IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

19 - Il preside Evans

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By Valeroot

Regola n. 6 del V.I.
Se il viaggio dura più di cinque ore,
si prende l'aereo
(Tredici anni, Cancun)


Nel corso della nottata ero giunta ad un'unica conclusione: Caleb sapeva che avevo mentito. Non trovavo altra spiegazione per il messaggio che mi aveva mandato, e il mio stomaco si stava torcendo per il senso di colpa e l'imbarazzo.

C'era qualcosa di terribilmente sbagliato nel tempismo con il quale provavo rimorso. Avevo iniziato a dispiacermi solo nel momento in cui avevo letto le sue parole. Come se il mio cervello dovesse essere sollecitato, per provare emozioni normali.

Credo che una buona dose di colpa dovesse essere imputata a James. Mi aveva cresciuta con l'ottica libertina del non chiedere mai scusa, se le mie azioni erano volte a inseguire i miei desideri. Eppure, persino io con i miei diciassette anni di limitate esperienze e rapporti umani incostanti, sapevo che c'era qualcosa di sbagliato in quell'approccio. Soprattutto quando la vita non si riduceva più solamente a noi due, ed era... strano. Strano perché avevo l'impressione che Danvers si stesse pian piano insinuando dentro di me, modificando in maniera sottile i miei pensieri e i miei comportamenti. Di sicuro, quella cittadina stava diventando più importante delle molteplici mete che l'avevano preceduta, e la cosa mi agitava.

Scesi le scale fino al salone con una sensazione di disagio che mi vorticava nello stomaco, ma sapevo di dover accantonare quei pensieri. Avevo dormito quattro ore scarse e ancora non avevo deciso che scusa utilizzare con Caleb.

Ero talmente concentrata sul mio senso di colpa, su come liberarmi di esso, che raggiunsi la soglia della cucina senza neppure rendermi conto del profumo di caffè che aleggiava per tutto il piano inferiore.

James era appoggiato con la schiena all'isola in quarzo. Una tazza stretta tra le dita e le braccia incrociate in una posizione rigida da combattimento. Una posa del tutto innaturale per mio padre, tanto che per un istante mi sentii frastornata dalle ondate di tensione che s'irradiavano dal suo corpo.

«Buongiorno» biascicai, fermandomi sulla soglia e coprendo un piede con l'altro, per trattenere il calore.

Al mio saluto, James sbuffò. Sbuffò e la cosa mi destabilizzò così tanto, che sgranai gli occhi e studiai il suo viso perfettamente familiare come se fosse il prodotto di qualche forma di vita aliena. Perché se James sembrava lo stesso di sempre, il suo cipiglio severo era quanto di più strano avessi mai visto. Da quando aveva abbandonato il suo atteggiamento mite e perennemente allegro?

La risposta arrivò un istante dopo.

«Dov'eri? Con chi eri? E soprattutto perché sei tornata così tardi?».

James non aveva neppure aspettato che agguantassi a mia volta una tazza di caffè per vomitarmi addosso quella lista di domande. Domande che per altro richiedevano una buona dose di bugie. Raccontargli dove ero andata? Era escluso. Con chi fossi? No, Alexander Case doveva rimanere uno sconosciuto per mio padre. Mentre la ragione per il mio rientro ben oltre la mezzanotte era fin troppo legato alle prime due bugie per non chiedermi di mentire ancora.

Mi spostai fino al frigorifero, dove aprii l'anta e feci scorrere gli occhi tra gli avanzi del cibo cinese e la brocca con il succo d'arancia. «Ero a bere qualcosa con dei compagni di scuola e non era previsto che facessimo così tardi.» Continuai a tenere lo sguardo piantato sulle uova strapazzate e il bacon ancora da friggere. «Scusa, abbiamo perso la cognizione del tempo» aggiunsi.

Mi era costato molto chiedere scusa a James. E non perché fosse giusto farlo preoccupare, ma perché di solito i nostri spostamenti non erano oggetto di una così attenta analisi. Mio padre era lo stesso uomo che partiva e mi lasciava a casa da sola per due o tre giorni, ogni volta che qualche convention lo spingeva a prendere un aereo e a visitare qualche nuovo Paese. Quindi, cosa era cambiato rispetto a prima?

«Okay, questa è la versione che vorrei sentire» concesse. La sua voce era neutra e stranamente fredda. «Quella vera, invece?».

Impiegai qualche istante per capire che aveva deciso di ribattere alle mie parole. Sbattei piano le palpebre e mi voltai nella sua direzione, con un misto di incredulità e scetticismo. Da quando mio padre mi ascoltava davvero?

Mi schiarii discretamente la voce, per assumere un tono convincente. «Davvero papà, sono andata a bere qualcosa con Alice e con gli altri. Abbiamo solo fatto tardi» tagliai corto, sottolineando però con molta enfasi il nome nella mia amica. Con James era sempre meglio fare il nome di una ragazza. Forse non era una figura genitoriale classica, ma era pur sempre un padre.

Lui sembrò valutare con estremo interesse le mie parole. Annuì lentamente, come se stesse assorbendo il vero significato delle mie parole.

«Alice quindi è quel tipo alto e spallato che è venuto a prenderti ieri sera?» Sbarrai gli occhi e James se ne accorse. Quel dettaglio dovette spingerlo a proseguire, perché subito dopo riprese a parlare. «In realtà come si chiama? Caleb Evans? O Dean Scott? O forse Matthew Stevens?».

A ogni nome gracchiato, James sembrava scaldarsi sempre di più. Sotto il leggero accenno di barba le guance erano rosse, così come la base del collo, seminascosta da una delle sue camicie di flanella che amava così tanto.

Probabilmente, il modo migliore per sedare quella crisi – che per la nostra famiglia era paragonabile a quella dei missili di Cuba del sessantadue – era chiedere umilmente scusa, impilando una serie di moine che avrebbero riscaldato il cuore tenero di mio padre. Ma io ero... io: un agglomerato di scelte discutibili sommate a un pessimo orgoglio.

Articolai un piccolo sorriso, guardandolo speranzosa. «Ti prego, dimmi che hai anche un fascicolo sulla signorina Davis, mi serve una "A" in filosofia».

Lo sguardo esasperato che mi scoccò mio padre traboccava di nervosismo. «Cassandra» mi ammonì. E quando passava dai nomignoli irritanti al mio nome per intero sapevo di essere in guai seri. «Non è uno scherzo, non puoi andartene in giro da sola, senza neppure dirmi a che ora rientri o con chi sei». Poi il suo sguardò si spostò irrequieto verso l'orologio della cucina. Era in ritardo. Lo eravamo entrambi, a dire la verità. «Ne riparliamo stasera» disse prima di puntarmi addosso la tazza, come se rappresentasse una temibile arma. «E non pensare di saltare la scuola per dormire».

Non era affatto ciò a cui stavo pensando. No, l'idea di ordinare un caffè d'asporto e passare la mattinata cercando informazioni su internet, legate al Sole e al Consiglio della Fondazione non mi aveva neppure sfiorata.

Se non fossi stata ancora in pigiama, credo che mio padre mi avrebbe accompagnata personalmente a scuola. Non era accaduto spesso, perché ero sempre stata piuttosto autonoma, però lo sguardo intransigente che mi lanciò prima di uscire non fece altro che confermare l'impressione che a Danvers troppe abitudini stessero cambiando.

A causa dello scontro con James, ero arrivata alla Churchill Academy in spaventoso ritardo. L'autobus aveva impiegato un'eternità a raggiungere l'altro lato di Danvers e ciò mi aveva costretta ad attraversare il parco praticamente di corsa.

L'atrio era deserto, gli armadietti tutti ordinatamente chiusi. Dalla finestrella del laboratorio di chimica avanzata riuscivo a scorgere solamente una luce intermittente che si riversava sul corridoio, segno che le lezioni erano già iniziate. Affrettai il passo, perché l'aula del professor Webb si trovava esattamente all'estremità opposta di quell'ala della scuola.

Non avevo più avuto il tempo necessario per pensare a una scusa da utilizzare con Caleb e neppure per ripercorrere gli eventi della sera precedente. Ogni tanto, le immagini della festa in maschera si materializzavano nella mia testa, ma erano come frammenti di un sogno un po' troppo vivido. Non riuscivo a far collimare la mia vita di tutti i giorni con la consapevolezza che mi fossi imbucata a quel ricevimento elegante con Alex. Per non parlare poi di Justin, di come avevamo rischiato di farci scoprire o dei documenti che lui aveva sottratto dallo studio del sindaco. Tutto unicamente per un messaggio criptico inviatomi da mia madre.

Scossi la testa e ricacciai quel pensiero nella profondità della mia mente, dove ero così brava ad accatastare tutto ciò che avrebbe potuto sconvolgere il regolare svolgimento della mia giornata. Dovevo affrontare una situazione alla volta, e adesso il mio unico pensiero era se attendere o meno il cambio d'ora per partecipare alle lezioni.

Proprio in quel momento però, un ticchettio più concitato si unì allo stridio prodotto dalle mie Converse sul pavimento lucido.

Voltai di poco il capo, sfiorando i capelli con il mento. Una donna bionda sulla quarantina mi stava osservando con un'espressione cortese ma professionale. Il suo sguardo era talmente concentrato che sembrava avermi puntata come un segugio.

Sapevo di averla già vista. Ne ero certa, così come sapevo di chiamarmi Cassandra Reed e di aver sognato di sposare il principe Harry, quando avevo otto anni. Solo che proprio non riuscivo a ricordarmi chi fosse.

Rallentai, dandole modo di raggiungermi. Lo fece in pochi rapidi passi, complice la considerevole altezza e i tacchi affusolati. «Signorina Reed, potrebbe seguirmi per un istante nell'ufficio del preside?».

La segretaria del preside Evans!

Ebbi l'impulso di sbattermi la mano in fronte quando realizzai di aver già visto quella donna in uno dei miei primi giorni a Danvers. Mi aveva consegnato della modulistica che puntualmente non avevo compilato, ma sapevo che si fosse rivolta a mio padre per perfezionare il mio trasferimento.

«Il preside vuole vedermi?» chiesi perplessa.

Lei mi rivolse l'ennesimo sorriso cortese. «Sì, lo ritiene opportuno».

Non finivo nell'ufficio del preside da quando alle elementari avevo spinto giù per le scale Mary Collins, per essermi passata davanti nella fila per il pranzo. Mentalmente ripercorsi quindi ogni mia azione, a partire dal mio arrivo a Danvers, fino al mio ritardo di quella mattina. Possibile che fossi finita nei guai solo per quello?

Non cercavo di fumare nei bagni, come le mie compagne del corso di chimica, non avevo ancora preso insufficienze, nonostante in algebra non brillassi particolarmente, e non mi ero neppure lamentata per il pasticcio di carne che sembrava il frutto di qualche incidente di percorso tra due polli particolarmente aggressivi. Quindi... sì, doveva essere decisamente per quello.

Articolai un rapido cenno d'assenso, mentre un altro terribile dubbio s'insinuava nella mia testa. Che fossi finita nei guai a causa della sera precedente?

A quel punto, il panico bruciò ogni mio pensiero razionale per una buona manciata di secondi, ma no... Non poteva essere neanche quello. Il preside Evans non poteva controllare ciò che accadeva fuori dall'orario scolastico e se qualcuno alla festa si fosse lamentato, credo che avrebbero chiamato i nostri genitori o qualcuno della sicurezza per buttarci fuori, al massimo.

I miei erano tutti ragionamenti giusti ma totalmente inutili. Anche se avessi capito cosa stava accadendo, non avrei potuto far altro che seguire la donna di fronte a me. Fu esattamente ciò che mi ritrovai a fare. Docilmente ma a passi esitanti, raggiunsi il secondo piano dove si trovavano gli uffici dell'amministrazione.

Era logico pensare che ci fosse una certa simmetria nella struttura della scuola. Anche qui mi aspettavo un atrio ad accoglierci e diversi uffici a costellare l'ambiente. Tuttavia, mi fu subito evidente che il preside Evans avesse optato per un diverso utilizzo degli spazi.

Un immenso corridoio percorreva tutta la lunghezza della struttura in un tripudio di funzionalità e organizzazione. Quadri astratti decoravano le pareti e, mentre avanzavamo, notai alcuni piccoli salottini ricavati nelle nicchie tra le diverse stanze. Pratici, funzionali e un po' rigidi, a essere onesti.

Una sala riunioni dopo l'altra, raggiungemmo la fine del corridoio, dove le targhette dorate si alternavano sempre meno di frequente, dandomi l'idea che gli uffici nascosti dietro le porte scure fossero sempre più ampi. Non fui affatto sorpresa quando scoprii che quello del preside Evans era l'ultimo della fila.

I battenti di fronte a me avevano intagli concentrici che si univano per far vita a un'intricata raffigurazione ondeggiante. Al pensiero di dover cercare dentro di me il coraggio necessario per bussare, sentii l'agitazione rimestarmi lo stomaco. Ma non dovetti neppure muovere un muscolo, perché la segretaria del preside Evans lo fece per me.

«È arrivata la signorina Reed» la sentii dire, mentre io ero ancora nascosta dalla sua figura.

Non sentii con chiarezza la risposta. Solo un borbottio basso e rapido raggiunse le mie orecchie, ma un istante dopo la segretaria si fece da parte, invitandomi a entrare.

Ancora prima di notare la figura seduta all'imponente scrivania, il mio sguardo fu catturato dalla moderna costruzione in vetro e acciaio che ricopriva il fondo della stanza. S'intrecciava sapientemente con il soffitto, grazie a sottili travi metalliche che raggiungevano la lunga libreria alla mia sinistra. Era carica di libri e di quelle che sembravano prima edizioni custodite in teche di cristallo. Forse con tutti quegli elementi la stanza sarebbe apparsa fin troppo moderna, se non fosse stato per un piccolo divano in pelle e un delicato servizio da tè che donavano un tocco più caloroso e informale all'ambiente.

«Sono un amante della natura e degli spazi aperti».

La voce alla mia destra mi costrinse a staccare gli occhi dalla vista. Il preside Evans fece un piccolo sorriso orgoglioso, mentre la sua mano si allungava per indicare il parco dietro la scuola.

Sospettavo che fosse anche un grande appassionato di interior design, perché dubitavo che quella raffinata combinazione di elementi classici e moderni non fosse opera di uno studio dettagliato.

Mi ritrovai a sorridergli, mentre la mia buona educazione prendeva il sopravvento sulla sorpresa. Lui mi fece cenno di accomodarmi su una delle poltroncine sistemate di fronte alla sua scrivania e, mentre lo osservavo circumnavigare il tavolo, mi chiesi distrattamente quanti anni potesse avere.

Era il nonno di Alice e Caleb e per questo lo avevo sempre immaginato come un amabile vecchietto dai candidi capelli bianchi e il sorriso bonario. L'uomo che invece mi trovavo di fronte aveva una fitta capigliatura nera, esattamente come i suoi nipoti, e un portamento autoritario che dovevo ammettere fosse un filo intimidatorio. Forse era a causa della corporatura robusta o per gli abiti eleganti che indossava, ma improvvisamente la sensazione di dover fare una buona impressione m'infastidì.

Continuai a osservarlo finché non prese posto di fronte a me, congiungendo le dita tra loro in un gesto pensieroso, mentre gli occhi verdi, così simili a quelli di Caleb e Alice mi scrutavano da dietro le lenti lucide di un paio di occhiali oro.

Non sembrava intenzionato a essere il primo a parlare e di solito ero brava a sottostare a quei giochi di silenzio, eppure quel giorno ero troppo nervosa per rimanere zitta.

«Posso sapere perché sono qui?» chiesi spostandomi un po' a disagio sulla sedia. Non avevo motivo di sentirmi così, perché non avevo fatto proprio nulla di male. O almeno, non all'interno dei confini della Churchill Accademy.

Nonostante la mia domanda – a mio parere - più che lecita, il preside Evans continuò a rimanere in silenzio per un po', come se stesse scegliendo con cura le parole giuste.

«Lei sa che tipologia di scuola è questa, signorina Reed?» mi chiese infine con tono stanco.

La sua domanda mi spiazzò. Ero abituata al fatto che Alex rispondesse a una domanda con un ulteriore interrogativo, e al fatto che io utilizzassi la medesima tecnica con mio padre quando ero nei guai. Ma che fosse il preside della mia scuola a farlo, mi lasciava perplessa.

E mentre io m'irrigidivo, valutando le implicazioni di quelle parole, il suo corpo si rilassò sulla poltrona, nonostante il suo sguardo acuto suggerisse che non avesse mai interrotto quell'attenta valutazione ai miei danni.

«Una scuola superiore privata?» azzardai, senza troppa convinzione.

L'uomo fece un piccolo sospiro, sistemando lentamente il grosso orologio in acciaio che portava al polso sinistro. Qualcosa mi diceva che non fosse particolarmente fiero della mia risposta.

«Questo è un istituto indipendente» mi corresse con quello che sembrava a tutti gli effetti un cipiglio amareggiato. «Il che significa che possiamo creare un programma assolutamente personale per ciascuno studente, in base alle sue richieste.» A quel punto, lo vidi sporgersi sulla scrivania, come se quella conversazione improvvisamente avesse risvegliato una latente passione in lui. «Se solo volesse, signorina Reed, potrebbe studiare lingue orientali, chimica avanzata, o ingegneria. Se invece fosse l'arte la sua passione, avrebbe a disposizione numerosi laboratori tra cui scegliere: scultura, pittura o illustrazione, ad esempio».

Lo ascoltavo in religioso silenzio, senza avere il coraggio d'interromperlo. Quando mi ero trasferita a Danvers, la scuola era stata l'ultimo dei miei pensieri. La Churchill Accademy aveva mandato al mio vecchio indirizzo di Los Angeles tutta la documentazione informativa, ma per settimane nessuno l'aveva aperta, se non per compilare il modulo d'iscrizione.

«...Quindi sono francamente molto dispiaciuto nel constatare che non si sia iscritta ad alcun corso aggiuntivo» dichiarò amareggiato, scorrendo velocemente quello che doveva essere il mio fascicolo personale. Avevo l'impressione che sperasse di trovarlo diverso con quell'ulteriore occhiata. Come se una forza sovrannaturale avesse potuto sistemare le mie lacune.

Quindi questo era il motivo di tutto quel dramma? Mi chiesi, sbattendo piano le palpebre. Il problema era che non avessi scelto alcun corso extrascolastico?

Non volevo ferire il preside Evans confessando che non avevo alcuna intenzione di imparare il Mandarino o di studiare le leggi che permettevano a un ponte di non crollare. Sicuramente apprezzavo l'entusiasmo con il quale si stava interessando al mio caso, ma avrei declinato la sua offerta, perché se avessi voluto iscrivermi a qualche corso aggiuntivo, semplicemente lo avrei fatto.

Mi stavo già preparando. Avevo sfoderato il più finto dei miei sorrisi, i capelli erano stati ordinatamente sistemati dietro le orecchie ed ero pronta a dar sfoggio di tutta la diplomazia acquisita grazie ai viaggi con James. Eppure, realizzai ben presto che la sua non era affatto un'offerta.

«Ora, le chiedo gentilmente di compilare questo foglio» riprese con tono pratico, passandomi un modulo giallo. «Entro domani, dovrà produrre dieci alternative con corsi esistenti o meno e la loro potenziale applicazione nella vita lavorativa».

Indicò alcuni campi, mentre io mi ritrovavo congelata in quell'espressione cortese che speravo di utilizzare contro di lui. Dieci materie non erano facili da trovare, soprattutto se poi sarebbero diventate parte del mio programma scolastico. Certo, dovevo ammettere che con i corsi che stavo frequentando me la cavavo piuttosto bene. Forse troppo bene, perché avevo giocato sul sicuro: materie classiche che avevo già studiato nelle precedenti scuole. Ma non avevo alcuna intenzione di moltiplicare i miei sforzi, al solo fine di compiacere l'ego del preside Evans.

Se lui si fosse accorto della mia meno che tiepida accoglienza a quelle parole, non lo diede a vedere. In quello che sembrava più un tic nervoso, che la reale necessità di conoscere l'ora, lo vidi controllare nuovamente il quadrante al polso sinistro.

«Ci rivediamo domani mattina alle otto, quindi» affermò risoluto. «Qualora avesse problemi di tempo, può tornare a casa, consegnando questa giustifica ai suoi professori» continuò dandomi un secondo modulo e congedandomi.

«A domani» replicai con voce piatta, alzandomi.

Percorsi i pochi passi che mi separavano dal corridoio, cercando di rimanere calma, nonostante nella mia testa stessi urlando. Dieci corsi. Dieci corsi, che avrebbero delineato il mio programma scolastico, in sole ventiquattro ore. Dieci corsi da individuare, quando impiegavo ore intere solo per scegliere cosa mangiare a cena. Nella mia personale lista nera, che conteneva le delusioni più significative della mia giovane vita, il preside Evans aveva sorpassato di gran carriera sia Rose del Titanic, che il finale del Trono di Spade.

Quando raggiunsi il piano inferiore, il mio umore era colato a picco. Avevo tutta l'intenzione di utilizzare la giustifica per tornarmene a casa, lamentarmi un po' e poi concentrarmi su quel compito e sulle ricerche che intendevo fare prima che mio padre tornasse. Per un istante avevo avuto anche la tentazione di gettare nel cestino quei fogli che sgraziatamente stavo stringendo tra le dita, ma sapevo che a quel punto la scuola avrebbe chiamato James e avrei dovuto dire addio definitivamente alla mia libertà.

Il mio lato menefreghista aveva appena iniziato a intavolare una discussione con la mia parte più diligente, quando voltando l'angolo per poco non mi scontrai con Caleb.

«Qualcuno sta avendo una brutta giornata» commentò. Non riuscì a trattenere una sorta di sorrisino tollerante che mi spiazzò.

Credevo che lo avrei trovato arrabbiato e istintivamente mi ritrovai ad arretrare, facendo strisciare le mie Converse nere sul pavimento lucido. Tra mio padre e il preside Evans non avevo più pensato ad una scusa plausibile per la mia uscita della sera precedente, e "il problema Caleb" era stato relegato in un angolo recondito della mia mente. Pessimo errore.

Deglutii a vuoto, cercando di dissimulare il panico. «Ho appena subito una ramanzina per non essermi iscritta ai corsi extrascolastici» risposi con una smorfia. Mi ricordai solamente in quel momento che il preside Evans fosse il nonno di Caleb, e mi morsicai la lingua, facendo un rapido riassunto delle mie disgrazie: non avevo una scusa per la sera precedente e avevo appena rischiato di insultare un componente della sua famiglia. Davvero un inizio brillante.

Lui ascoltò assorto le mie parole, soppesandole per qualche istante, ma alla fine lo vidi scoppiare in una risatina piena di disagio. «Davvero non ti sei iscritta ad alcun gruppo?» mi chiese aggrottando la fronte. «E come pensi di fare con l'iscrizione al college?».

Mi osservava come se gli avessi appena detto che non avevo mai sentito una canzone di Taylor Swift. Come se fossi un alieno, insomma. Il punto era nessuna parte di me avrebbe mai considerato l'idea di iscrivermi in un college americano. Nel mio idilliaco immaginario di una vita perfetta, mio padre mi svegliava una mattina comunicandomi il nostro ritorno a Londra. E sotto sotto, la bambina che c'era in me ancora sperava in quel sogno.

Non mi sembrava il caso di mettere in mostra il mio scarso interesse per il sistema scolastico americano, quindi mi limitai a scrollare le spalle. «C'è ancora tempo prima del college». Immane cazzata, eravamo all'ultimo anno, il che significava che nessuno mi avrebbe accetta con il curriculum che avevo.

«Forse riconsidererai le cheerleader a questo punto» azzardò con gli occhi verdi illuminati di un genuino divertimento.

Conoscevo quello sguardo, era lo stesso che mi rivolgeva Alice ogni volta che si aspettava una mia imminente ritirata. In quello i due Evans erano uguali come gocce d'acqua.

«Non ci provare neanche» lo avvertii, scoccandogli un'occhiataccia ammonitrice.

Nonostante il mio cipiglio combattivo, una parte di me era sufficientemente sveglia da sentirsi sollevata che il nostro discorso fosse virato sulla scuola e sul college. Se Caleb stava dimostrando tutta quella gentilezza nei miei confronti significava che forse non sapeva nulla della mia serata con Alex. Certo, a quel punto ero consapevole che avesse mentito a sua volta, perché non era affatto andato da Roby, ma potevo tollerare che ognuno di noi avesse qualche piccolo segreto. Io ne avevo una discreta collezione e con quelli di Alex immaginavo che avremmo potuto riempire la sua piscina.

«Allora ti serve questo» mormorò, afferrando la bretella dello zaino e rovistando con impazienza al suo interno. Ne tirò fuori un foglietto spiegazzato, che spinse tra le mie mani come un'offerta di pace. «È il mio programma dello scorso anno e ci sono dei corsi abbastanza interessanti. Ora devo andare in segreteria, ma chiamami se hai bisogno» disse muovendo qualche passo in direzione del lato opposto dell'atrio.

Non dovette spostarsi di molto, perché la lunga fila di studenti si dispiegava fino a metà atrio.

Mi sentivo graziata da una mano divina per non aver fatto una colossale figuraccia con Caleb e feci dietro front in tutta velocità, prima che lui potesse cambiare idea e indagare maggiormente sui miei programmi della sera precedente.

Ripresi a camminare, osservando il foglietto che mi aveva dato con una punta di scetticismo. Caleb era la gentilezza in persona, come uno strano mix tra un monaco buddista dedito alla salvaguardia degli altri e, beh, un qualsiasi diciottenne a cui piacevano birra e feste. Ma dubitavo che i suoi corsi extrascolastici potessero essere compatibili con le mie capacità. Football, basket, spagnolo: queste erano le alternative più semplici, mentre tra i corsi sperimentali aveva inserito alcuni acronimi che non sapevo neppure pronunciare. Cosa diavolo era la "MMA"?

«Reed, c'è una colonna lì».

Mi arrestai di colpo, strizzando gli occhi in un gesto volontario di protezione. Beh, dovevo aver avuto i riflessi di un ninja, perché nonostante fossi pronta alla botta, non sentii niente.

Okay, non era del tutto vero. Sentii qualcosa, ma non era di certo il cemento sul mio naso. Una risata bassa e ricca raggiunse le mie orecchie. Sollevai cautamente una palpebra, strizzando ancora gli occhi come se non riuscissi a credere a una tale dose di fortuna, ma tutto ciò che si presentò di fronte ai miei occhi fu il volto divertito di Alex.

Niente colonne, il muro più vicino era a metri di distanza. Solo Alexander Case piantato davanti a me, con lo zaino che gli ciondolava da una spalla, mentre rideva della mia espressione spaventata.

Gli scoccai un'occhiataccia. «Ma quanto sei simpatico, Case».

Si finse offeso, mentre colmava l'ultimo metro scarso che ci divideva. Aveva sempre quell'aria imbronciata che sapevo aver fatto vittime in tutta la componente femminile della Churchill Accademy. «Dovresti ringraziarmi» mi rimproverò. Poi però un accenno di sorriso prese piede sul suo volto. «Mi preoccupo per la tua incolumità».

L'assurdità di quel commento mi fece alzare gli occhi al cielo. Anche se non ero in vena di scherzare con lui, lo preferivo quando si comportava in quella maniera rilassata, rispetto a quando si lamentava per le mie mille domande.

«Trovati un hobby più interessante» lo ripresi. «Me la cavo da sola».

Il suo sorriso si fece più ampio. «Disse quella che si è messa a fare salotto con una sconosciuta, ad una festa alla quale non dovevamo farci vedere».

Ahia, questa aveva fatto male.

«Replicò quello che si è fatto scoprire dal cugino, prima ancora di entrare» mi affrettai a dire.

Alex aveva parlato con tono annoiato, quasi fosse troppo facile ribattere alle mie osservazioni, ma al mio commento ridacchiò piano. «Touché, Reed».

Poi mi fece un cenno con il capo per spostarci da lì. Ci eravamo bloccati all'inizio del corridoio dei laboratori, costringendo le persone a circumnavigarci per raggiungere l'atrio.

«Sei stata chiamata in presidenza per i corsi extra?» mi chiese, adocchiando il modulo tra le mie mani.

L'adrenalina che avevo provato nel ribattere ai suoi commenti scemò tanto velocemente quanto era arrivata, dovendomi scontrare nuovamente con la banalità dei miei problemi quotidiani.

«Dieci corsi da proporre entro domani» mi lagnai. «Mi dici ora cosa mi invento? Un corso di equitazione? Fisica molecolare?».

Okay, probabilmente ero un filo melodrammatica, ma faticavo a concentrarmi su questioni banali come la scuola o le lezioni. Alex, però, non sembrava troppo sconvolto da quella mia mancanza di autocontrollo. Si limitò a chiudere un occhio, soppesando le alternative.

«L'anno scorso ho proposto un corso di kick boxing, quindi non ti conviene chiedere a me» disse alzando le mani. Avevo la sensazione che volesse tirarsi fuori dallo scomodo ruolo di consigliere. Un attimo dopo, però, sembrò ripensarci: «Anzi, sai cosa ti servirebbe? Un gruppo di supporto in informatica». Fece ciondolare lo zaino, estraendo un quaderno nero. «Altrimenti toccherà sempre a me fare il lavoro sporco».

Capii immediatamente a cosa si stesse riferendo. Ancor prima di vedere i fogli del Sole spuntare dalla copertina rovinata che teneva tra le mani, il panico mi montò dentro. Perché quel giorno non eravamo in un maledetto diner con solo una cameriera annoiata ad origliare i nostri discorsi. Eravamo nella nostra scuola, circondati dai nostri compagni di classe, e la paura irrazionale di essere scoperti si tramutò in un'unica azione: lo afferrai per un braccio, trascinandolo senza troppe cerimonie nello sgabuzzino vuoto accanto a noi.

Alex non oppose resistenza. Ero consapevole che non avrei mai potuto costringere un ex giocatore di football alto un metro e novanta a seguirmi, se non avesse voluto assecondarmi. Eppure, quando la porta si richiuse alle nostre spalle un piccolo sospiro di sollievo lasciò le mie labbra per la prontezza della mia reazione.

Nonostante quei pensieri, la risata proveniente da Alex spazzò via immediatamente il mio sollievo.

«Reed...» mi riprese divertito, «...non che non apprezzi, ma credevo che fossi una da primi appuntamenti» osservò con una punta di ironia. «Sai, fiori, cene e cose così».

Sollevai gli occhi al cielo. «Finiscila».

«Mi stai già liquidando?» Si mise una mano sul cuore. «Così mi ferisci».

A quelle parole, ebbi l'irrefrenabile impulso di scoppiare a ridere. Nulla al mondo avrebbe potuto ferire l'ego di Alexander Case, ne ero sicura. E a conferma della mia tesi, un istante dopo lo vidi appoggiare la schiena alla porta, incrociando le caviglie di fronte a sé in una posa tremendamente rilassata.

«Ma visto che ormai saranno tutti qua fuori ad origliare, forza, occupiamo il tempo nel tuo modo preferito...» Gli angoli della sua bocca s'incresparono, tendendosi verso l'alto. «... parliamo.»

Le chiacchiere allegre dell'atrio, a un solo muro di distanza, arrivavano ovattate e distorte, ma bastarono per farmi realizzare che avevo appena trascinato uno dei ragazzi più conosciuti della scuola in uno stanzino con me. Wow, quella giornata era piena di ottime decisioni, non c'era che dire.

«Tanto non ti interessa di ciò che pensano gli altri» ribattei prontamente. Tuttavia, ero quasi sicura che l'imbarazzo per il mio comportamento mi avesse tinto le guance di rosso.

«Hai ragione, non m'interessa» ammise. Poi piegò di lato il capo, come se mi stesse valutando. «Ma a te sì».

Mi interessava l'opinione delle altre persone?

Fu strano ritrovarsi ad ammettere che ci fosse un fondo di verità in quelle parole. Mi sarebbe piaciuto fingere di essere abbastanza tosta da fregarmene completamente del giudizio degli altri, ma perché mentire quando era evidente a entrambi che fosse così?

«Semplicemente, non voglio che qualcuno sappia che giochiamo a fare i detective» mormorai. Avevo incassato il colpo, cercando di non far vedere quanto mi avesse ferita. In un modo contorto, avevo la sensazione che mi stesse mettendo alla prova, o che comunque mi stesse valutando. «Questi sono documenti che abbiamo rubato dall'ufficio del sindaco, non possiamo mostrarli in pubblico».

«Tecnicamente li ho rubati io» precisò, ma questa volta il suo sorriso aveva qualcosa di strano... qualcosa che non mi convinceva. Un attimo dopo, però, lo vidi rimettere i fogli nel quaderno, prima di porgermelo. «Guardali a casa. Domani a lezione ne parliamo, okay?» aggiunse più dolcemente.

Non ero di sicura di cosa stesse accadendo tra noi. Avevo l'impressione che nonostante il suo tono più cauto, ci fosse una parte di lui che non era più concentrata su quella stanza. Come se il ricordo di aver rubato i documenti avesse smosso qualcosa nella sua mente.

Accettai il quaderno osservandolo sospettosa, ma lui restituì lo sguardo mantenendolo fisso nel mio. Era tornato ad essere semplicemente... determinato. Qualsiasi cosa stessi cercando nella sua espressione fredda, lui non mi avrebbe permesso di trovare nulla.

«Hai lezione, ora?» mi chiese infilando le mani nelle tasche dei jeans.

Scossi la testa, cercando di alleggerire l'atmosfera che si era fatta, non so, quasi densa. «Tornerò a casa, visto che ho una fantastica giustifica del preside Evans» mi vantai, sventolando il modulo verde che avevo ancora tra le mani.

Alex stette al gioco e si mise una mano sul cuore. «Così mi uccidi davvero, Reed». Poi, stacco le spalle dalla porta e la tenne aperta per me.

Ebbe appena il tempo di farmi un cenno di saluto che io ero già scivolata fuori dal nostro nascondiglio. A quanto pare eravamo stati fortunati: il corridoio della Churchill Accademy era silenzioso e vuoto. Solo un paio di ritardatari erano ancora impalati di fronte ai loro armadietti. Quando mi videro, ripresero a parlottare tra di loro, senza degnarmi di un'ulteriore occhiata.

L'idea di tornare a casa Parker non mi dispiaceva. Certo, era esattamente ciò che James mi aveva detto di non fare me, ehy, non poteva prendersela con me se anche il preside Evans non mi voleva lì!

Il compito che mi aveva dato, però, avrebbe lasciato poco spazio sia per riposare che per guardare i fogli che mi aveva dato Alex. Ancora non capivo perché mi fosse sembrato così ingessato, a un certo punto, ma immaginavo che le motivazioni per le quali mi stava aiutando tornassero a fargli visita ogni tanto, proprio come accadeva a me quando ripensavo alle parole di Elizabeth. In quel frangente mi chiesi se anche sua madre gli avesse lasciato qualche indicazione, insieme al medaglione. Magari più chiara di quanto non avesse fatto la mia. Ma ero altresì consapevole che Alex non era il tipo da condividere quelle informazioni con me. Era già sufficientemente stressante convincerlo a raccontarmi ciò che scopriva man mano. Quei pensieri assomigliavano tremendamente a un vicolo cieco.

Scossi la testa e, mentre mi stringevo nella giacca leggera per ripararmi dal vento che attraversava il viale alberato della Churchill Accademy, provai a concentrarmi di nuovo sul compito che mi aveva assegnato il preside.

Forse avrei potuto aggiungere un corso di fotografia o di arte, per non rendere quell'esperienza totalmente inutile. Dopotutto avevo sempre evitato di seguire quelle mie passioni a causa dell'incostanza della mia vita, ma avrei potuto sfruttare quei mesi a Danvers per accumulare un po' di crediti. E l'informatica poi... Forse quella era l'opzione che meno apprezzavo, ma che più mi sarebbe servita. Essere indipendente era allettante, soprattutto per una come me che non era abituata a dover contare su qualcuno. Non che credessi di diventare una specie di hacker nel giro di un semestre, ma magari avrei comunque potuto imparare qualcosa.

Ero talmente immersa tra quelle possibilità, che quando una berlina argentata accostò accanto a me, sobbalzai vistosamente. Ero già pronta a calarmi nella mia parte preferita: quella della povera nuova arrivata che non sapeva assolutamente orientarsi in quella cittadina, perché detestavo dare indicazioni stradali. In quel preciso istante, però, il guidatore abbassò il finestrino. Non impiegai molto a mettere a fuoco la figura all'interno dell'abitacolo e mi ritrovai a strabuzzare gli occhi, come se fossi vittima di qualche scherzo del destino.

«Jenna?» balbettai. 

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