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Show don't tell [parte 1]

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Show don't tell
di kanako91

Nella tua carriera da fanwriter hai mai sentito parlare di show, don't tell?

Non temere: che sia la prima volta che leggi questa espressione o che il concetto ti sia familiare ma poco chiaro, proverò a dare un senso a questo strumento fondamentale (e complesso) del nostro arsenale di scrittori, al punto che non potrai fare a meno di prestarci attenzione.

Se ne hai già sentito parlare fino alla nausea e non ti convince, permettimi di dimostrarti come tutto sia show don't tell!

...oppure no?

𝘋𝘪 𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘴𝘪 𝘵𝘳𝘢𝘵𝘵𝘢?

Partiamo dall'inizio. Show don't tell, come può intuire chiunque mastichi un minimo di inglese, si traduce letteralmente:

mostra, non raccontare!

Ma se la traduzione è facile, il concetto dà l'illusione di esserlo altrettanto, peccato che sia uno dei punti deboli più comuni tra noi scrittori.

Questa tecnica ha come obiettivo far sperimentare la storia direttamente al lettore, invece che attraverso l'intermediazione dell'autore.

Come si pensa avesse detto un certo russo (Chekhov, quello della tecnica con la pistola omonima ;D):

"Non raccontarmi che splende la luna; mostrami il luccichio dei suoi raggi su un vetro rotto".

Seguendo questo ragionamento, il modo migliore per spiegare lo show don't tell è... mostrarlo all'opera:

L'Araldo di Oromë è nervosa mentre aspetta il ritorno del suo signore dal Concilio dei Valar. È partito solo dieci giorni prima, ma è stato chiamato a sentire il racconto di Olórin sulla missione che ha svolto nella Terra di Mezzo e Nielíqui aspetta notizie dei suoi compagni di viaggio spariti con una certa ansia.

Ansia tale che, per ingannare l'attesa, fa quel che sa fare meglio: cacciare. La preda del giorno è un cervo a tre corna, un esperimento della Signora della Terra, Yavanna, che ha lasciato vagare al di fuori dei suoi territori. E quel che è fuori dalle terre di Yavanna è preda per i Cacciatori di Oromë.

Per fortuna, non è sola, anche se la sua amica Wiline, una Maia in forma di grande civetta, non è molto d'accordo con il suo passatempo e non esita a farglielo sapere con una certa insistenza.

Apparentemente questa scena non ha niente di male. Stabilisce la situazione, il personaggio principale e cosa la angustia, e introduce anche un personaggio secondario. Veicola le informazioni (molte) e non lascia molto all'interpretazione.

Vediamo quest'altra versione:

«Hai aspettato dieci anni, Niel» cinguettò Wilinë – sempre che una grossa civetta potesse cinguettare. «Non mi dire che non puoi aspettare dieci giorni senza dar fondo a tutta la selvaggina della foresta».

Niel sfilò la freccia dal petto del cervo e accarezzò le tre corna vellutate. Erano piccole per la media, sottosviluppate avrebbe detto, ma doveva essere perché ce n'era una in più. A parte quello, era un esemplare adulto e ben nutrito: Niel aveva visto da lontano che c'era abbastanza carne e lardo per farne una buona preda e, se si trovava in quei boschi, era preda. Si caricò il cervo tricorne sulle spalle e lanciò un'occhiataccia a Wilinë appollaiata su un ramo.

«Sono dieci giorni senza notizie. Quanto tempo ci vuole per ascoltare Olórin e decidere cosa fare?»

Erano dieci giorni da quando un messo era giunto alle Aule per annunciare l'uscita di Olórin dai Giardini di Lórien, dieci giorni che Oromë era saltato in groppa a Nahar ed era partito alla volta di Valmar, per prendere il suo posto nel Máhanaxar e ascoltare i racconti di Olórin sulla missione nella Terra di Mezzo.

Per ascoltare cosa ne era stato di due dei suoi Cacciatori migliori.

Per capire perché Alatar e Pallando non fossero tornati.

Perché avevano fallito.

Niel sapeva perché.

L'effetto che fa questa seconda scena è completamente diverso, vero? Quante delle cose spiegate nella prima si possono intuire anche in questa?

Qual è la scena più coinvolgente delle due? Posso scommettere sulla seconda.

Perché il trucco dello show don't tell sta in questo: facendo vivere un'esperienza al lettore, invece di dargli spiegazioni, lo porta dentro la storia, gliela fa vivere e non osservare da lontano.

𝘜𝘯 𝘱𝘰' 𝘥𝘪 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢.

"Ma il Manzoni non usava questa tecnica!" potrebbe ribattere qualcuno.

A parte che si può discutere sulla questione, ma il punto è un altro. Tra l'esperienza (e le aspettative) del lettore ottocentesco e quello degli anni 2000 c'è una grossa differenza: il cinema.

Pensiamo al famoso cortometraggio "L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat" dei Fratelli Lumière: nel vedere avvicinarsi il treno dal fondo dell'inquadratura, gli spettatori erano terrorizzati, come se il treno stesse per arrivargli addosso.

Era un'immagine in bianco e nero, non nell'alta qualità a cui siamo abituati ora, eppure la reazione spontanea di tutti quegli spettatori è stata la stessa che avrebbero avuto davanti a un vero treno!

Le prime pellicole stavano ormai dando vita a un nuovo linguaggio che non si è limitato a influenzare un solo settore della cultura, ma è arrivato fino alla scrittura. Infatti, la tecnica è diventata popolare proprio a inizio '900 ed è stata utilizzata – e sostenuta con convinzione – da un Premio Nobel come Hemingway... se è proprio necessario scomodare grandi nomi in questa discussione!

Abituati all'immediatezza con cui si vivono le vicende in un film, cerchiamo nei libri lo stesso coinvolgimento nelle vicende dei personaggi. Con un vantaggio che nessuna esperienza cinematografica può darti: entrare nella testa del personaggio e provare tutto in prima persona.

Per farlo non ci devono essere filtri, come l'interpretazione dell'autore o direttive per interpretare il comportamento dei personaggi. L'autore deve essere trasparente, anche se è il responsabile delle vicende di cui stiamo leggendo.

Dobbiamo far provare al lettore le stesse reazioni spontanee che provocò quel cortometraggio del treno, o che ci provocano i film ancora oggi.

E mostrare permette proprio questo.

𝘜𝘯𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘪 𝘳𝘪𝘴𝘱𝘦𝘵𝘵𝘰.

Spesso viene d'istinto, quando si è alle prime armi, scrivere in prima persona per ottenere la stessa immediatezza, ma è proprio da questo POV che si rischia di raccontare di più: presi dal monologo interiore della nostra protagonista si finisce per fare un resoconto di quello che vive e non di mostrarlo mentre accade.

E raccontare non è solo fare un resoconto delle vicende, ma molto spesso si manifesta con spiegazioni del perché e del per come di ogni avvenimento e ogni comportamento dei personaggi, senza lasciare al lettore libertà di interpretazione. È limitare la storia a un significato, quando potrebbero essercene infiniti.

Così, torniamo al cinema: in genere, nei film, vediamo svolgersi le vicende senza aver bisogno di spiegazioni da parte del regista e ognuno si fa la sua idea in base a quello che osserva e al suo vissuto personale. È stimolante per lo spettatore, così come è stimolante per il lettore vedere oltre quello che mostra l'autore, mettere insieme gli indizi e trarre le proprie conclusioni.

È soprattutto una questione di rispetto nei confronti del lettore: chi racconta, quando dovrebbe mostrare, dimostra scarsa fiducia nell'intelligenza del lettore (e nelle proprie capacità di scrittore).

Quindi, un consiglio: rispetta i lettori. Perché credere che i propri lettori siano abbastanza intelligenti da capire quel che stai scrivendo, ti rende uno scrittore migliore.

Ma proviamo a vedere
degli esempi pratici...
nella prossima parte!

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