Capitolo 2

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L'eco della voce di Ginevra mi ronzava ancora nelle orecchie come un fantasma inquieto e insistente.

Non mi ero mai sentita tanto sola come ora. Il cuore spezzato, fatto a pezzi in tanti piccoli frammenti di carne. Sapevo che non facevo parte del cerchio di persone che Ginevra stimava, ma sentirselo dire con parole dure e cariche di astio, come era successo quella sera, mi aveva colta impreparata.

Avevo voglia di piangere. Ma perché non poteva andarmene bene almeno una volta? Solo una, non era voler tanto, no?

Presi la metropolitana più tardi diretta, come al solito, al "Filligan pub" dove lavoravo. Erano più o meno le otto e mezza, e a quell'ora le cabine del metrò erano poco affollate. Vi erano più signori che tornavano tardi dal lavoro, e si poteva leggergli in volto la stanchezza della giornata premergli sulle palpebre degli occhi.

Più in là, invece, vi era un ragazzo un po' più sveglio di tutti gli altri, dai piercing al naso e sulle orecchie che stava guardando il cellulare, lanciando talvolta qualche occhiata qua è là per il vagone.

Mentre seduta a un posto da me, una signora vestita in larghi abiti colorati leggeva tranquilla un libro.

Guardai nuovamente l'orologio e capii quasi subito che avrei fatto bene a correre non appena uscita dalla metropolitana, se volevo arrivare puntuale al pub. La discussione con Ginevra e l'incontro fastidioso con Daniela, mi aveva fatto perdere tempo. E ora dovevo pagarne le conseguenze. Accidenti!

Accesi la schermata del mio cellulare, quando mi accorsi che mi era arrivato un messaggio da pochi minuti. Si faceva fatica a sentire il telefono in metropolitana.

"Gine è rientrata in casa arrabbiata. Avete litigato di nuovo? Fate la pace."

Era un messaggio della mamma. Solo lei poteva scrivere "Fate la pace" alla fine di un messaggio. Quello che però non capiva è che non avevo più 15 anni come Ginevra, e che forse avrebbe fatto bene a parlarle, invece di mandare messaggini rappacificatori, sperando che il mondo potesse cambiare magicamente. Che noi potessimo cambiare.

Sospirai rassegnata e riposi il cellulare.

All'improvviso tutto si fece buio. Le luci si spensero, il ronzio metallico del vagone si attenuò e il metrò inchiodò di colpo facendomi sobbalzare in avanti, e cadere a terra.

Il telefono si illuminò un istante mentre veniva sbalzato via dalle mie mani, ma poi si spense un attimo dopo. Le persone a bordo sussultarono presi alla sprovvista e sentii nel buio più cieco, dei suoni come ripetuti sfregamenti e dei passi. Poi silenzio.

Allungai le mani per tastare il pavimento alla ricerca del mio telefono, procedetti a carponi. Toccai un sacco di cose improbabili che mi augurai di non scoprire mai cosa fossero.

Ad un certo punto sfiorai qualcosa, forse una mano.

E dopo la mano una voce, bassa, roca e graffiante.

Conoscevo quella voce, ma non capivo come, un secondo dopo intravidi nelle tenebre dei lineamenti di un viso che mi sembravano alquanto famigliari.

«Samanta...» bisbigliò l'uomo. «Samanta attenta, scappa!».

Il cuore mi balzò fuori dal petto.

I miei occhi non potevano credere a ciò che stavano vedendo. Davanti a me, accovacciato, c'era l'uomo che quella mattina era stato trovato morto dalla polizia, e che ero più che sicura di aver incontrato. Il suo sguardo supplichevole mi trafisse come una spada. I suoi occhi color nocciola, adesso, erano più vispi che mai.

Un grido di terrore mi sfuggì dalla gola e nei dintorni udii le persone voltarsi allarmati.

La luce tornò d'un tratto.

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