Capitolo 18

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 La mattina dopo giunse inevitabilmente come ogni dì.

Tra i mille pensieri che mi affollavano la mente le parole di Colt riuscivano inspiegabilmente a ergersi su tutti gli altri. Ero arrabbiata con lui, ma riconoscevo che non aveva torto dicendo che non avrei mai salvato qualcuno se prima non avessi salvato me stessa. Come se per tutto questo tempo, le faccende domestiche, il lavoro, le bollette e quant'altro mi avessero portato a non pensare più a me stessa. Ponevo sempre al primo posto la mia famiglia. Ora mi rendevo conto con più concretezza che stavo vivendo una vita non mia, ma quella di mia madre e della mia sorellina. Ogni cosa che avevo fatto fin adesso era stato esclusivamente per loro. E ancora una volta il "Sii forte" di mio padre non poteva che ribadire il mio impegno e la mia perseveranza. Non avrei mai voluto deludere le sue aspettative, e quelle due parole suonavano come una promessa che avevo stipulato silenziosamente nell'ultimo istante di vita che gli rimaneva. Quanto avrei voluto che fosse lì a consigliarmi cosa fare ancora una volta.

Il sospiro di Ginevra mi destò dai miei irruenti pensieri e sperai che quello fosse stato un buon segnale e che in realtà fosse in buona salute. Ma spensi il mio entusiasmo immediatamente vedendo che le sue palpebre calavano a poco a poco.

«Mi spiace tanto Gine» mormorai, le lacrime ancora non ne volevano sapere di asciugarsi e sulle gote iniziavo ad avvertire un pizzicore. L'abbracciai e una goccia cadde sul suo viso. La guardai espandersi e brillare. «Ti voglio bene» bisbigliai alla fine.

Quel giorno Colt Devon non si prese nemmeno la briga di uscire dalla sua camera. Udii solo qualche rumore come lo scrosciare dell'acqua nella doccia, il cigolio dell'armadio, oppure il suono del ghiaccio in un bicchiere (e io sapevo quanto gli piacesse bere un buon Martini quando era inquieto).

Fuori il tempo era terribile, rispecchiava quasi il mio umore nero e non dava segni di voler smettere. La pioggia scendeva incessantemente e il sole, nascosto dalle nubi, si perdeva in un cielo color fuliggine. Triste e spento.

Mi sollevai dal divano sul quale mi ero inavvertitamente addormentata un paio di ore prima e decisi che avrei dovuto aver qualcosa da fare per smettere di pensare a Ginevra, almeno per un po'.

La casa si trovava ancora in pessimo stato e i fiori che occupavano l'ambiente erano appassiti con il trascorrere della notte. Presi una scopa dall'armadietto in cucina e spazzai le foglie e la terra nella paletta. Raccolsi qualche gambo ancora verde, ma era inutile provare a salvarlo mettendolo in un vaso. La sua vita era stata segnata dal momento in cui era stato lasciato cadere per terra. Una metafora crudele che mi amareggiò ineluttabilmente.

Dopo un po' tra le mani mi giunge il vaso di un'orchidea ancora intatta. La guardai e anche quella mi parve una metafora: c'era ancora veramente speranza?

Sollevai il viso e mi trovai di fronte ad un ritratto di Colt. Nella fotografia sembrava ancora più giovane e la pelle era luminosa e più bronzea del solito. Interpretava un marinaio, sul capo aveva un berretto con una spilla a forma di ancora e lo sguardo si protraeva all'orizzonte dove il mare si stagliava incontaminato. Al suo fianco una ragazza si stringeva a lui con gli occhi socchiusi e un'espressione assorta in volto: era Catt, la sorella di Colt. Osservai la sua chioma dorata, diversa da quella che le avevo visto il giorno precedente, che invece era scura come le tenebre.

Sebbene noi due non avessimo avuto modo di parlare di lei, non ci misi molto a comprendere l'enorme legame che c'era tra loro. Colt non avrebbe mai riempito un'intera stanza del fiore preferito dalla sorella se non gliene avesse importato gran ché. E come io, in fondo, volevo bene a Ginevra, anche lui ne voleva a Catt.

La porta della stanza del mezzo-demone di aprì alle mie spalle facendomi sussultare. Colt ne uscì vestito in maglietta e pantaloni di una tuta.

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