IGNI

Від Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... Більше

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

15 - I Parker

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Від Valeroot


Regola n. 3 del V.I.
Ogni nuova casa dovrà essere vicina ad un parco.
(Dieci anni, Budapest)

«Buongiorno Falchi Feroci. Vi ricordo che la prossima settimana ci sarà la prima partita della stagione contro i Castori di Middleton. Oggi si svolgeranno anche i provini delle cheerleader. Forza Falchi!» scandì l'altoparlante sopra le nostre teste.

Era il giorno della festa in maschera e io ero un agglomerato di nervosismo e irritabilità.

Non ero una di quelle persone che dovevano avere sempre tutto sotto controllo. Sapevo essere responsabile, certo, perché uno tra me e James doveva pur esserlo, ma ero anche piuttosto abituata ai contrattempi e a dover improvvisare per gestirli.

Eppure, la consapevolezza che quella sera avrei dovuto fare affidamento su Alex mi rendeva irrequieta. Avevo questo nervosismo latente che si sviluppava solamente in sua presenza e che mi destabilizzava, perché avevo l'impressione di sembrare così fragile di fronte a lui, da voler ridere delle mie stesse ansie.

Dicevo di fregarmene del parere delle persone, eppure continuavo a minimizzare ciò che realmente provavo sulla questione dei medaglioni, perché volevo apparire forte ai suoi occhi; mi sforzavo di ragionare lucidamente, senza lasciarmi sopraffare dalla mia parte più emotiva, tuttavia ogni volta che parlavamo avevo quella duplice sensazione che entrambi ci stessimo nascondendo dietro alla razionalità, mentre le singole parole che lasciavano le nostre labbra contenevano implicazioni ben diverse.

Il punto era: io conoscevo ciò che stavo nascondendo ad Alex, e non era altro che la volontà di capire se mia madre fosse davvero collegata a quella faccenda. Lui però cosa stava coprendo?

Quell'interrogativo rimase appiccicato alla mia testa come un francobollo. Troppo evidente per essere spazzato via, ma anche troppo difficile da mettere a fuoco sul serio. Tuttavia, quei pensieri finirono per essere accantonati, non appena giunsi di fronte al mio armadietto.

Attaccato alla lastra di metallo, un bigliettino spiegazzato color rosa pastello svettava in maniera inquietante su quella lamina grigia. Abbassai lo sguardo, mettendo a fuoco una grafia tonda e un po' disordinata.

"Palestra, prima ora (non è trattabile)".

L'arroganza di quell'imperativo mi aveva immediatamente fatto capire chi fosse il mittente. Alzai gli occhi al cielo, e feci dietro-front in direzione del complesso sportivo. Che Alice non conoscesse il significato della parola "no" era ormai palese, ma dovevo necessariamente trovare un modo per tirarmi fuori da quella faccenda.

Mi massaggiai le tempie con fare irritato. Era essenziale, infatti, che il mio cervello rimanesse concentrato solamente su un unico elemento: prevedere ogni possibile intoppo che si fosse presentato quella sera. L'incertezza del mio rapporto con Alex, infatti, mi poneva nella scomoda situazione di dover fare affidamento solo e unicamente sulle mie forze.

Sollevai lo sguardo mentre un gruppetto di ragazze del primo anno si affrettava a raggiungere il padiglione umanistico. Attraverso le porte d'emergenza che davano sul campo da football, vidi un ammasso di ragazzi in divisa che stavano provando alcuni lanci. Gli allenamenti dovevano già essere iniziati e per quello speravo di salvarmi dalle cheerleader.

Non avevo ancora una grande dimestichezza con quella zona della scuola. La Churchill Accademy era immensa e composta da troppe strutture per pensare di visitarle tutte. Tuttavia, non fu difficile orientarmi fino agli spogliatoi. C'era un via vai di gente decisamente superiore alla norma, e mi bastò seguire il crescendo di voci che si rincorrevano per giungere a destinazione.

«Eccoti» esclamò Alice con voce squillante, non appena varcai la soglia dello spogliatoio.

Era un ambiente più piccolo e disordinato di quanto avessi potuto immaginare. Credevo che avrei trovato una fila di armadietti lucidi e forse qualche vestito dimenticato in giro, invece le quattro panche che delimitavano la zona delle docce erano colme di borsoni e pompon, mentre il pavimento era disseminato di scarpe.

Quello non era neppure il vero problema, a essere onesti. Il richiamo di Alice aveva infatti attirato l'attenzione di una dozzina di ragazze in divisa blu e argento, che sollevarono il viso nella mia direzione solamente per guardarmi con astio. Bene, mi ero sicuramente fatta delle nuove amiche.

Se avessi potuto, credo che avrei esposto un'insegna luminosa in fronte, per rassicurarle della mia scarsa propensione allo sport. Alla fine, però, mi limitai a raggiungere la ragazza mora impegnata a fare stretching, vicino alla finestra.

«Avevo detto a Caleb di non voler fare il provino» mormorai infastidita.

Che Alice potesse essere ragionevole? Ne dubitavo. Eppure, quando la vidi esitare per un attimo, credetti davvero di aver fatto centro.

«Consideralo come un favore personale a me» ribatté subito dopo, inarcandosi per afferrare qualcosa dalla panca.

Erano maglietta e pantaloncini della squadra, realizzai, quando mi schiaffò al petto quei pezzi di stoffa blu, costringendomi ad afferrarli prima che cadessero. Fu quello il momento in cui capii che glieli avrei tirati indietro, perché ero sempre stata fin troppo accomodante con lei.

Come se avesse capito le mie intenzioni, Alice congiunse le mani in segno di preghiera. «Ho metà della squadra ammalata» pigolò, sfoderando quella combinazione di occhi dolci e labbro inferiore tremante che generalmente faceva cadere ai suoi piedi sia Caleb che tutti i suoi amici. Peccato che io non fossi uno di loro. «Per favore» aggiunse.

Feci un profondo sospiro, iniziando a pentirmi delle mie parole ancora prima di averle pronunciate. «Faccio il provino, solo se mi assicuri che non entrerò nella squadra». L'ultima cosa di cui avevo bisogno era rimanere incastrata nei corsi extrascolastici. Non solo non avevo intenzione di volteggiare a bordo campo, ma mio padre fiutava l'odore di stabilità peggio di un cane da tartufo. Ed era a quel punto, di solito, che smaniava per andarsene.

«Prometto!» esclamò lei saltellando sul posto. Terminò l'esibizione con un braccio sollevato al cielo e una mano incastrata sul fianco, prima di ridacchiare per la mia smorfia contrariata. «Ti aspetto di là».

Osservai Alice sfilare verso il corridoio che dava sulla palestra, con una goccia di nervosismo. Non avevo esattamente idea di quanta gente ci fosse oltre quel muro. Forse, però, era qualcosa a cui non volevo neppure pensare in quel momento. Non dovevo distrarmi dall'obiettivo della serata, mi ricordai.

Insieme a me, erano rimaste solo un paio di ragazze che si stavano affannando per indossare la divisa e ricacciare negli armadietti tutti i loro effetti. Osservai una di loro nascondere il cellulare dentro gli stivaletti e un'altra legare la chiave del lucchetto al braccialetto. I loro respiri veloci sferragliavano attorno a me, in una tipologia d'impegno al quale io non intendevo aggregarmi. Mentre però mi liberavo del maglione pesante e dei jeans, una strana idea iniziò a prendere forma nella mia testa.

Quella sera mi sarei imbucata a un evento, solo per scoprire se davvero ci fosse un legame tra quella festa e il medaglione inviatomi da mia madre. Eppure, come potevo non aver pensato di iniziare da qualcosa di ancora più semplice? Erano i Parker i destinatari di quell'invito. Perché non incominciare da loro? Perché non cercare di capire in che modo fossero legati sia a mia madre, che ad Alex?

Mi incamminai verso l'ingresso della palestra continuando a riflettere sulla possibilità che sapessero qualcosa. Tutto ciò, però, dipendeva dall'esistenza o meno di un vero legame con i medaglioni. Al momento infatti, il collegamento con la festa in maschera era debole e stiracchiato. Ma l'idea che Alex, per qualche strana ragione, avesse deciso di assecondarmi rendeva i miei sospetti in qualche modo più leciti.

«Luce dei miei occhi stai cercando di svignartela?». Dean appesantì la mia figura, facendo ricadere il suo braccio attorno alle mie spalle.

Era un gesto che faceva spesso, sia con me che con Alice. In altre situazioni, ero piuttosto convinta che la sua espansività mi avrebbe infastidita. Tuttavia, il suo sguardo trasudava di bontà e ingenuità, ed era una combinazione quella, che non mi permetteva di provare disagio con lui.

Al contrario, mi ritrovai a guardarlo speranzosa. «È un suggerimento?» chiesi stando al gioco.

Caleb ci raggiunse camminando all'indietro, per essere sicuro di vederci in volto mentre ci ammoniva. «Credo che Alice sarebbe capace di uccidervi entrambi» ci avvertì con tono burbero.

Sentii il petto di Dean sobbalzare in una risata, perfettamente consapevole che l'amico avesse ragione e, mentre i due continuavano a controbattere, mi presi qualche istante per osservare l'enorme stanza nella quale eravamo appena entrati.

La palestra era gremita di gruppetti di ragazze che provavano mosse e coreografie, mentre sul lato opposto, un paio di campi da pallavolo erano già stati occupati da due agguerrite squadre in divisa gialla. Approfittai di tutta quella confusione per sedermi sulle gradinate alla nostra destra, mimetizzandomi vicino al club di badminton e aspettai che Dean e Caleb prendessero posto accanto a me, prima di parlare.

«Perché non siete in classe?» chiesi, facendo finta di guardare lo schema delle cheerleader. Troppi salti e decisamente troppe capriole, per un pezzo di legno come me.

«Siamo entrati nella squadra di football e oggi avevamo il primo allenamento» spiegò in tono sommesso Dean, sdraiandosi lungo quella striscia di cemento grigio. «Siamo in pausa ancora per dieci minuti, perché Russell è un pazzo competitivo e ci sta facendo scontare l'assenza di Alex.»

Notai solamente in quel momento alcuni segni verdi sui calzettoni della divisa. Probabilmente il coach li aveva costretti ad allenarsi all'aperto, nonostante fossero due giorni che una lieve pioggerella aveva sepolto Danvers, insieme a una nebbiolina umida e persistente.

Rabbrividii sotto alla mia maglietta leggera, sebbene al chiuso la temperatura fosse più che accettabile. «Mi ricordate perché lo fate?» chiesi sovrappensiero e in maniera talmente sconcertata, da farli ridacchiare entrambi.

Vidi Dean squadrarmi, improvvisamente investito di un cipiglio autorevole. «Per le ragazze e la gloria ovviamente.» Strizzò l'occhio con fare cospiratorio.

«Ovviamente» mi ritrovai a ripetere, scuotendo la testa, incredula.

Nonostante mi stesse solo prendendo in giro, per quanto mi riguardava, serviva una buona dose di passione e di dedizione per decidere di rimanere per ore a sudare sotto alla pioggia. E la gloria da sola di certo non bastava.

Feci per ribattere, cercando supporto in Caleb, quando incrociando il suo viso mi resi conto che sembrava decisamente più ingessato rispetto a prima. Non stava seguendo il nostro discorso e fissava il pavimento con la fronte corrugata, come se qualcosa lo rendesse eccessivamente pensieroso. Scrutai per qualche secondo il suo volto, in cerca di una qualche spiegazione e, a un certo punto, dovette rendersi conto anche lui di aver attirato la mia attenzione, perché quando i nostri occhi si incrociarono, si affrettò a parlare.

«Stasera hai impegni, Cassie?». Si era avvicinato impercettibilmente e le sue mani adesso tamburellavano impazienti sul rivestimento grigio in gomma.

Trasalii, rimanendo completamente spiazzata dalle sue parole. E non perché mi avesse chiesto dei miei impegni, ma perché sapevo cosa avrebbe comportato la mia risposta. Altre bugie. Non avevo infatti intenzione di rivelare i miei piani con Alex, ma non potevo neppure uscire da quella situazione senza dare spiegazioni.

«Ho una cena con mio padre» iniziai incerta, facendo vagare lo sguardo alla mia destra. Non amavo mentire e mi dispiaceva ancora di più, se le bugie erano indirizzate alle uniche persone che avevano cercato di farmi sentire a mio agio dopo il mio trasferimento, ma non avevo scelta. «Lo vedo pochissimo, da quando sta con Lauren» mi giustificai, tornando ad alzare lo sguardo per capire se avesse creduto alle mie parole.

A quanto pare però, nonostante il mio tono incerto e gli occhi che continuavano a scivolare verso destra, dovevo essere una bugiarda migliore di quanto credessi, perché Caleb si limitò a lanciarmi un'occhiata comprensiva che mi mise un po' a disagio.

«La prossima volta, vieni con noi da Roby» decretò, «se vuoi ambientarti a Danvers, è una tappa obbligatoria, e non si accetta un no come risposta».

Dean sembrava d'accordo. «Roby è il regno delle doppie "B"».

Doppie B?

Era un gergo che non mi diceva nulla, quindi finii per guardarlo confusa, mentre un sorrisino accondiscendente si faceva strada sul suo volto.

«Birra e Band» chiarì, alzando le spalle, come se fosse ovvio.

Dovevo ammettere che compre proposta suonasse decisamente bene, ma non ebbi il tempo di ribattere, perché con l'ineluttabilità di un destino avverso, Alice si avvicinò proprio in quel momento, interrompendo la nostra conversazione: «È ora, Cassie.»

Mi riservò uno sguardo talmente speranzoso, che mi si torse lo stomaco, e non riuscii a fare altro, se non confermare con un cenno del capo.

«Tranquilla, ti salviamo noi» sussurrò Caleb, interpretando correttamente il mio silenzio.

Anche Dean sembrava aver notato il mio disagio, perché mentre l'amico ancora mi stava rassicurando, lui era già passato all'attacco. «Alice, meraviglia delle meraviglie, esci con me stasera?» le urlò, tenendo una mano sul cuore e scuotendo i capelli biondi come se fosse il protagonista di una tragedia greca.

Lei in tutta risposta gli fece un gestaccio e, dai commenti delle altre ragazze, capii che era una scena che si ripeteva spesso.

Per quanto apprezzassi il tentativo di Dean di distrarla, Alice rimase impassibile e mi fece cenno di accodarmi al resto del gruppo. Forse non avrei dovuto essere così agitata, eppure stavo lì, con le gambe tese come una corda di violino e le braccia strette al petto, nel tentativo di gestire la mia timidezza.

Quando fu il mio turno di provare la coreografia però, i ragazzi fecero un po' di caos, cercando di beccarmi con alcune palle da basket, cosa che irritò Alice, soprattutto quando presi i palloni e li ritirai ai due, senza curarmi di terminare le figure. Una scenetta ideata ad arte, che mi avrebbe sicuramente garantito l'esclusione dalle cheerleader.

«Okay, basta! Fuori dalla palestra subito! O vi faccio arrivare in corridoio a calci!» urlò lei dall'altra parte della stanza, facendo ridere Dean e Caleb, che però, con un po' di buon senso, tornarono agli allenamenti.

Cercai di soffocare una risatina, ma sentivo il petto troppo leggero a causa di quel pericolo scampato per starmene buona, fingendo un'espressione neutra che in quel momento non mi si addiceva proprio.

Li guardai incamminarsi verso il corridoio, quando, proprio in quel momento, dallo spogliatoio maschile sbucò Alex.

Una sacca nera ciondolava dalla sua spalla e i capelli erano ancora imperlati di piccole goccioline, che sembravano brillare sotto la luce al neon della palestra. Lo vidi tirarli indietro con un gesto distratto della mano, per altro totalmente inutile, perché subito dopo alcuni ricci tornarono ad accarezzargli le tempie. Doveva aver appena finito l'allenamento, perché la felpa era tirata sulle braccia come se, nonostante la doccia, dovesse ancora smaltire il calore che lo sforzo fisico aveva portato con sé.

Ovviamente, non aveva fatto in tempo neppure a muovere due passi in direzione del corridoio, che era stato immediatamente placcato da un paio di ragazze in divisa blu e argento. E mentre lui parlottava distratto, io mi ritrovai ad aggrottare la fronte, perché un dubbio si era appena impossessato della mia mente: se non faceva parte della squadra di football, perché era in palestra? Teoricamente solo i club sportivi si sarebbero potuti riunire durante le ore mattutine.

Forse ero rimasta bloccata in quella direzione per un lasso di tempo sconvenientemente lungo, perché mentre ero seduta lì, con una gamba raccolta e l'altra che ciondolava svogliata, a pormi domande su argomenti dei quali non me ne sarebbe dovuto importare niente, Alex ci mise meno di un secondo a individuarmi.

Feci appena in tempo a scorgere i suoi occhi vagare oltre il viso della biondina che aveva di fronte, che un sorrisino divertito si formò sul suo viso. Bene, ero appena stata beccata a fissarlo. Non fui colta però dal nervosismo che avrei pensato di provare. Non aveva senso ignorarlo, dato che avremmo dovuto passare insieme l'intera serata. Anzi, a dire il vero, una parte di me voleva accertarsi che non mi avrebbe mollata all'ultimo minuto, soprattutto dopo la reazione scostante del giorno prima in mensa.

Continuai quindi ad osservarlo, anche mentre salutava le due ragazze e muoveva qualche passo nella mia direzione.

«Bel completo» commentò beffardo, quando la sua ombra si posò su di me

Non risposi alla sua provocazione, e mi limitai ad alzare gli occhi al cielo. In realtà, non tanto perché fossi scocciata per quel suo commento, quanto perché sentissi l'impellente necessità di alleggerire la tensione. Tensione che, per inciso, sentivo solamente io. Lui al contrario sembrava solo incredibilmente rilassato. Forse giusto un po' divertito dalla mia reazione.

Avrei voluto dirgli "al diavolo le cheerleader" perché non m'interessava fare conversazione con Alexander Case sui club sportivi della scuola. Ciò di cui avevo bisogno era la certezza che fosse ancora interessato alla festa.

«Siamo ancora d'accordo per stasera?» replicai con fare pratico, virando sull'unico argomento che avevamo realmente in comune.

Proprio in quel momento, però, Caleb sfrecciò nel mio campo visivo, tornando sugli spalti a prendere una pettorina e istintivamente un senso di colpa guizzò sotto la mia pelle. Mi ritrassi lievemente, ruotando il capo per non farmi vedere, perché la mia mente si era già sintonizzata su quella bugia che avevo pronunciato solo una manciata di minuti prima.

Non sapevo bene quale fosse la ragione per la quale non volevo che nessun altro sapesse dei miei piani con Alex. Qualcosa dentro di me mi suggeriva che poco avesse a che fare con la necessità di nascondere le nostre intenzioni al limite della legalità. So solo, però, che quando vidi Caleb improvvisamente ogni fibra del mio corpo sembrò urlarmi di nascondermi.

Non ebbi l'opportunità di farlo. Come se esistesse un magnete posizionato proprio sulla mia fronte, Caleb si voltò nella nostra direzione e, quando ci individuò, scorsi un lampo di sorpresa contorcere i suoi lineamenti.

Provai a simulare un sorriso tirato, che lui non accennò minimamente a ricambiare. Osservava Alex con uno sguardo freddo e distaccato, che immediatamente riportò a galla le parole che aveva pronunciato il giorno prima.

"È inaffidabile".

Non riuscivo a non pensarci. Quella condanna era rimasta pendente sulle nostre teste, come una sorta di spada di Damocle. Tuttavia, sapevo di aver preso la mia decisione e sarei andata fino in fondo, indipendentemente da tutti. Indipendentemente dai commenti di Caleb e dall'affidabilità o meno di Alex.

Lui scelse proprio quel momento per ricordarmi della sua esistenza. Si mosse piano, avvicinandosi leggermente per rientrare nel mio campo visivo.

«Non vuoi tra i piedi me, o Evans?» mi chiese diretto, costringendomi a sollevare il mento nella sua direzione.

Il suo tono di voce non si accese. Aveva pronunciato quelle parole a voce sufficientemente alta affinché il messaggio arrivasse chiaro, ma c'era qualcosa nella sua espressione che simulava... ostilità.

Presi tempo, torturandomi l'angolo della bocca. «Entrambi, ovviamente».

Ebbi l'impressione che la mia risposta avesse fatto breccia negli strati di indifferenza astiosa dietro cui si nascondeva, perché un accenno di sorriso tornò a modellare le sue labbra.

«Bene» confermò, inclinando di poco il capo verso la spalla. «Non ti interesserà sapere che ho delle informazioni per te, allora».

Ogni volta che rimanevamo da soli, era un continuo provocarci. Credo che però Alex avesse capito come far leva sulla mia maledetta curiosità, perché a quelle parole il mio sguardo tornò fisso su di lui.

«Ti sto ascoltando» lo invitai a proseguire.

Alex però rimase a osservarmi in silenzio. Le sue dita giocarono per qualche secondo con il labbro inferiore, come se stesse riflettendo e ci fosse qualcosa di me che volesse mettere a fuoco. Avevo la sensazione che volesse aggiungere qualcosa rispetto al discorso fatto prima, ma mentre il tempo passava percepii quel tremulo tentativo ridursi, fino a trasformarsi solamente in un sospiro serrato. A quel punto, i suoi occhi finalmente si staccarono dai miei, prima che spostasse la sua attenzione sullo zaino che ciondolava dalla sua spalla.

«Abbiamo un secondo invito» spiegò telegrafico, estraendo quel cartoncino nero ormai così famigliare.

A quella vista, abbandonai l'atteggiamento distaccato e ironico, lasciando che Alex mi porgesse l'invito. Non mi interessava molto di essere in una palestra gremita di gente, e non mi preoccupava neppure mostrargli il mio interesse. Tutto ciò che stava frullando nella mia testa si concretizzò poco dopo in un'unica domanda: «Dove lo hai trovato?».

Le parole uscirono dalla mia bocca accusatorie, senza neppure che il mio cervello si accorgesse di averle formulate.

Alex mi rivolse un lungo sguardo. Il sorriso adesso si era trasformato in una smorfia riluttante che si fermava solo alle sue labbra, senza riuscire a illuminare i suoi occhi azzurri.

«Ho le mie fonti» rispose controvoglia.

Quella risposta ebbe il potere di congelare per un istante i battiti del mio cuore. Perché nonostante le buone intenzioni, nonostante il tentativo di ignorare quell'avvertimento che avevo visto lampeggiare nell'espressione rigida di Caleb, solo qualche minuto prima, Alex aveva appena confermato ogni mio dubbio.

Adesso ero consapevole che non avrei potuto abbassare la guardia, perché non solo io non mi fidavo di lui, ma il sentimento era reciproco. E non m'importava neanche più della tregua che sembrava essersi instaurata dopo la gita al Wenham Lake, perché non appena le mie dita avevano stretto quel cartoncino, e non appena le mie orecchie avevano udito la sua risposta, un'unica domanda si era materializzata nella mia mente: cosa diavolo stavo facendo?

«Perché mi aiuti?» chiesi di getto, continuando a fissarlo.

Era la domanda del giorno prima. Quella che avevo già pronunciato in mensa, e dalla quale lui era stato così bravo a svicolare. L'avevo pronunciata per fargli capire che poteva mantenere quell'atteggiamento elusivo quanto voleva. Io lo sentivo, lo percepivo a pelle, che ci fosse un interesse che lo legava a quella storia.

Fu allora che vidi una crepa nel suo atteggiamento. Come una rottura sottile ma dolce, perché i suoi occhi per un istante furono animati da una scintilla che arse la freddezza delle sue iridi di ghiaccio, fin quasi a scioglierla.

E fu allora che capii di aver fatto centro. Che entrambi, una volta ancora, stessimo comunicando su due livelli diversi. Da una parte, con ciò che volevamo dire a parole e dall'altra, su un piano meno evidente, con ciò che non riuscivamo a nasconderci neppure volendo.

Alex era mosso dalla stessa determinazione e tenacia che riconoscevo solo nelle persone che avevano perso qualcosa. Persone che stavano cercando qualcosa, e che non si sarebbero arrese per nessuna ragione al mondo. Persone come me.

La sua reazione, però, durò solamente un attimo. Un istante talmente breve, impalpabile, che quando sbatté le palpebre pensai di aver solo immaginato tutte quelle sensazioni appena provate. Eppure, c'è un qualcosa nella purezza nelle reazioni incontrollate che, nonostante siano effimere, sono comunque in grado di lasciare un'impronta leggera ma netta, dentro di te.

Decisi quindi di ignorare i pensieri di poco prima. Consapevolmente, misi da parte tutti i miei problemi di fiducia e persino la domanda che gli avevo appena posto. Perché magari Caleb, Dean e Alice non potevano capire cosa significasse quello sguardo. Quello di chi ha qualcosa che vuole proteggere dal mondo esterno. Ma io invece potevo farlo, e per quello decisi di non insistere ulteriormente.

«Passi a prendermi?» gli chiesi sfacciata, per cambiare argomento.

In tutta risposta, Alex confermò con un cenno del capo. «Ore nove, casa Parker» mi comunicò telegrafico. La mia precedente domanda aveva avuto la naturale conseguenza di farlo chiudere nuovamente sotto a quegli strati di indifferenza e praticità, che sembravano distanziarlo anni luce dal resto del mondo. «Fatti trovare pronta» ordinò perentorio.

«Vestiti decentemente» ribattei osservando i suoi pantaloncini della tuta.

Non fu minimamente toccato da quella mia osservazione e lo vidi sorridere sornione, mentre le sue pupille si aggrappavano a ogni centimetro della mia pelle, prima di rispondere.

«Tu puoi rimanere con quella divisa, per quanto mi riguarda».

***

Nonostante il commento di Alex sull'uniforme delle cheerleader, cercare un vestito per la festa fu il mio primo pensiero quando arrivai a Casa Parker. E non perché morissi dalla voglia di infilarmi in uno di quei bustini stretti o di arrampicarmi su quelle scarpe con il tacco che utilizzavo solo quando accompagnavo James a una delle sue cene di gala, ma per archiviare al più presto quella questione irrilevante. Le mie intenzioni di fondo erano infatti molto meno onorevoli e decisamente più illegali, rispetto alla mera ricerca di un abito. E fu per tale ragione che, non appena racimolai un paio di trampoli intrecciati tra di loro e un lungo vestito blu di chiffon, mi fiondai fuori dalla mia camera.

Il mio obiettivo era uno soltanto: sfruttare quelle ore di assenza di mio padre per cercare anche solo il più piccolo indizio che collegasse i signori Parker alla festa in maschera o ai medaglioni. Sentivo infatti la necessità di stringere tra le dita una prova tangibile che non stessi impazzendo del tutto, anche se ero consapevole che non fosse corretto frugare tra i loro effetti personali.

Se dapprima ero uscita dalla mia camera a passo spedito, non appena raggiungi il corridoio che collegava le varie stanze della casa, i miei gesti divennero più incerti e lenti. C'erano troppi posti nei quali avrei potuto iniziare le mie ricerche: il garage e la cantina erano entrambe piene zeppe di scatole, come se i signori Parker avessero deciso di abbandonare Danvers di punto in bianco, accatastando malamente i loro ricordi. Eppure, sapevo che mi sarebbe stato impossibile controllare tutto, quindi la mia decisione virò irrimediabilmente verso un ambiente ben diverso rispetto a quelli citati precedentemente: la biblioteca.

James mi aveva mostrato quella stanza solamente una volta, quando avevamo fatto un breve tour della casa al nostro arrivo a Danvers, per valutare le ristrutturazioni più urgenti. Mi era sembrato un posto un po' troppo freddo e poco illuminato per pensare davvero di sfruttarlo quando mi fossi voluta rilassare un po'. Tuttavia quello schedario lucido incastrato tra la scrivania e la libreria era rimasto ben impresso nella mia mente.

Fu proprio lì che mi diressi, non appena varcai la soglia della stanza. Come la prima volta che eravamo entrati in biblioteca, finii per stringermi nel maglione, mentre brividi di freddo risalivano dalle braccia alle spalle, fino a raggiungere la nuca. Era un ambiente spaventosamente freddo e inospitale, ma mi costrinsi a ignorare quei pensieri e, dopo aver spinto le maniche del maglione fin sopra le dita, iniziai a scrutare il mobiletto di fronte ai miei occhi.

Tre serie di cassetti erano ripetuti per tutta la sua lunghezza, creando di fatto un mobile organizzato e funzionale. Misi a tacere la dubbia moralità delle mie azioni e avvolsi le dita attorno al primo pomello, tirandolo verso di me.

Vuoto. Il risultato fu un vano completamente sgombro e privo non solo del più piccolo indizio, ma in generale del più inutile degli oggetti. Mi accigliai, ma proseguii con quello successivo. Vuoto anche quello. Aprii l'ultimo con uno scatto. Nulla. Il nulla più assoluto, aggiungerei. Continuai così con tutte le file di cassetti, mentre sentivo l'impazienza crescere dentro di me insieme a un'ondata di frustrazione. Erano tutti maledettamente vuoti.

In tutta onestà, non ero così ottimista da credere che avrei trovato la soluzione a ogni mio problema semplicemente aprendo uno scomparto. Speravo, però, di trovare quantomeno qualcosa su cui lavorare; dei documenti con i quali tenere concentrato il mio cervello per almeno una manciata di minuti. Tuttavia, l'assenza completa di appigli mi aveva lasciata confusa e svuotata. Certo, i Parker dovevano essere stati previdenti e aver pensato all'eventualità che qualcuno sbirciasse tra i loro oggetti.

Mi sedetti per terra, ignorando il freddo che mi avvolse non appena le mie gambe toccarono il pavimento. Forse avrei dovuto valutare se fosse o meno fattibile pensare di controllare le scatole in garage. Dentro di me, però, sapevo che neanche in una settimana sarei riuscita in quell'impresa. Sicuramente non avrei potuto farlo in sole tre ore.

Tamburellai impaziente sul pavimento, lasciando che i miei occhi scorressero determinati sull'ambiente che mi circondava. La stanza era eccentrica, proprio come il resto della casa. Probabilmente era lo stile dei Parker, ma dovevo ammettere che iniziavo a trovarlo piacevole... A tratti, rassicurante addirittura. La tinteggiatura era forse di un color crema un po' troppo freddo, ma si stemperava sapientemente con il parquet scuro sul quale mi ero seduta. In ogni caso, quei colori neutri non facevano a pugno con le poltrone sui toni dell'arancio e del fucsia, che in realtà sembravano illuminare quell'ambiente altrimenti spento.

La mia parte preferita, però, era la parete alla mia destra. Una combinazione di fotografie di famiglia e di paesaggi erano state affisse a una grossa bacheca, talmente fitte da incastrarsi tra di loro, dando vita a diversi livelli di carta.

Mi alzai, attratta da quelle immagini, e lasciai che le mie dita seguissero le linee lucide di quelle istantanee. Sembravano una compilation della vita della figlia dei Parker. Didascalie scribacchiate con un indelebile ripercorrevano gli eventi più importanti della sua vita: Margareth mentre faceva il bagno, Margareth al suo primo compleanno, Margareth a Disneyworld.

Sorrisi al pensiero che i coniugi Parker sembravano dimostrare la mia stessa ossessione per le fotografie, e non mi sarebbe dispiaciuto copiare la loro idea nella nostra casa di Londra, anche se sapevo che sarebbe stato impossibile decidere cosa conservare in mezzo a quella montagna di scatti che io e James avevamo collezionato nel corso degli anni.

E proprio mentre ero lì, rilassata, con la mia mente libera di vagare tra i diversi viaggi che avevano costellato la mia infanzia, fu proprio allora che la vidi.

Una delle ultime foto di quella bacheca non ritraeva più Margareth come soggetto centrale. Al contrario, riconobbi la signora Smith, la nostra vicina di casa, che il primo giorno si era presentata alla nostra porta con una torta fumante, blaterando qualcosa in merito a un comitato di accoglienza del quartiere.

Non fu solo la sua presenza però ad attirare la mia attenzione. La fotografia era stata scattata in tarda serata e, pur non riconoscendo il luogo, un elemento mi fece capire che forse le mie ricerche maldestre non erano poi così fuori di testa, perché tutti i soggetti ritratti tenevano nella mano destra una maschera nera.

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