IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

23 - Stevow

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By Valeroot


«Cassandra, mi stai ascoltando?».

Il signor Case mi stava osservando con uno sguardo cortese, in attesa probabilmente di una risposta che non gli avevo fornito.

Trasalii, mettendo nuovamente a fuoco l'ufficio nel quale avevo passato gli ultimi tre giorni, con la parete trasparente che mi guardava, e il computer appoggiato su quella scrivania bianca, al cui bordo si erano arpionate le mie mani.

«Mi scusi, può ripetere?» chiesi un po' imbarazzata, voltandomi verso l'uomo alla mia sinistra.

Con mia grande sorpresa, gli angoli della sua bocca si tesero verso l'altro. «Cassandra, puoi chiamarmi Richard e puoi darmi del tu». Aveva la fronte aggrottata in un'espressione di ostentato disagio. «Non ferire il mio ego facendomi sentire vecchio» mi pregò.

Al mondo, immaginavo che esistessero davvero poche cose che potessero ferire l'ego del signor Case, e a maggior ragione quando eravamo all'interno della sua azienda, dove ovunque passasse sembrava di essere in presenza del messia.

Erano passati una manciata di giorni da quando avevo iniziato lo stage alle Industrie Case e, complice la mia amicizia con Alex, ero stata spostata dal ruolo di semplice stagista, a una sorta di assistente aggiuntiva di suo padre. Non che mi avessero chiesto davvero di occuparmi dei suoi appuntamenti o della sua agenda. Era più una sorta di coaching sul campo. Lavoravo con lui, lo seguivo nei meeting e in paio di occasioni mi aveva consultata per avere un parere giovanile e fresco su alcune decisioni che l'azienda doveva prendere. Dovevo ammettere che nonostante il timore iniziale si stava rivelando un'esperienza interessante.

«C'è qualcosa che ti preoccupa?» insistette, tornando a rivolgere la sua attenzione su di me, dopo aver spento lo schermo di fronte a noi.

Stavamo lavorando al nuovo sito internet della Churchill Accademy ed era la seconda volta che il signor Case mi riprendeva.

Non lo facevo apposta, ma era da quando Alex mi aveva parlato di quella frase in latino che la mia mente sistematicamente si disconnetteva dalla realtà, nel tentativo di formulare ipotesi e collegamenti per capire cosa ci stesse sfuggendo.

Mentre rimettevo in ordine i miei pensieri, vidi il signor Case piegare leggermente la testa di lato. Un gesto che faceva sempre anche Alex quando era assorto, come se quel movimento lo aiutasse a concentrarsi meglio sul suo interlocutore.

Qualcosa mi preoccupava?

Forse quella era la domanda sbagliata, perché al momento erano poche le cose che non mi impensierivano: dai medaglioni, alla scuola, al ritorno di Jenna che non sapevo bene come interpretare visto che probabilmente io e James non saremmo rimasti per molto a Danvers e... Alex. La costante sensazione di non sapere fino a che punto potessi fidarmi di lui mi bloccava, lasciando che l'incertezza mi attanagliasse imbottigliandomi in un circolo vizioso di pensieri nocivi.

Erano tutti ragionamenti che nella mia testa avevano un filo logico, ma che non potevo condividere con il mondo esterno e, soprattutto, non con il padre di Alex.

Alla fine quindi, mi ritrovai ad abbassare gli occhi, tentando di inventare una scusa meno imbarazzante della realtà. E cioè che io e suo figlio giocavamo agli investigatori privati nel tempo libero.

«Sì, abbiamo molti esami in questi giorni» mentii.

Lui si rilassò sulla sedia e prese un plico di documenti alla sua destra. «Allora direi che per oggi abbiamo finito» decretò.

Provai a ribattere, mentre un senso di colpa dilagava dentro di me: non lo avevo detto per saltare le ore del tirocinio, ma solamente per uscire da quella situazione scomoda.

Lui però mi fermò subito, sollevando stancamente una mano. «Adesso ti svelerò un segreto». Il signor Case si avvicinò a me con aria solenne, guardandosi attorno assicurandosi di non essere visto. «Regola numero uno» snocciolò con fare cospiratorio, «mai contraddire il capo».

L'aveva sussurrato con tono scherzoso, chiudendo quella frase con un occhiolino. Quasi come se fosse un segreto tra noi due, e involontariamente mi trovai a sorridere insieme a lui.

«Fammi solo un piacere» continuò, tornando ad assumere un atteggiamento pratico. «Prima di rientrare a casa, porteresti questi documenti da me? Macy potrebbe mangiarmi vivo, dato che avrei dovuto leggerli una settimana fa».

Così ora mi trovavo qui, di fronte alla moderna villa dei Case. Tra le braccia, una scatola di documenti che pesava quanto un cucciolo di rinoceronte bianco.

Avevo già suonato il campanello un paio di volte, senza che anima viva rispondesse, e quindi le opzioni erano solamente due: o la casa era totalmente disabitata – e a quel punto avrei avuto un problema serio – oppure chi era all'interno stava deliberatamente ignorando i miei tentativi di consegnare i faldoni del signor Case.

Ero sul punto di estrarre il telefono per chiamare Alex, o la segretaria di suo padre, quando la porta si aprì, mostrando un bambino con i capelli disordinati che mi guardava con grandi occhi diffidenti. Stringeva tra le mani un pupazzetto a forma di coniglio e stava lì, senza parlare, a osservarmi da sotto le ciglia scure.

Mi accigliai per un istante, mentre il mio cervello cercava di capire cosa ci facesse un bambino così piccolo di fronte ai miei occhi. Che fosse il fratello di Alex? No, non poteva essere, dal momento che Christian era abbastanza grande per aver già vinto il campionato nazionale di football. Allo stesso tempo però, nessuna ipotesi alternativa condensò nella mia mente.

Piegai le ginocchia e mi abbassai, per portare il mio viso alla sua altezza.

«Ciao, mi chiamo Cassie» esordii, mostrando un sorriso esagerato nel tentativo di apparire incoraggiante. «C'è qualcuno in casa?».

Ovviamente mi aspettavo un'immediata rassicurazione da parte sua, perché non potevano aver lasciato un bambino così piccolo da solo, giusto?

In tutta risposta però, lui si limitò a fissarmi senza dire una parola. Torturava le orecchiette del coniglio, intrecciando le dita minuscole con la stoffa un po' consunta, mentre io rimanevo ferma con una sensazione di disagio che cresceva in me. Poi, dopo quella che mi parve un'eternità, mosse lentamente la testa su e giù e un involontario sospiro di sollievo lasciò il mio corpo.

«Vuoi andare a chiamare qualcuno, allora?» lo esortai. Sorridevo talmente tanto da sentire le guance indolenzite, ma non conoscevo altro modo per comunicare con un bambino così piccolo. «Io resto qui, se per te va bene».

Stavo cercando di parlare con un tono calmo, ma i bambini mi mettevano soggezione. Non avevo fratelli o sorelle e, a dirla tutta, non mi ero mai dovuta prendere cura di nessuno, neppure di un animare domestico. E bambini e animali mi facevano paura esattamente allo stesso modo.

Prima che potesse rispondere però, una voce familiare ci raggiunse.

«Ehi nanerottolo, cosa fai alla porta?».

La figura di Alex proiettò un'ombra su di noi, e a quelle parole il bambino corse a nascondersi dietro alle sue gambe, quasi fossero una fortezza dalla quale però continuava a osservarmi curioso.

Mi rialzai, trascinando con me la voluminosa scatola in cartone e scontrandomi con il sorrisetto divertito di Alex.

«Non c'era bisogno che ti accucciassi, Reed». Si passò una mano sul mento, scrutando con occhi attenti la mia figura stretta in un vestito blu stranamente elegante. Avevo dovuto dire addio ai miei jeans e anfibi da quando frequentavo le Industre Case. Il giudizio implacabile di Macy mi intimoriva troppo per ignorare il dress code. «Non sei poi così alta» mi prese in giro, concedendomi la versione più rilassata di sé.

Seguire i suoi cambi d'umore era impossibile: dopo giorni in cui a stento mi aveva guardata, ora era tornato a scherzare normalmente. E io non potevo evitare di chiedermi se davvero fosse stato semplicemente Caleb a fargli avere quella reazione esagerata, quando eravamo in mensa.

In attesa di una mia risposta, la mano di Alex scompigliò distrattamente i capelli del bambino, in un gesto d'affetto involontario che mi fece domandare in che rapporto fossero i due.

Sbuffai. «Posso entrare o devo rimanere qui ancora per molto?».

Alex si spostò, indicandomi distrattamente il salotto. «Dammi un minuto» disse prima di voltarsi verso il bambino.

Nonostante fossi già stata in quella casa alla sua festa di compleanno, era come se vedessi quella stanza per la prima volta, perché adesso non c'erano più nugoli di ragazzi sparsi in ogni dove, ma solo un ampio tavolino incastonato tra i due divani a L e sormontato da fiori e piccole candele color panna. Era un ambiente stranamente accogliente, che detonava un certo tocco femminile.

«Vai in cucina da Susy, okay?». Udii appena la voce di Alex, mentre mi allontanavo. «Io arrivo tra poco e ti faccio vedere dove nasconde le caramelle».

Non riuscii ad evitare l'occhiatina che lanciai di soppiatto alle mie spalle. Il bambino aveva abbandonato l'espressione intimorita che mi aveva riservato, e sembrava più che soddisfatto del tono cospiratorio che Alex aveva appena utilizzato. Annuì contento, stringendo al petto il pupazzetto dalle orecchie troppo lunghe, mentre Alex gli porgeva la mano per accompagnarlo. Mi sorpresi dell'espressione protettiva e tollerante sul suo viso, perché era un atteggiamento che non gli avevo mai visto e che in parte discordava con l'idea che mi ero creata di lui.

Non volevo farmi beccare a fissarli ancora a lungo, così mi voltai a osservare l'unico quadro incastrato tra le pareti in vetro. Era un rettangolo colorato per metà di bianco e per l'altra parte di nero. Assomigliava alla linea dell'orizzonte che avevo visto in aereo di ritorno dall'Uganda, solo che in quel caso metà cielo era nero e metà arancio.

«È il figlio della fidanzata di mio padre».

Alex era rientrato nella stanza, e avevo la vaga impressione che avesse notato l'occhiata che gli avevo rivolto.

«Sembra molto dolce» commentai con un sorriso.

In tutta risposta, lui si limitò ad alzare le spalle. «Non parla molto» dichiarò quasi a voler chiarire il motivo per il quale andassero così d'accordo. Poi, avvolse entrambe le mani attorno allo schienale del divano, piegando un po' il capo. «Allora, cosa ci fai qui, Reed?».

Fu solo quando il suo sguardo si fermò all'altezza del mio stomaco, che mi ricordai della pesante scatola che tenevo tra le braccia.

«Tuo padre mi ha chiesto di consegnare alcuni documenti» spiegai, porgendogliela.

Alex si drizzò con un'espressione confusa, muovendo qualche passo nella mia direzione per accettare la scatola. «Ah, è in città quindi?» disse probabilmente più a se stesso che a me.

Sgranai gli occhi. Perché non sapeva che suo padre fosse a Danvers? Voglio dire, probabilmente il suo lavoro lo costringeva a viaggiare parecchio, un po' come accadeva per James. Eppure, io sapevo sempre quali fossero i programmi di mio padre, almeno a grandi linee.

Forse fu la chiara espressione sorpresa del mio volto, a farlo sentire a disagio, perché, dopo avermi liberato da quel pesante fardello, con uno scatto si voltò in direzione delle scale in cristallo, che facevano capolino dall'ampio ingresso.

«Vado a portarla nel suo studio» dichiarò. Non sembrava un invito, ma mi ritrovai comunque a seguirlo in direzione del piano superiore.

Camminavamo in religioso silenzio. I miei occhi puntati sull'ampia schiena di fronte a me, mentre il mio cervello si domandava perché mi fossi messa a seguirlo come un cagnolino.

«Stavo facendo alcune ricerche su Virgilio» dichiarò Alex, interrompendo i miei pensieri.

Avevamo appena varcato la soglia della biblioteca più grande che avessi mai visto. I volumi raggiungevano quasi il soffitto. Incastrati, incuneati come tasselli di un puzzle imperfetto, in una struttura semplice di metallo e legno scuro.

La mia bocca si schiuse in una reazione di stupore. Gli occhi sgranati saettavano per la stanza, cercando di captare ogni singolo dettaglio.

«Reed, hai la concentrazione di un pesce rosso».

Tornai a focalizzare la mia attenzione sul ragazzo accanto a me e notai che fortunatamente sembrava aver recuperato il suo atteggiamento rilassato, perché adesso restituiva il mio sguardo con un cipiglio divertito e una fossetta incastrata nella guancia destra.

«Uhm, ricerche?» ripetei io.

La mano di Alex batté lentamente sul grande tavolo in legno costellato di fogli e faldoni, che si trovava sotto una vetrata di frammenti colorati. «La frase che ho trovato è un palindromo, e ciò significa che può essere letta in entrambe le direzioni» disse indicando alcuni documenti che probabilmente conosceva a memoria, «sembra che venissero usati spesso nelle società segrete mandare messaggi nascosti».

Società segrete?

Prima avevamo trovato tutti quei dati sui server e sui satelliti che sembravano controllare alcune cittadine della costa occidentale degli Stati Uniti, e ora questo? Cosa diavolo si nascondeva dietro al Sole e ai medaglioni?

E mentre il mio cervello bruciava una buona dose di raziocinio, tentando di venire a capo di quell'enigma, Alex non aveva smesso un attimo di osservare le mie azioni.

Me ne resi conto solamente quando rialzai lo sguardo su di lui e lo trovai a fissarmi con gli occhi ridotti a due schegge di vetro. Ogni volta che parlavamo dei medaglioni era così: Alex mi valutava, mi studiava, forse cercando una precisa reazione, che però non riusciva mai a trovare.

Tornai a concentrarmi sui fogli, per non lasciar intendere che avessi notato il suo comportamento. «Se vuoi ti aiuto» proposi.

Per un istante sembrò spiazzato, ma poi quell'espressione impenetrabile come un muro tornò a occupare il suo viso.

«Stasera ho un allenamento» rispose tranquillo, «facciamo domani dopo scuola?».

Aggrottai la fronte. «Torni nella squadra di football?» chiesi involontariamente.

I suoi occhi si scurirono. Si era voltato verso di me, dando la schiena alla finestra, e la luce, che dalle sue spalle dilagava sulla stanza, sembrava far fatica a insinuarsi nei ciuffi disordinati dei suoi capelli scuri. Tuttavia, avevo la sensazione che non fosse quell'ombra la ragione del cambiamento nelle sue iridi, ma piuttosto un velo di diffidenza opaca, che aveva avvolto ogni fibra del suo corpo.

«Non posso» rispose infine con un tono talmente sommesso che mi strinse il cuore.

«Non puoi o non vuoi?» chiesi piano.

Stavo facendo ciò che mi ero ripromessa di non fare: immischiarmi negli affari di Alex, eppure, nonostante mi aspettassi una delle sue risposte taglienti, vidi il suo sguardo ammorbidirsi. Aveva un qualcosa di malinconico, quasi rassegnato, che mi fece venir voglia di rimangiarmi immediatamente quella domanda. Tuttavia, non potevo.

«Entrambi» ammise semplicemente, dopo aver esalato un profondo sospiro.

Non sapevo cosa dire, per cancellare quell'espressione amara dal suo viso. Era la seconda volta che lo costringevo a parlare del football e in entrambe le occasioni mi era sembrato di scorgere una tristezza che sembrava avere poco a che fare con la semplice impossibilità di giocare. Tuttavia, in nessuno dei due casi ero riuscita a mettere da parte la mia curiosità e ogni volta me ne ero pentita.

Restammo per qualche secondo a fissarci negli occhi, mentre la sua tristezza si riequilibrava con il mio senso di colpa, finché entrambe quelle emozioni non sembrarono essere soppiantate da qualcos'altro. Non sapevo cosa fosse. Credo che entrambi ci stessimo osservando come se riuscissimo a scorgere qualcosa di diverso rispetto al solito. Era un po' come se le nostre iridi si fossero abituate a un intenso buio e riuscissero nuovamente a metterci a fuoco, scorgendo luci e ombre, presenti quella distesa di nero pece che ci avvolgeva.

Io però non volevo che qualcuno riuscisse a farlo. Vedere le mie ombre, intendo, quelle parti di me che tentavo disperatamente di non far scorgere agli altri: l'insicurezza, l'indecisione, l'incapacità di gestire ciò che per me era sconosciuto.

Per quello, istintivamente, feci velocemente un passo indietro. Per mascherare il tremito che aveva coinvolto il mio corpo, quando quei pensieri si erano palesati nella mia testa.

«Dovremmo tornare giù» mormorai, scivolando sotto al suo sguardo limpido.

«Già» commentò lui, voltandosi a verificare di aver sistemato sul tavolo la scatola di suo padre.

Utilizzai quel diversivo per raggiungere l'estremità della stanza, mentre Alex mi seguiva a qualche passo di distanza. Perché ero così agitata? Credevo che mi sarei sentita meglio uscendo dalla biblioteca, tuttavia quella sensazione di disagio non mi abbandonò neppure quando percorsi le scale fino al salotto; neppure quando le mie dita si avvolsero attorno al pomello della d'ingresso. Sentivo l'esigenza di mettere una certa lontananza tra me e quella casa, come se l'aria fosse diventata improvvisamente irrespirabile.

Mi mossi velocemente, ed ero sul punto di uscire, quando nelle mie pupille saettò la mano di Alex, che si distese sul legno chiaro impedendomi di aprire la porta. Fu come se avessi trattenuto il respiro. La sua mano forte era incagliata davanti a me, come uno scudo tra la mia figura e il mondo esterno e io rimasi a fissarla con curiosa attenzione, seguendo le linee delle vene che si intrecciavano ai tendini, senza però avere davvero il coraggio di chiedermi cosa stesse succedendo.

Per un attimo non mi voltai. Continuai a dagli le spalle, osservando le sue dita lunghe diventare bianche, mentre premevano sul legno. Avvertivo il suo corpo a una manciata di centimetri da me, e nonostante i miei sensi percepissero tutti quei dettagli in maniera del tutto minuziosa, non sembrava neppure che stessi ragionando davvero.

«Reed...» iniziò lui con un'inflessione bassa che catalizzò ogni cellula del mio corpo.

A quel richiamo mi voltai istintivamente.

Alex sembrava incerto, e per un attimo fu come se stessimo vivendo un momento sospeso da qualsiasi logica dimensionale. Schiuse le labbra, come a voler aggiungere qualcosa, e vidi uno strano lampo attraversare i suoi occhi.

Poi però qualcosa mutò. Le sue intenzioni si sciolsero in un sospiro controllato e cauto, e vidi il suo sguardo perdere d'intensità, mentre scuoteva il capo.

«...A domani» concluse, staccando velocemente il palmo della mano dal legno.

Mi sentivo la gola secca come dopo aver bevuto un generoso sorso di acqua salata, e mi limitai quindi ad annuire, articolando un breve sorriso e voltandomi nuovamente verso l'esterno. Un po' frastornata, mi diressi verso la mia auto e solamente quando fui nell'abitacolo riuscii a rilasciare un profondo sospiro.

Cosa diavolo mi stava succedendo?

Non ero mai stata una persona eccessivamente insicura, certo conoscevo i miei limiti, ma sentirmi così mi faceva sentire... debole. Con Alex avevo sempre quella fastidiosa sensazione di non riuscire a leggere la situazione fino in fondo. Come se tralasciassi sempre qualche dettaglio importante.

E quella tensione poi... Abbassai gli occhi sui miei polsi che tremavano ancora impercettibilmente. Quella tensione sembrava dilaniarmi ogni volta di più. Scoppiava all'improvviso, per gesti apparentemente innocui e non sapevo davvero come interpretarla o come gestirla quantomeno.

Misi in moto la macchina e, quando lasciai il vialetto dei Case, la mia mente tornò a ragionare lucidamente. Probabilmente era stata l'ansia degli ultimi giorni, unita alla stanchezza derivante dallo stage, che mi aveva impedito di concentrarmi su quello che mi interessava al momento: i medaglioni.

Finora, ci eravamo focalizzati principalmente sulle parole in latino. Ma entrambi avevamo completamente tralasciato i racconti di Caleb. Possibile che il simbolo del triangolo fosse l'indizio che collegava tutto?

"Tre famiglie, un'unica unione". Così aveva recitato durante la gita al Wenham Lake.

Incolonnata tra le auto che lentamente scivolavano di fronte al municipio, una strana idea si infilò nella mia mente. Forse non era la più brillante delle intuizioni e neppure il più geniale dei piani, ma feci comunque inversione, immettendomi nel parcheggio di fronte all'ufficio del catasto di Danvers.

Il problema di tutte le nostre ricerche era unire il presente con il passato. La festa del Sole era attuale, i racconti di Caleb invece facevano riferimento alla fondazione di Danvers e i medaglioni non sapevamo esattamente dove si collocassero in tutto ciò. Il nostro unico appiglio quindi, era partire dall'inizio per capire come tutte queste informazioni potevano essere arrivate ai giorni nostri.

Con la speranza di trovare un appiglio, che collegasse proprio quelle leggende ai giorni nostri, mi piazzai di fronte a un'anziana signora, che se ne stava con il collo piegato in avanti come uno struzzo, mentre tentava di pigiare i tasti del computer di fronte a lei.

«Mi scusi» esordii, sfoderando il mio miglior sorriso. «Sono ancora in tempo per un rapido consulto?».

La donna non fece neanche il tentativo di guardarmi. Rimase piegata in avanti, con gli occhi a pochi centimetri dai tasti neri e i capelli che ricadevano sul tavolo. L'unico suo movimento fu di cercare a tentoni una tessera con la mano destra, allungandola poi nella mia direzione. Il tutto sempre senza rivolgermi neppure un'occhiata.

«Seconda porta a destra» replicò con tono piatto e annoiato.

Non me lo feci ripetere due volte e, cercando di tenere sotto controllo l'entusiasmo, mi diressi verso la postazione che mi aveva indicato.

Aspettai pazientemente che lo schermo caricasse il database del comune, mentre le mie dita picchiettavano sul tavolo.

Caleb aveva citato tre famiglie fondatrici e aveva già ammesso che gli Evans fossero una di queste. Avevo altri due cognomi da verificare: Blackwin e Cavendish.

Provai a cercare i primi, ma sembrava che in tutto l'archivio del comune non ne fosse rimasta alcuna traccia. Forse avevo capito male ed era un cognome simile, ma non esattamente quello che ricordavo io. Sarebbe stato però inutile procedere per tentativi, passai quindi al secondo.

Al contrario, sui Cavendish, sembrava esserci fin troppo materiale, anche se erano tutte cartine e disegni tecnici probabilmente di un immobile o qualcosa del genere. In quel momento non avevo tempo di verificare se fosse qualcosa di utile o meno, così estrassi la chiavetta USB delle Industrie Case e feci una copia dei file, controllando di tanto in tanto il corridoio.

Di fronte ai miei occhi infatti un cartello mi stava giudicando per le mie azioni: "Non è possibile copiare la documentazione appartenente al Comune di Danvers".

Lanciai velocemente un'occhiata alle altre postazioni, ma a parte un signore dall'aria oltremodo stanca, le altre erano tutte vuote e forse me la sarei cavata senza dover spiegare perché avessi deciso di trasgredire alla legge di questa cittadina così inquietante del Massachusetts.

Mentre il trasferimento proseguiva lentamente, provai a ricordare anche gli altri due cognomi delle famiglie che si erano aggiunte al Consiglio in un secondo momento.

«Stewart?... No, Stevow!» mormorai, saggiando le diverse alternative.

Digitai quelle lettere talmente velocemente che dovetti tornare indietro a correggere per ben due volte.

«Devi stare calma, Cassie» sussurrai tra me e me, provando a controllare il battito del mio cuore, che era talmente furioso da sentirlo rimbalzare sottopelle.

Non ero abituata a comportarmi in quel modo. Voglio dire, il massimo dell'illegalità che avevo sperimentato era guardare un film in streaming. Da quando ero a Danvers però avevo iniziato a mentire, a imbucarmi in posti dove non avrei dovuto essere, e adesso mi ritrovavo persino a rubare della documentazione. Il mio cervello però mi ricordò che era esattamente ciò che aveva fatto anche Alex, e quella consapevolezza per qualche strana ragione mi faceva sentire meno in colpa.

Il database del comune nel frattempo aveva restituito un unico risultato per la mia ricerca. Un articolo, il cui titolo recitava: "Il nuovo piccolo di casa Stevens".

Probabilmente si trattava di un errore. Il computer doveva aver trovato un cognome simile a quello che stavo cercando, ma decisi di scorrere comunque quei pochi trafiletti, dando un'occhiata veloce.

"È un giorno lieto per la famiglia Stevens, oggi è nato il piccolo Matthew Stevens (Stevow), 4 kg. Tutta la comunità si congratula con i genitori, Martha e Eric...".

Rimasi con gli occhi sbarrati a fissare la pallida luce dello schermo. Matthew Stevens. Matt?

Cercai subito la data di nascita. I polmoni mi sembravano andare a fuoco e i miei respiri erano talmente veloci da far sobbalzare il mio corpo. Dopo un attimo lo trovai, e nonostante non conoscessi con esattezza il suo compleanno, l'anno combaciava perfettamente.

Caleb era un Harrison. Matt era uno Stevow.

Quella frase continuava a ripetersi nella mia mente, azzerando qualsiasi altra forma di pensiero o di ragionamento. Le mani mi tremavano in grembo e intrecciai tra loro le dita, per interrompere quel fremito che si scandiva alla stessa velocità con il quale il mio cuore rimbombava nelle orecchie.

In quel momento feci l'unica cosa che mi venne in mente: cancellai la cronologia e mi diressi, quasi correndo, fuori dal municipio.

____________________
Buongiorno ☀️
Sembra proprio che a Danvers tutti siano implicati in qualcosa...adesso anche Matt 😅
Il rapporto tra Cassie e Alex invece dovrà evolversi in qualche modo se vogliono "indagare insieme".
Fatemi sapere cosa ne pensate e lasciate una stellina se vi è piaciuto 🌟

Ps. In bocca al lupo a tutti coloro che sono impegnati con la maturità ❣️carini e coccolosi come un cucciolo di drago, mi raccomando 🐉

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