso potessero avere. Era un essere intelligente. Però era malvagio e crudele, e questo mi bastava. Il cuore che mi aveva spezzato non poteva più essere rimarginato. Ed ero così arrabbiata e delusa da lui.

D'un tratto la porta si aprì e Colt entrò nella stanza.

«Vieni» mi disse e con un cenno del capo mi invitò a seguirlo.

Ci sedemmo in salotto, un ambiente aperto ben illuminato per via delle ampie vetrate a tutta parete, ben arredato dai mobili sicuramente molto singolari di uno stile classico ma dai colori e dalle rifiniture vivaci e rimodernate.

Mi offrì qualcosa da bere e infine si adagiò su una poltrona in fronte a me.

«Devi raccontarmi cosa voleva da te Sebastian» pretese discretamente. «Solitamente i demoni di quel calibro non scelgono a caso le loro prede. E non sono sicuro che fosse per via del marchio che hai. O sbaglio?».

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