Prologo

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     Sapete una cosa? La mia vita non potrebbe andare peggio di così.

E' piuttosto triste da pensare, lo so, ma purtroppo è la verità e io non posso farci nulla. Forse vi sembrerò un po' drastica e magari non vi starò del tutto simpatica, ma aspettate di conoscere la mia storia e poi potrete giudicare voi stessi. Sì, perché la mia non è come le altre storie. Non c'è un principe e non vi è neppure un castello sperduto tra le valli di qualche magico mondo incantato.

No, ci sono io, Samanta D'elia una semplice ragazza di 20 anni con tanti problemi per la testa e una famiglia a cui badare. Che poi non direi proprio "famiglia", in effetti di questo non si tratta se dovessimo pensare a mia madre come un'alcolizzata cronica e alla mia sorellina, Ginevra, come una quindicenne già con il piercing all'ombelico che va in giro fingendo di non avere una sorella. In effetti mi viene da star male al solo pensiero.

Purtroppo non ce la passiamo per niente bene e non parlo solamente del nostro rapporto in famiglia. Da quando mio padre morì stroncato da un infarto la mia vita cominciò a prendere una brutta piega, tutt'altro che rose e fiori. Dovetti lasciare la scuola bocciata per due anni di fila al liceo scientifico e avevo dovuto trovarmi poi un lavoro, che non poteva e non voleva darmi alcuna soddisfazione; ma quale soddisfazione poi? Fare la cameriera in un pub squallido aperto la sera fino a tardi e talvolta non riuscire neanche a portarsi a casa la mancia per colpa del proprio capo avido e menefreghista. E come se non bastasse mi era già capitato diverse volte di avere una detrazione dello stipendio per essere arrivata in ritardo sul posto di lavoro. Già, quale soddisfazione?

Ad ogni modo la mia storia inizia così, in una giornata soleggiata di un lunedì di fine settembre. Il caldo stava pian piano lasciando il posto all'imminente autunno e già, sugli alberi, si potevano scorgere le prime foglie cambiare colore e divenire di tante tonalità tra un rosso accesso e un giallo limone. Fortunatamente il pub a cui lavoravo il lunedì mattina e metà pomeriggio faceva chiusura e quindi, in quel giorno, potevo dedicarmi ad altro, allontanarmi qualche ora da casa per prender una boccata d'aria, starmene per i fatti miei senza che la puzza di alcool dei whiskey di mia madre potesse urtarmi le narici come ogni santo giorno. Così prendevo e me ne andavo semplicemente. Talvolta mi piaceva trascorrere il mio tempo in una piccola biblioteca a Milano che si trovava a pochi passi dal mio quartiere e restare lì a sfogliare qualche libro e assaporare il profumo delle pagine. Anche se tutto sommato devo confessarvi che non sono una gran divoratrice di libri, anzi, avrò iniziato centinaia di romanzi lasciati poi lì inconclusi per sempre. Adesso che ci penso: chissà quante volte avrò riletto le prime pagine di Harry Potter?

In altri giorni, invece, e questo soprattutto nelle stagioni calde, prendevo il mio telo da spiaggia e mi sdraiavo all'ombra di uno degli alberi del grande parco del castello Sforzesco in centro città e rimanevo a pensare con gli auricolari nelle orecchie e la musica a livelli stratosferici. Sì, perché la musica era una delle poche cose che riusciva a distrarmi veramente. Riusciva a rilassarmi i nervi tesi, a farmi pensare cose positive e a sognare. A sognare, già. Sono sempre stata una grande sognatrice, forse una delle migliori. Se mi avessero chiesto un giorno di gareggiare ad una competizione da sognatori sarei arrivata tra i primi tre. Perché i sogni sono così: sono in grado di darti la vita che vorresti, che speri, su misura per te stesso. Ma solo con i sogni e un pugno di progetti nel cassetto non si va da nessuna parte. Questo l'ho imparato negli ultimi anni, quando pian piano iniziai la mia discesa in quel baratro da cui sapevo non avrei più fatto ritorno. Ma, dopotutto, mi sono sempre fatta forza e sognando una vita nuova dove la mia quotidianità fosse scandita da orari di lavoro accettabili, e caratterizzata da una buona occupazione, sono andata avanti ingoiando l'amaro in bocca quando dovevo e approfittando della situazione quando potevo. Sognavo una vita nuova dove mia madre abbandonasse il dolore che ancora dopo tutti questi anni si portava dentro e trovasse la forza di capire che c'era bisogno di lei. Una vita nuova dove Ginevra vivesse veramente come una ragazzina della sua età, felice, spensierata e soprattutto leale verso il prossimo. Inutile dire che soffrivo, soffrivo tanto. E l'unico modo per scaricare questo dolore era proprio uscire all'aria aperta. La cosa che più mi affascinava del grande parco del castello Sforzesco, il parco Sempione, erano le persone. Restavo ore ferma ad osservare le loro vite e quasi, dai loro gesti, dai loro movimenti, dai loro sguardi, sembrava di riuscire ad immaginare chi erano. Era come un hobby che non riuscivo ad abbandonare, mi veniva spontaneo osservare e rubare scorci di storie, una diversa dall'altra.

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