Capitolo 1

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PARTE I

La sera calò e lentamente il cielo blu scuro si tinse di tanti puntini luminosi.

Era incredibile come si potesse osservare tanta bellezza dalla periferia in cui vivevamo ai margini est della città. Una volta, quando papà era ancora tra noi e lavorava in una famosa multinazionale come manager amministrativo, abitavamo in centro in un appartamento di una vecchia corte ottocentesca e qui le luci e i lampioni della movida milanese avevano sostituito lo splendore del cielo notturno. Nulla traspariva, nulla che non appartenesse ai palazzi ricchi di storia, o alle vie sfarzose, o all'alto tenore di vita.

Le stelle, per quanto ne sapevo io, erano altre cose. E una volta sognavo di diventare una di quelle per il teatro, o per il cinema. Adoravo recitare, personificare personaggi diversi, creare una nuova vita e una nuova persona sul palco. Non era solamente divertente, era una realtà che faceva parte di me: vedere gli spettatori sospirare commossi, sentire il cuore battere forte prima di ogni spettacolo, fare del proprio corpo e della propria voce una fonte di espressione rinnovabile, storia dopo storia. Saper piangere, saper ridere, saper scegliere l'attimo esatto in scena. Mi era così naturale che certe volte non ricordavo neanche chi fossi e quale fosse il mio vero carattere. Diventavo chi volevo tutte le volte che volevo.

Forse a pensarla in questo modo potrebbe non sembrare così eccezionale, direte voi. Ma vi assicuro che per me significava molto perché, paradossalmente, questa mia passione non diventava mai una maschera.

Ed era fantastico.

Un chiacchiericcio poco distante mi fece tornare alla realtà all'istante.

Distolsi lo sguardo dalle stelle per notare che Ginevra, mia sorella, stava camminando verso casa accompagnata da una ragazza bionda al suo fianco.

Mi soffermai sulle gambe nude, sulla minigonna e sulla maglietta troppo corta, prima che si accorgesse della mia presenza. Sbuffò scocciata e mi lanciò un'occhiataccia.

Daniela al suo fianco mi volse uno sguardo, squadrandomi. «E questa è tua sorella?» chiese critica, la voce bassa e stridula. Ginevra arrossì violentemente e cominciò ad agitarsi: «Dani, non è mia sorella. Vi ho già detto che è una cugina di Roma che è venuta da noi ad abitare!» esclamò, poi si volse a guardarmi negli occhi. «E' una buona a nulla» concluse e trascinò via con sé la sua amica passandomi oltre senza aggiungere altro.

Cugina, aveva detto. A volte dimenticavo quanto fosse loquace la mia sorellina, ma soprattutto quante bugie era disposta a raccontare per vivere una vita da sogno nell'alta società.

Non aveva mai accettato fino in fondo la scelta di trasferirci dopo la morte di nostro padre. Perennemente, la vedevo aggrapparsi a spiragli ormai logori, scorci di vita che non le appartenevano. Odiavo quel suo voler essere costantemente al centro dell'attenzione.

«Ehi, io sono qui. E presumo che per andare a mangiare "da un'amica" non serva mettersi in ghingheri?» osservai fissandola dritta negli occhi. I miei stessi occhi.

Ginevra strinse le labbra e esordì con un borbottio infastidito.

Daniela si rivolse ancora una volta a lei: «Beh, fammi sapere cosa vuoi fare domani sera. L'ingresso non costa tanto e poi ci sarà anche Luca» ridacchiò facendole l'occhiolino. «Ora vado».

«Aspetta!» la fermai allungando la mano a mezz'aria. «Non crederai davvero di tornare da sola? Ti accompagno io» mi offrii anche se non ne avevo per niente voglia, ma conoscevo le buie vie di Milano e soprattutto le metropolitane di sera. E non erano certo luoghi raccomandabili a quell'ora.

«Cosa?» rise incredula Daniela. «No, grazie! E comunque adesso mi devo incontrare con il mio ragazzo. Non voglio una terza incomoda tra noi due».

Rimasi di sasso per la sua sfacciataggine. Piccola ingrata!

Probabilmente una volta le avrei anche risposto a tono, ero dotata di un orgoglio di ferro e una personalità inattaccabile. E ora, inevitabilmente, mi rivedevo un po' in Ginevra. La voglia di vita, di divertimento, di popolarità. Come una droga che crea non solo dipendenza, ma euforia. E presunzione.

«Come credi» stiracchiai un sorriso sardonico e ritornai con lo sguardo a Ginevra che stava scuotendo la testa incredula. Daniela le rivolse un ultimo saluto e sparì tra le vie del quartiere da dove era arrivata. Non appena Ginevra fece per raggiungere la porta d'ingresso, allungai velocemente una mano e le afferrai il braccio.

«Che fai? Lasciami!» esclamò stizzita. Gli occhi come punte di frecce acuminate pronte a scattare.

«Ascoltami, non devi per forza uscire sempre con Daniela per dimostrarle qualcosa» dissi senza sciogliere la presa che mi legava a lei.

«Ma che cazzo dici? Daniela è la mia migliore amica. E piantala di dire scemenze» ringhiò.

«Stammi a sentire. D'ora in avanti sarò io a darti il permesso di uscire in settimana. Non è possibile che i pochi soldi che io riesca a portare a casa tu debba spenderli per le tue assurde cose da bambina viziata. Io lavoro per permetterti di andare a scuola, per pagare queste fottutissime bollette e per le sedute dal terapista per la mamma. E dovunque tu voglia andare questo sabato, sappi che non ti darò neanche un soldo per entrarci!» stranamente la voce mi uscì più ferma di quanto mi ero immaginata, anche se le labbra non smettevano di tremare dalla rabbia.

Ginevra spalancò gli occhi e la sua faccia prese a diventare rossa come un pomodoro.

Mi puntò il dito contro il petto e iniziò ad urlare: «Per la cronaca, il Metropolitan è uno dei posti più belli di Milano. E' pieno di gente famosa e non posso non andarci. Non rimarrò a marcire qui come fai tu, io diventerò qualcuno un giorno».

Stessi occhi, stessi capelli, stesso carattere, stessi sogni.

Io e Ginevra eravamo così simili. Ma allo stesso tempo così distanti.

La mia bolla di felicità e speranza era scoppiata già da un bel pezzo e, un giorno con l'altro, ero stata catapultata nella cruda e vera realtà di tutti i giorni.

Mentre lei ancora viveva in quella bolla, come se il mondo all'esterno non potesse scalfirla e neanche minimamente avvicinarsi al suo ego spropositato.

«Per la cronaca, Ginevra, tu non andrai al Metropolitan!» gridai rivolgendole uno sguardo accigliato, come per farle capire che il discorso era chiuso.

Le sue guance si gonfiarono rosse di rancore. Con uno strattone si liberò dalla mia presa e a grandi falcate, andò ad aprire la porta d'ingresso.

Prima di entrare, però, si volse un'ultima volta con un'espressione corrucciata in volto. Lanciò uno strillo acuto nella sera. Un grido di frustrazione e ira.

«Ti odio!» mi disse e si richiuse la porta alle spalle.

La porta sbatté con un tonfo lasciandomi sola e avvelenata da quelle ultime due, terribili, parole.

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