IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

24 - Ricerche

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By Valeroot

Siamo incredibilmente sopravvissuti alla fine del mondo... quindi ora vi beccate il capitolo.
Buon inizio settimana❣️
_______________________

«Pulcino, non te lo ripeterò un'altra volta. Prova la febbre».

James mi fissava ostinato. La sua insoddisfazione per il mio comportamento poco collaborativo si rifletteva nelle braccia conserte e negli occhi infossati, coperti dalle spesse sopracciglia che si tendevano e corrucciavano a intervalli alterni, durante quel nostro battibeccare che ormai perdurava da almeno una decina di minuti.

«Sto bene, papà» esalai, cercando di ignorare l'ennesimo nominativo degno di una bambina di cinque anni.

Era una bugia. Non stavo affatto bene: gli incubi non mi facevano riposare da settimane e l'ansia mi stava divorando. Una persona abituata a viaggiare per il mondo dovrebbe saper gestire i cambiamenti, no? Beh, io evidentemente non ne ero in grado. Mi ero ormai arresa a quella consapevolezza.

James poteva ripetermi tutte le volte che voleva "ti abituerai, Cassie", ma in ogni nuova città, per me diventava sempre più difficile. Danvers era difficile.

«Adesso chiamo il signor Case e gli dico che non vai allo stage» sentenziò, facendo orecchie da mercante, nonostante le mie proteste.

Era la terza volta che ripeteva quelle parole e a nulla erano valsi i miei tentativi di dissuaderlo. E anche in quel frangente, le mie opzioni si erano ridotte a una plateale alzata di occhi al cielo, invocando una pazienza che sapevo notoriamente di non avere.

«Papà, sto bene» ripetei, con tutta la convinzione della quale ero capace.

Con la velocità di una commessa che deve scansionare gli ultimi prodotti in offerta, lui però si limitò ad avvicinare il termometro a infrarossi alla mia fronte. Probabilmente erano mesi che voleva testarlo su qualcuno.

«37.8 Cassandra. Tu non esci».

Un sibilo uscì dalle mie labbra, mentre mi lasciavo cadere sui cuscini, esausta per quel confronto di prima mattina. C'era qualcosa di peggiore del rimanere a casa per una giornata intera, da sola, a rimuginare? Un toccasana per la mia salute mentale, insomma. Speravo quantomeno che Jenna avesse ricomprato gli yogurt al pistacchio che mi aveva rubato.

***

Il suono insistente del campanello di casa Parker trapanò le mie tempie, svegliandomi.

Provai ad ignorarlo una prima volta, e poi una seconda, ma quel dannato rumore però continuava a vibrare sordo e in maniera talmente insistente da sentirlo rimbalzare persino all'interno della mia scatola cranica.

Sbattei le palpebre tremolanti un paio di volte, mentre le mie iridi si abituavano al chiarore che filtrava dalle persiane. Dovevo aver dormito per diverse ore, perché la luce era calda e morbida, segno che il sole era abbastanza alto da superare la boscaglia del nostro giardino sul retro. E in quel momento pensai che ci fosse una sottile ingiustizia, nell'essere ammalata proprio l'unico giorno di sole dell'intero Stato del Massachusetts.

E mentre quei pensieri affollavano la mia testa, il campanello suonò nuovamente.

Mugugnai qualcosa di indistinto, che si perse sotto allo sbuffo nervoso con il quale mi sollevai dalle coperte. L'unica persona che bussava alla nostra porta era Luke, il postino della via, che puntualmente si fermava a chiacchierare con James del campionato di hockey. Io però non ero mio padre, e non avevo neppure la minima idea di quanti giocatori servissero per praticare tale sport.

Mi trascinai per le scale, stropicciandomi gli occhi. Il rumore dei miei passi ovattati da un paio di spessi calzini natalizi prematuramente indossati, e nei miei gesti svogliati il chiaro atteggiamento di chi era stato ingiustamente buttato fuori dal letto, nonostante la febbre e i tremori.

Ed ero pronta a illustrare a Luke tutte le mie ragioni, rispedendolo velocemente a fare il giro della zona, perché un postino chiacchierone era un postino fannullone. Ma quando aprii la porta d'ingresso, fui costretta a riconsiderare ampiamente le mie intenzioni.

Nascosto dal bagliore che per un istante tranciò le mie pupille, Alex stropicciò i capelli scuri, stiracchiandosi alla mia porta. Nella mano destra due buste cariche di quelli che sembravano hamburger e patatine, a giudicare dall'odore, e sul suo viso un sorriso arrogante e compiaciuto per la sua entrata di scena trionfale.

Sbattei gli occhi con eccessiva lentezza. I miei riflessi dovevano essere necessariamente rallentati a causa della febbre, perché per alcuni lunghi istanti non trovai nulla di intelligente o di appropriato da dire.

«Cosa ci fai qui?» articolai infine.

Non so se si aspettasse che srotolassi un tappeto rosso, ma Alex mi guardò con una perplessità evidente per quella mia domanda. «Ho portato il pranzo» chiarì alzando le spalle, come se fosse ovvio.

L'odore di patatine fritte mi fece arricciare il naso. «Questo lo sento» commentai spostandomi per lasciarlo entrare, «ma cosa ci fai qui?» insistetti.

Non so perché mi ostinassi a farlo. Insistere, intendo. Alex era abituato a dare spiegazioni solamente alle sue condizioni e il fatto che solitamente rispondesse a una domanda con un'altra domanda ne era la prova lampante.

Quella volta però, si limitò a rimanere in silenzio, muovendo qualche passo in direzione del salotto, dove appoggiò le buste con il nostro pranzo sul basso tavolino in ossidiana, prima di sedersi mollemente sul divano.

Non ero particolarmente sorpresa per il suo rifiuto di fornirmi spiegazioni, ma mi ritrovai a seguirlo imbambolata, mentre lui con nonchalance prendeva possesso della zona giorno di Casa Parker.

«Com'è che non sei a scuola?» chiesi, provando a cambiare strategia. Mi strinsi nella felpa di James che usavo come pigiama, mentre Alex mi porgeva un grosso bicchiere da asporto.

«Due ore di biologia nel pomeriggio? Vorrai scherzare» rispose con tono basso, scuotendo la testa, «ho saputo da mio padre che eri malata».

Quell'informazione mi sorprese: quindi i due si parlavano nuovamente? Forse allora io e il signor Case ci saremmo potuti scambiare consigli su come gestire i suoi repentini cambi di umore. Al pari di due vecchie zitelle che si suggeriscono i segreti della perfetta composta di mele.

Mi morsicai l'interno della guancia per non esternare i miei pensieri. Qualcosa infatti mi suggeriva di non commentare il rapporto tra i due.

Lui però non sembrò notare la mia reazione. «Ho pensato che potessimo iniziare con le nostre ricerche» continuò estraendo un fascicolo dallo zaino.

Era strano come improvvisamente gli si fosse sciolta la lingua. Inizialmente, non mi aveva dato spiegazioni ma adesso era chiaro che avesse un'idea ben precisa di come avremmo passato il tempo.

Non sapevo esattamente il perché, ma avevo la sensazione che quella consapevolezza m'infastidisse. In ogni caso però, c'erano cose più importanti a cui pensare della mia ipersensibilità momentanea. Giocherellai per qualche istante con la cannuccia della coca-cola, indecisa se parlare o meno, perché non lo avevo ancora messo al corrente della scoperta che avevo fatto la sera prima.

«Ieri ti sei perso la rivelazione del secolo» cincischiai, continuando a osservare il contenitore che avevo tra le mani.

Il lieve tremolio delle mie dita tradiva però il mio nervosismo. Una parte di me infatti voleva rendere tutto facile: fidarsi di Alex, raccontargli di Matt, senza mettere in dubbio che anche lui avrebbe fatto lo stesso con me.

Un'altra parte però, piccola ma rumorosa, teneva diligentemente il conto delle persone che mi avevano delusa nel corso della vita. Era una lista breve, ma sorprendentemente lunga, se si considerava il numero limitato di figure che avevano costellato la mia infanzia. E ciò mi rendeva sempre estremamente insicura su come comportarmi con gli altri. Soprattutto perché avevo la sensazione che tra me e Alex ci fosse una sorta di partita in corso. Tenevamo i punteggi di una collaborazione che andava avanti a singhiozzi, perché lui prima mi aiutava e poi spariva; una collaborazione che aveva il sapore di competizione, perché era sempre una gara a chi trovava qualche informazione per primo. E io sentivo la maledettissima necessità di lasciarmi andare e fidarmi di qualcuno. Un qualcuno che però non sapevo se potesse essere Alexander Case.

Lui in quel momento mi osservava con aria interrogativa ma paziente. Sicuramente si aspettava che continuassi il racconto, ma in quel momento decisi di avere bisogno di più: non mi bastava quello strano rapporto fatto di frasi non dette, messaggi ignorati e comportamenti incomprensibili. E forse la mia leva era l'intontimento dovuto alla febbre, o la rassegnazione per la consapevolezza che non sarei potuta andare avanti per sempre con quella tensione che sentivo tra di noi, ma ad un certo punto il mio orgoglio fu costretto a gettare la spugna.

«Ti fidi di me?» articolai veloce.

Le parole mi uscirono con foga. Con l'urgenza di chi ha paura di formularle e con l'incoscienza di chi vuole ignorare la portata delle proprie azioni. Perché ero consapevole che quello fosse un punto fondamentale, vista la nostra situazione. Che senso aveva portare avanti questa strana alleanza, che non avrebbe fatto altro che rallentarci, se non avessimo potuto condividere ciò che sapevamo? E non avrei neppure sopportato di ricominciare tutto da capo, per poi vedere Alex sparire un'altra volta.

In quel momento, quindi, sperai tanto che mi dicesse di sì. E realizzai addirittura che, nonostante l'espressione distaccata che tentavo di mantenere, in realtà i miei occhi fossero ancorati ai suoi, con la preghiera silenziosa di poter mettere da parte tutti quei dubbi e quella sensazione di inadeguatezza che il suo comportamento degli ultimi giorni mi aveva cucito addosso.

Sotto la mia supplica implicita però, la sua espressione si fece guardinga. Le spalle si tesero all'interno della maglietta leggera che portava, e i suoi pensieri vennero seppelliti sotto strati di distacco e d'indifferenza. Ecco, ancora una volta finivo per scontrarmi con la solita espressione neutra che rimescolava le sue emozioni azzerandole completamente.

E in quell'istante ebbi la conferma che stavo aspettando: no, ovviamente Alex non si fidava di me. Riuscivo a leggerlo nel modo in cui le sue labbra si erano lievemente tirate. Nel cerchio scuro che aveva contornato i suoi occhi. Nella postura selvatica di chi è abituato a colpire. Non si fidava, ma non aveva il coraggio di dirmelo.

Fu come ricevere una secchiata d'acqua gelida sul capo, che mi fece arretrare impercettibilmente. Quella consapevolezza s'instillò in maniera prepotente nella mia testa, trasmettendo una fitta di delusione in un punto imprecisato del mio petto, bruciando avida, quasi a voler eliminare qualsiasi stupido sentimento di speranza mi avesse portata a pronunciare quella domanda spudorata.

Non sapevo come fosse possibile aver pensato a una cosa tanto sciocca: proprio io, che ero solita non dare mai confidenza a nessuno, mi ero illusa di potermi lasciar andare con una persona che conoscevo appena?

«Sì».

Fu un sussurro roco a strapparmi da quel vortice di pensieri dannosi che capeggiavano la mia testa.

Sì.

Ad Alex era bastata una sillaba per rimescolare prepotentemente le sensazioni che stavo provando. E avrei voluto trovare le parole per spiegare come mi sentissi a quell'ennesimo cambio di direzione, ma non ci riuscivo. Avrei voluto poter chiaramente identificare cosa si stesse svolgendo a un livello più profondo del mio corpo, dove sentivo l'adrenalina che si mischiava a qualcosa di diverso, di nuovo, di strano, ma ero troppo sorpresa per farci effettivamente caso.

Forse era il germoglio di una speranza che non sapevo se potevo cogliere o meno, ma nonostante Alex avesse parlato con ancora quegli occhi azzurri adombrati di diffidenza, e il labbro superiore un po' arricciato, la sua risposta era arrivata decisa, risoluta, proprio come si mostrava sempre lui.

Sì.

La tensione aggrumata nel mio stomaco si sciolse in un lento sospiro, ma il sollievo fu tanto istantaneo quanto effimero. Non era infatti quella, la parte difficile.

«Perché sei stato cacciato dalla precedente scuola?» formulai piano.

Non era una domanda casuale la mia. Alla festa di inizio anno, entrambi avevamo evitato di dire la verità sul nostro passato: io avevo glissato sulla domanda legata a mio padre, e lui aveva sbottato quando gli avevo chiesto la ragione di quell'allontanamento dalla precedente scuola. Ora non sapevo bene cosa gli stessi chiedendo, forse di rimediare, di dimostrarmi che non eravamo più le stesse persone di un paio di mesi prima. O più semplicemente, di fidarsi.

Vidi i suoi occhi assottigliarsi impercettibilmente alle mie parole. Come due coltelli affilati pronti ad affondare nella mia carne. E io lo sapevo che quella fosse una possibilità. Che esistesse l'eventualità che Alex decidesse di non sottostare a quel gioco, decidendo di tirarsene fuori prima di compromettersi troppo, ma sapevo anche che se fossimo andati avanti con le nostre ricerche, non avrei avuto la forza di combattere continuamente la mia diffidenza. E non potevo neppure permettermi il lusso di sperare, perché io ero razionale, avevo bisogno che le risposte fossero dette a voce alta, senza possibilità di fraintendimento.

Ma proprio io, che tanto chiedevo fiducia, sarei stata pronta a parlare di mia madre, se lui avesse deciso di acconsentire a quel gioco?

«Perché vuoi saperlo?» mi chiese piano lui.

A discapito dell'inflessione tranquilla che aveva utilizzato, lo sguardo era attento, intenso. Era una domanda lecita, ma sentii comunque le mie guance andare a fuoco, mentre riordinavo i miei pensieri.

«Perché sono stufa dei segreti». Feci una smorfia pronunciando quella parola. Odiavo persino come la mia lingua sfiorava il palato per articolarla. In modo schivo, riluttante.

Dal modo in cui il suo capo ciondolò avanti e indietro per un paio di volte, capii che non trovava poi così assurdo quel mio comportamento. «Ho coperto Christian, mio fratello» rispose lentamente e con aria meditabonda, come se stesse scegliendo con cura le parole. «E mi sono preso la colpa per una brutta faccenda. Così mi hanno cacciato».

Improvvisamente mi tornarono alle mente i racconti di Alice: l'infortunio di Christian, il Blackout, i giri di scommesse, le pillole. Tutto sembrava collegato, intrecciato con una logica però che ancora non capivo.

«C'entra Caleb?» chiesi esitante.

Il cuore mi batteva all'impazzata, nonostante non sapessi neppure io la motivazione. Forse perché avevo la sensazione di muovermi su un terreno instabile. Come una palude che avrebbe potuto trascinarmi a fondo con una sola parola sbagliata.

E probabilmente la mia impressione non era poi tanto errata, perché nell'udire quel nome, la mascella di Alex si contrasse, e le ombre proiettate dal suo profilo vibrarono minacciosamente. Dopo qualche secondo però, l'espressione amareggiata si dissolse e lo vidi annuire debolmente.

Non aveva detto una singola parola a spiegazione di quel sospetto che mi aveva appena confermato, ma non volevo neppure che lo facesse. La mia intenzione non era conoscere i trascorsi tra i due, nonostante quell'astio ovviamente m'incuriosisse. No, la motivazione che mi aveva spinta a porgli quelle domande era solo la banale necessità di capire se le mie intuizioni fossero giuste.

Aspettai qualche istante prima di rispondere, in modo da controllare la mia voce. «Okay» dissi semplicemente. Non avevo bisogno di sapere altro. Sapevo di averlo già forzato a sufficienza.

La sua reazione però fu di una sorpresa mista a incredulità. «Non vuoi conoscere il resto della storia?» mi chiese aggrottando la fronte. Probabilmente non si aspettava che avrei lasciato perdere così facilmente.

Io però scossi la testa. «Non fa nulla, grazie.»

Non sapevo neanche io per cosa lo stessi ringraziando. Grazie per esserti fidato? No, più probabilmente "grazie per aver fatto tu il primo passo".

Perché per giorni avevo creduto che io e Alex fossimo completamente diversi, come poli opposti: lui con quell'indifferenza capace di farmi uscire di testa, e io sempre perennemente insicura di fronte a lui. Ma adesso che avevo passato settimane a dover fronteggiare quelle sfaccettature caleidoscopiche del suo carattere, mi rendevo conto che sotto molti punti di vista fossimo in realtà tremendamente simili: incapaci di comunicare, troppo testardi, troppo diffidenti.

«Immagino che ora mi chiederai perché viaggio così spesso» mormorai, citando la sua di domanda.

E stranamente mi sentivo pronta a condividere qualcosa anche io. Certo, forse non gli avrei parlato di mia madre in maniera del tutto onesta e aperta, ma avrei potuto quantomeno fargli capire che era stata la nostra condizione famigliare a spingerci ad adottare quella vita.

Come ad imitarmi però, questa volta fu lui a scuotere il capo. Ciuffi di capelli scuri accarezzarono il suo volto, mentre articolava la sua risposta negativa. «No, non voglio».

Forse quello sarebbe stato il momento giusto per ringraziarlo. Ma invece rimasi lì, stringendo il mio bicchiere di coca-cola, incapace di alzare lo sguardo. Il mio pollice si muoveva con cadenza regolare, raccogliendo le goccioline di condensa sull'involucro di plastica, probabilmente a voler dettare il giusto ritmo al mio cuore, che continuava a martellare indisciplinato nel mio petto.

«Mi hai detto che avevi una novità, prima».

Alex interruppe il silenzio, cercando di riportare la conversazione su un piano decisamente meno personale e io mi aggrappai alle sue parole per sollevarmi da quella sensazione di ansia.

Annuii, spostando brevemente lo sguardo su di lui. «Cosa ricordi dei racconti di Caleb, la sera che siamo andati al Wenham Lake?» chiesi con tono più deciso.

Lui si limitò a passare una mano sul mento, mentre rifletteva. «Non molto» ammise infine. Si era sporto verso di me, con i gomiti appoggiati alle ginocchia in una posa tremendamente rilassata e ancora una volta mi trovai a invidiare la sua capacità di recuperare così in fretta il controllo. «Avevo bevuto parecchio» aggiunse, con un mezzo sorriso che sapeva di scuse e divertimento.

La sua risposta non mi sorprese, perché la sera della festa del Sole, quando avevamo parlato in quella caffetteria aperta anche di notte, avevo avuto l'impressione che non ricordasse molto della serata al Wenham Lake.

«Ti ho già raccontato che secondo suo nonno esisteva un Consiglio delle famiglie fondatrici di Danvers» iniziai, osservando distrattamente le frange del cuscino accanto a me, mentre tentavo di mettere in ordine i miei pensieri. «Ieri mi sono fermata in municipio per controllare i cognomi che Caleb mi aveva fornito, e ho scoperto che anche Matt potrebbe essere uno di loro.»

Il suo viso fu attraversato da un'emozione strana, ma quando parlò sembrò del tutto controllato: «Si chiama Stevens, di cognome?»

«Ora è Stevens, ma prima era Stevow» precisai, «secondo Caleb è una delle famiglie più recenti».

Non sembrava che Alex avesse seguito le mie spiegazioni, perché la sua mano destra tamburellò irrequieta sul tavolino, mentre il suo sguardo era puntato su un oggetto in particolare.

«Mi presti il tuo portatile?» mi chiese di scatto, indicando il computer che aveva davanti.

Gli feci cenno di prenderlo, anche se non avevo idea del perché ne avesse bisogno. Mi limitai a osservarlo con espressione interrogativa, mentre le sue mani si muovevano velocemente sulla tastiera e le sue iridi seguivano il percorso tracciato dalle sue dita.

Lo lasciai lavorare per qualche secondo senza chiedergli spiegazioni, ma fu proprio lui a darmi la risposta poco dopo: «Sono sul database del municipio, prova a darmi gli altri cognomi.»

Per un attimo mi ritrovai talmente spiazzata che lo osservai con un misto di sorpresa e ammirazione, perché io sapevo a malapena far funzionare una presentazione di powerpoint e lui hackerava in quel modo i siti del comune di Danvers. Certo, non ero del tutto sorpresa della sua abilità, perché sapevo che suo padre fosse un genio dell'informatica, ma non riuscii comunque a nascondere quel sorrisino compiaciuto che sentivo spingere per formarsi sulle mie labbra.

«Prova con Blackwin» gli suggerii, voltandomi a prendere un tovagliolo e recuperando una biro dal portamatite di James. «Io non sono riuscita a trovare nulla, ieri».

Nel frattempo provai a scrivere tutti i cognomi che ricordavo, anche se era difficile e fastidioso, perché era passato un mucchio di tempo e la memoria non era esattamente il mio punto forte.

Un istante dopo, lo scatto nervoso delle sue dita sulla tastiera mi confermò che anche lui non aveva avuto più fortuna di me.

«Niente» borbottò laconico.

«Okay, allora proviamo con Cavendish» proposi, depennando il cognome dalla mia lista.

Alex continuò a scrivere codici e comandi per un po', perfettamente a suo agio in quella situazione, non solo altamente illegale, ma anche vagamente inusuale per due ragazzi della nostra età. Voglio dire, chi passava i pomeriggi ad hackerare i siti istituzionali? Il modo in cui però Alex portava avanti quelle ricerche mi face dubitare che fosse la prima volta che trasgrediva la legge. In ogni caso, probabilmente suo padre gli aveva insegnato a programmare ancora prima di camminare e per quello per lui sembrava così semplice.

«Trovato». La sua voce mi riscosse da quei pensieri e mi ritrovai a sporgermi nella sua direzione. «C'è solo un atto di proprietà di un terreno fuori Danvers. E la via è...» disse facendo scorrere il cursore del mouse «...Robin Hill road».

Robin Hill road? Il nome non mi diceva assolutamente nulla, ma dopotutto ero arrivata a Danvers solamente da alcune settimane.

Tornai a mettere a fuoco lo schermo, rileggendo quelle poche parole. «Conosci nessuno che abbia un immobile lì?» chiesi, voltandomi nella sua direzione. Entrambi ci eravamo avvicinati così tanto allo schermo che riuscivo a sentire i suoi capelli disordinati che sfioravano impercettibilmente i miei.

«In effetti sì» rispose corrugando la fronte, mentre io mi ritraevo discretamente per mettere un po' di spazio tra di noi.

Sentendo quella risposta però i miei occhi saettarono nuovamente su di lui. «Chi?» articolai con foga.

«Io». 

________________

Lo so, capitolo lungo e troppo introspettivo (un pacco insomma ahah) ma Alex e Cassie devono imparare a comunicare se vogliono continuare ad indagare insieme.

Cosa ne pensate del collegamento tra i Cavendish e Alex? Pian piano stiamo raccogliendo tutti i tasselli di questa storia.

Ah, giusto per info, nel prossimo capitolo scopriremo tutta la storia di Christian, Alex e Caleb. Si, proprio tutta 🙊❣️

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