IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

14 - L'invito

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By Valeroot

Regola n. 2 dei V.I.
Cassie non può essere costretta a fare
amicizia con i nuovi compagni di classe
(Nove anni, Doha)

Sussistevano almeno due segnali, piccoli ma inequivocabili, a indicazione che stessi lentamente impazzendo.

In primo luogo, neppure dopo due giorni passati a riempirmi la testa di nozioni scientifiche e testi di letteratura, ero riuscita a togliermi dalla mente che quel medaglione disegnato sull'invito alla festa in maschera rappresentasse una semplice coincidenza.

Secondariamente, ciò che mi faceva maggiormente temere per la mia salute mentale, era la consapevolezza che ci fosse un'unica persona che poteva confermare le mie deliranti ipotesi riguardanti i medaglioni. E ogni volta che quel nome impattava la mia scatola cranica uno sbuffo nervoso lasciava le mie labbra.

Alexander Case.

Non m'importava se dopo la gita al Wenham Lake sembravamo aver instaurato una sorta di tregua. La naturale propensione a non volermi fidare delle persone non faceva altro che aumentare, quando avevo a che fare individui sfuggenti come lui. Magari potevo superare questo mio limite con Alice, o con Dean e Caleb, che mi fornivano tutte le rassicurazioni di cui avevo bisogno. Con lui, però, mi riusciva molto più difficile.

Per quello avevo provato a ignorare quell'informazione. A rinchiudere quei discorsi deliranti, in quella scatola del cervello sigillata da una generosa dose di imbarazzo e di buonsenso. Alle fine, però, mi ero resa conto di aver passato gli ultimi due giorni, trascinandomi da una lezione all'altra sempre con quei pensieri a distrarmi da tutto il resto. Il che naturalmente non aveva incentivato la mia carriera scolastica.

«Signorina Reed, sottragga gli ottusi». La voce della Cooper, la docente di matematica, mi riscosse dai miei pensieri. Ero impalata di fronte alla lavagna, con un gesso stretto tra le mani e una serie di numeri senza significato davanti agli occhi. «Gli ottusi». Il suo indice laccato di rosso indicò un punto imprecisato di fronte al mio viso. «Li sottragga!» mi intimò con tono esasperato. «Magari potessi farlo nella vita reale» la sentii borbottare, mentre mi osservava torva.

Il suono acuto della campanella che decretava la fine delle lezioni mi salvò da una figuraccia certa.

«Per dopodomani voglio tutti gli esercizi dal numero quaranta al cinquantacinque». La sentii minacciare, mentre mi affrettavo a tornare al mio posto. «Pena un pomeriggio di detenzione proprio il giorno della festa di halloween».

Borbottii di malcontento riempirono l'aria, ma la Cooper faceva abbastanza paura da non permettere agli studenti di schierarsi apertamente contro le sue parole. Minacciare di non farci partecipare a una delle feste studentesche era un po' oltre i suoi poteri, ma nessuno metteva in dubbio che ci sarebbe riuscita, se solo avessimo osato sfidarla.

«Ti servono ripetizioni, luce dei miei occhi?». Dean si sbilanciò pericolosamente con la sedia, appoggiando i gomiti al mio banco. Il suo viso morbido era contratto in un'espressione comprensiva. «La matematica può essere tosta».

Non erano le funzioni goniometriche il mio problema e non era di ripetizioni che avevo bisogno. Spegnere il cervello: quello doveva essere il mio obiettivo primario.

«Credo di avere un calo di zuccheri» mentii, afferrando la borsa da sotto il tavolo. Ancora non mi ero abituata a lasciarla nell'armadietto come facevano tutti i miei compagni. «Ci vediamo più tardi» lo liquidai, con un cenno confuso della mano.

Avevo resistito due giorni. Due giorni nei quali non avevo fatto altro che ricordarmi quanto sarebbe stato imbarazzante riaprire quel discorso con Alex, ma adesso basta. Basta paranoie, basta problemi. Se avesse voluto ridere di me, lo avrebbe fatto in ogni caso.

Con quella consapevolezza, seguii il flusso di studenti fino alle scale centrali che portavano ai piani inferiori. L'atrio era caotico e invaso dalle chiacchiere allegre degli studenti, la cui voce cercava di sovrastare il rumore dell'impianto di areazione, che lavorava al doppio della sua capacità in quei giorni uggiosi.

Mi mimetizzai dietro a due ragazzi della squadra di basket per sfuggire a Jessica e alle sue amiche e percorsi quelle scale in pietra fino all'ingresso della mensa, dove una piccola folla si era raggruppata a causa del tempo incerto.

Afferrai distrattamente un vassoio, mentre osservavo i tavoli accanto a me. Il mio sguardo finì subito sul gruppetto degli sportivi. La squadra di football sembrava essersi accordata con quella di basket e con le cheerleader per pranzare tutti insieme, perché di fatto occupavano quasi un terzo della mensa, da soli. Il resto degli studenti era diviso in gruppetti non meglio identificati.

Mentre la fila scorreva, allungai la mano un paio di volte per accettare le pietanze che venivano consegnate dal personale scolastico, ma il mio viso rimaneva perennemente girato in direzione dei tavoli.

«Dove ti sei cacciato, Alexander Case?» mormorai tra me, afferrando un bicchiere e incastrandolo sotto al distributore delle bevande.

Lo individuai all'ultimo. Proprio quando sentivo di aver perso ogni speranza, i miei occhi lo trovarono seduto mollemente a un tavolo, mentre si stropicciava la fronte e passava ripetutamente le dita tra i capelli, nel vano tentativo di ordinarli... O scompigliarli, dipendeva dai punti di vista. Un computer portatile era posizionato di fronte a lui e i resti di un hamburger mezzo mangiucchiato giacevano su un piatto abbandonato lì vicino. Per una volta, niente Philip Reese nei paraggi, niente ammiratori e nessuna ragazza pompon.

Rilasciai il nervosismo insieme a lungo sospiro, prima di incamminarmi verso quel lato della stanza debolmente illuminato dalle porte d'emergenza che davano sul giardino. L'odore pensante dei cibi che stavano servendo mi costrinse a respirare con la bocca, per evitare di accrescere quella sensazione di nausea che provavo. Ma mi rendevo conto, però, che probabilmente fosse solo una conseguenza della mia agitazione, più che delle scarse capacità della cuoca.

«Posso?» chiesi, fermandomi a un passo dal suo tavolo.

Quando Alex sollevò gli occhi dallo schermo non sembrò troppo sorpreso di trovarmi lì. Tuttavia, mi osservò per un lasso di tempo sufficientemente lungo da farmi capere che fosse vagamente perplesso della mia richiesta di sedermi con lui.

«Certo» confermò infine, indicando con il mento il posto di fronte a lui.

Mentre mi accomodavo sulla sedia, lo vidi richiudere lo schermo del computer, prima di tornare a concentrarsi su di me. Il modo in cui mi stava osservando indicava chiaramente che avesse capito che lo avessi cercato per un motivo in particolare. In fondo, io e Alex non eravamo amici e percepivo una sorta di curiosità per quella mia mossa.

«Devo farti vedere una cosa» dissi estraendo dalla borsa le fotografie che avevo stampato giorni prima. Non avrei girato intorno alla questione e sapevo che Alex avrebbe apprezzato quel comportamento. Per di più, quel gesto mi permise di sfuggire dal suo sguardo indagatore. «Prima però devi farmi una promessa...» ripresi tornando a concentrarmi su di lui.

A giudicare da come fremette l'angolo della sua bocca, Alex sembrava vagamente divertito dalle mie parole. «Che promessa?» chiese comunque, assecondandomi.

«Che se la mia teoria ti sembrerà folle, fingeremo che questa conversazione non sia mai avvenuta» borbottai, guardandomi attorno un po' a disagio. Non mi sembrava di vedere nessuna delle persone con cui abitudinariamente pranzavo. Sarebbe stato divertente, però, spiegare ad Alice perché li avevo abbandonati per conversare con Alexander Case.

Lui non rispose per diversi lunghi secondi, tanto che a un certo punto dovetti tornare a guardarlo. Lo trovai leggermente sporto verso di me, che mi osservava da sotto le ciglia scure con occhi guardinghi. Proprio quando ero in procinto di chiedergli cosa diavolo avesse da guardare, vidi le sue labbra arricciarsi in un mezzo sorriso. «Oh no, questo non posso garantirtelo, Reed» mi comunicò, tornando ad appoggiare la schiena alla sedia.

Rimasi di sasso. Credevo che la curiosità lo avrebbe spinto ad assecondami, ma evidentemente non era così. Bene, avevo comunque la mia risposta. «Okay» replicai, alzandomi e ostentando una convinzione che non provavo affatto. Potevo essere molte cose – insicura, un po' permalosa e scarsamente paziente - ma non ero ancora arrivata al punto in cui mi sarei messa in ridicolo per ottenere il suo supporto.

La luce che filtrava dalla porta di vetro accanto a noi disegnava complessi giochi di luci e di ombre, che mi distrassero per un istante, tanto che quasi non sentii la voce di Alex.

«Cassie».

Non avevo progettato di fermarmi. Anzi, ero piuttosto convinta che il mio cervello sapesse di dover continuare a camminare, indipendentemente da ciò che avrebbe detto, perché mai, in nessun caso, avrei voluto dargliela vinta. Eppure, il suono del mio nome, pronunciato da lui smosse qualcosa dentro di me perché era la prima volta che non mi chiamava "Reed".

Mi voltai nella sua direzione controvoglia, scocciata forse più per la mia stessa reazione remissiva che per le sue parole. In ogni caso, non ero interessata a nascondere quel fastidio, che sapevo essere dipinto nella linea dura delle mie labbra pressate tra loro.

Quando tornai a guardarlo però, notai che il ghignetto ironico sembrava sparito, soppiantato da un'espressione angelica che si amalgamava fin troppo bene con i suoi lineamenti dritti. Si era sporto sul tavolo e gli occhi lievemente allungati erano ammorbiditi da un ciuffo che tagliava orizzontalmente la tempia sinistra fino al sopracciglio, mentre le labbra piene erano contratte in un lieve broncio. Un'espressione quella, che peraltro mi lasciò totalmente frastornata perché ero fermamente convinta che la mimica facciale di Alex si riducesse a due sole opzioni: quella indifferente e quella da spaccone.

«Prometto di non rinfacciarti nulla, va bene?». Piegò il capo, rincarando a sufficienza quello sguardo da infimo traditore, da farmi tornare in me.

«Credi che basti fare così?» lo rimbeccai con tono vagamente astioso.

Certo che gli bastava fare così: era Alexander Case e qualsiasi porta per lui si apriva come se fosse il Mosè della Churchill Accademy.

Alex riprodusse una bassa risata, ma ebbe il buon gusto di sembrare vagamente imbarazzato per quel tentativo di manipolarmi. «A quanto pare no» replicò divertito, prima di indicare nuovamente la sedia dalla quale mi ero appena alzata. «Ma posso impegnarmi di più».

Avevo ancora sufficiente dignità per ignorare le sue parole, ma a quanto pare non abbastanza da lasciarlo a quel tavolo da solo. Forse se lo sarebbe meritato, riflettei mentre tornavo a riappoggiare tra noi due le fotografie che volevo mostrargli. Eppure, ero convinta che quel confronto servisse più a me, che a lui.

Gli feci cenno di prendere le immagini, evitando di parlare per non mostrare il mio tono malfermo. Ero convinta di aver preso la decisione migliore, ma mi ritrovai comunque a osservare la sua espressione con più apprensione di quanto non fossi disposta ad ammettere. Studiai la sua reazione, mentre esaminava la prima fotografia, quella che lui mi aveva fatto a tradimento, dove per la prima volta avevo notato il disegno sull'invito.

«Se la tua teoria è che sono un grande fotografo, sono d'accordo con te» commentò ironico, alternando lo sguardo dal mio viso all'immagine che stringeva tra le dita. Qualcosa nel modo in cui però i suoi occhi si fermarono immotivatamente nei miei mi dava l'idea che stesse studiando, esaminando e catalogando ogni mio gesto, esattamente come avevo fatto io.

Glissai sul suo commento e gli feci cenno di andare avanti, perché sapevo che sarebbe stata con la seconda immagine che avrebbe capito. E infatti, non appena ebbe girato il foglio, vidi i suoi occhi assottigliarsi, mentre scrutava l'ingrandimento dell'invito tra le sue mani.

Era servito un rapido lavoro di editing fotografico per ricavare il disegno centrale. Proprio quello che, senza alcun dubbio, riproduceva le fattezze del medaglione.

Alex si torturò per alcuni istanti l'angolo della bocca. «Quindi, la tua teoria è che il disegno sull'invito sia la stilizzazione di quella?» chiese infine, indicando la catenina che portavo al collo e che era blandamente nascosta tra le pieghe del maglione che indossavo. Sentire quelle parole pronunciate ad alta voce da un'altra persona mi diede la sensazione che la mia ipotesi fosse diventata in qualche modo ancora più reale, e forse ancora più assurda.

Scrollai le spalle, per togliermi quella sensazione di dosso. «Paranoico, eh?».

«Forse un po'» ammise con una buona dose di ragionevolezza, ma senza alcuna punta di giudizio. Alex non sembrava interessato a sputare sentenze o a deridermi. Al contrario, lo vidi scuotere la testa assorto «La somiglianza però è notevole».

Cosa potevo rispondere? Probabilmente niente, anche se ero contenta che mi stesse assecondando. C'era qualcosa però... Un dubbio che continuava ad attanagliarmi.

«Tu sai niente di questa storia?» chiesi tornando a fissarlo negli occhi.

"Quale storia?" mi chiese la mia stessa coscienza. La parte in cui mia madre ripiombava nella mia vita di punto in bianco, dopo quattordici anni, o l'assurda convinzione che quella coincidenza in qualche modo mi legasse a un ragazzo che conoscevo da due settimane?

Nonostante i miei stessi dubbi, però, non feci un passo indietro. Perché sapevo che Alex faceva parte di quella categoria di persone che, se vogliono dirti la verità, semplicemente lo fanno. Bisognava solo chiedere.

Lui non sembrò trovare così irragionevole la mia domanda. Ci rifletté per qualche istante, come se a sua volta avesse valutato quell'insieme di coincidenze come indizi di una situazione più grande.

«No, davvero». Lo vidi scuotere la testa con decisione, e nulla in quella reazione mi sembrò costruito o artefatto. «Però la festa è domani sera, potremmo andare a dare un'occhiata: dubito che i Parker si presentino a sorpresa, e dovremmo essere abbastanza anonimi visto che è in maschera» propose con fare pratico.

Mi mordicchiai il labbro inferiore, indecisa se confessare o meno. «Avevo già deciso di andarci, indipendentemente dal tuo parere» ammisi, sollevando le spalle in un gesto di scuse.

Credo che fosse stata la sua decisione di darmi ragione così facilmente, ad avermi sciolto la lingua. Qualcosa nel modo compiaciuto con il quale mi guardò però rese immediatamente chiaro che non si aspettasse nulla di diverso dalle mie parole.

«Non avevo dubbi» commentò piano, nascondendo la sagoma di un sorrisino con la lattina che aveva avvicinato al viso.

Con ogni probabilità mi stava apertamente dando della pazza, ma per qualche assurda ragione quelle sue parole non mi toccarono più di tanto. Alex doveva essere folle almeno quanto me, per assecondarmi in quel modo.

Tornai a concentrarmi sul piatto di purè che non avevo ancora toccato. Non importava che una parte di quell'agitazione si fosse sciolta, l'odore denso che emanava quel grumo giallo bastò per farmi accantonare qualsiasi tentativo di ingurgitare qualcosa, prima delle lezioni del pomeriggio.

Stavo valutando l'ipotesi di tornare direttamente in classe, quando la voce di Alex richiamò la mia attenzione.

«Posso farti una domanda?».

Il tono basso che aveva utilizzato mi costrinse ad alzare gli occhi dal piatto. Lo trovai a fissarmi con un'espressione concentrata, attenta, come se tentasse di capire una verità non ovvia.

«L'hai appena fatto, no?» risposi evasiva.

Non volevo totalmente sottrarmi a quel confronto, anche perché mi sembrava di giocare a un sottile braccio di ferro a chi cedeva prima. E io ero maledettamente competitiva. Allo stesso tempo però, non volevo dargli l'impressione che potesse riempirmi di domande.

Alex incassò il colpo, ignorando apertamente la mia frecciatina. «Perché questa storia ti interessa tanto?» continuò, intrecciando le dita di fronte a sé.

Sapevo cosa mi stesse chiedendo: cosa si nascondesse sotto a quel mio coinvolgimento. Perché non avessi semplicemente archiviato la questione.

Sentivo i suoi occhi azzurri trafiggermi, mentre cercavo una risposta sensata. O meglio, una risposta che potesse occultare la realtà dei fatti.

Mi interessava perché era la prima volta che mia madre mi contattava dopo quattordici anni. Mi interessava perché quel medaglione, per quanto potesse rappresentare solamente una coincidenza, aveva un legame con il suo, e ora forse anche con Danvers stessa. Mi interessava perché, per quanto avessi provato a ignorare quelle coincidenze, il mio istinto continuava a leggerli come segnali di qualcosa di più grande, nonostante il mio cervello mi ricordasse che potessero essere tutte fantasie.

«In realtà non lo so» mentii, mentre osservavo il ghiaccio nel mio bicchiere che collideva contro la cannuccia. «Credo che sia un insieme di motivi: le storie della fondazione di Danvers che mi ha raccontato Caleb, la strana coincidenza di aver ricevuto entrambi i medaglioni» feci un gesto distratto con la mano, come a voler sminuire l'importanza di quegli elementi. «E tu perché mi stai assecondando?».

Quella era la parte che più mi interessava: perché Alexander Case perdeva tempo con me e con un mucchio di leggende di più di quattrocento anni fa, quando sapevo per certo che la sua vita fosse già sufficientemente interessante? Lui non era come me, anzi, forse non avremmo potuto essere più diversi. Allora perché mi aiutava?

«Anni e anni di Sherlock Holmes, ovviamente» replicò, piegando il capo divertito.

Era... esasperante. Le sue risposte erano esasperanti. Quel dannatissimo mezzo sorriso era esasperante. Perché non poteva rispondere normalmente, per una volta?

"Esasperante" in realtà non era la parola giusta. Le sue risposte sembravano sempre le più innocue, quindi probabilmente erano quelle che nascondevano di più.

«Ciao ragazzi, che si dice?».

Fu come se improvvisamente avessero stappato una bottiglia di champagne. Se prima avevo avuto l'illusione che in quella stanza fossimo solamente io e Alex, all'improvviso fui catapultata di nuovo in mensa e le voci dei miei compagni di corso tornarono di colpo a riempire le mie orecchie, come bollicine agitate che prima non esistevano.

Caleb si sedette accanto a me, rubando alcune patatine dal piatto e facendo rimbalzare le pupille tra me e Alex. Mi ritrovai a sbattere le palpebre, recuperando un contatto con la realtà che prima non avevo. L'espressione calma e lievemente annoiata di Alex, invece, mi rese ben chiaro che lui non avesse avuto il mio stesso coinvolgimento nella nostra conversazione: aveva percepito distintamente l'arrivo di Caleb, segno che la sua attenzione era stata equamente distribuita su più fronti.

Era maledettamente bravo a non perdere mai il controllo, dovetti riconoscere. Per metterlo con le spalle al muro avrei dovuto impegnarmi molto di più.

Nonostante la tranquillità con la quale aveva accolto l'arrivo di Caleb, però, non sembrava intenzionato a rispondere. Il suo atteggiamento era impercettibilmente cambiato. Adesso non mi guardava più con occhi divertiti e la sua solita espressione canzonatoria, al contrario il suo volto era una maschera neutra e le sue braccia avevano assunto una posa rigida, incrociate al petto.

«Allora?» Caleb continuò a guardarci con un ottimismo per nulla scalfito dalla nostra reazione rallentata.

Il mio viso assunse tutte le gradazioni possibili del rosso. "Si dice che io e Alex ci comportiamo da paranoici e vogliamo imbucarci ad una festa con l'invito di altre persone, perché abbiamo notato una vaga somiglianza con un medaglione che le nostre madri possedevano".

Quello fu ciò che la mia mente riuscì a produrre nei pochi secondi che passarono tra la domanda di Caleb e la risposta di Alex: «Cassie ha bisogno di una mano con il compito di filosofia. A quanto pare è troppo puntigliosa e la Davis le sta facendo rifare il tema» rispose perfettamente a suo agio.

La sua risposta mi lasciò basita: non era assolutamente vero! Fui talmente sconcertata dalle sue parole, che mi affrettai a bere un sorso di acqua per dissimulare la mia sorpresa, mentre lui ridacchiava della mia reazione. Lo Stronzo mi metteva a disagio e si divertiva pure.

L'insoddisfazione di Caleb si riversò nell'occhiata indagatrice che mi rivolse, ma non ottenne nulla da me, perché mi costrinsi a concentrarmi per la prima volta sul piatto che avevo di fronte. Sapevo che fosse ingiusto. Stavo escludendo una delle poche persone che mi avevano accolta a Danvers. Non avevo la minima intenzione, però, di fare un secondo round con lui e con Alex.

Alla fine, con la coda dell'occhio, lo vidi tornare a rivolgere la sua attenzione proprio su quest'ultimo. «Beh, non potrai aiutarla oggi.» Il suo tono adesso sembrava apertamente seccato. «Il coach Russell ha bisogno di tutta la squadra.»

Fu strano percepire così distintamente il mutamento che quelle parole portarono con sé. Era come se una sottile vibrazione nell'aria ci avesse avvisato che la situazione vissuta fino a poco prima si fosse innegabilmente conclusa con quella frase.

All'improvviso, vidi i muscoli di Alex tendersi sotto la stoffa leggera della sua maglietta. Non sorrideva più. La mascella era contratta e lo sguardo si era fatto tagliente.

Non volò una parola per una serie infinita di secondi e, nell'incertezza di quel momento, mi ritrovai a chiedermi, se fossi solamente io a percepire quel lasso di tempo come il preludio di un cambiamento sottile, che stava acquisendo d'intensità e che mi sembrò degenerare nel momento stesso in cui la voce di Alex tornò a riempire i miei timpani.

«Lo sai» sillabò con tono freddo e rancoroso. Adesso il suo sguardo era fisso, seccato. «Ho chiuso con il football.»

Si alzò di colpo e la sedia stridette rumorosamente in un suono disarmonico, che attirò gli sguardi di un gruppetto di sportivi al tavolo accanto.

Non ci salutò e, a dire il vero, non disse proprio più nulla. Semplicemente, prese il suo zaino e si diresse verso l'uscita d'emergenza, facendo scattare nervosamente l'accendino che aveva estratto dalla tasca.

Era successo tutto talmente in fretta che rimasi imbambolata a guardare la sua schiena che si allontanava per diverso tempo.

Cosa diavolo era appena successo?

«Russell mi prenderà a calci, se non riuscirò a riportarlo in squadra».

Mi voltai a fatica verso Caleb, mentre cercavo di tornare reindirizzare la mia attenzione su di lui. Come era accaduto al Wenham Lake però, una parte del mio cervello sembrava essere rimasta aggrappata al ragazzo che aveva appena lasciato la stanza.

Non sapevo come facesse. A mantenere quel filo diretto e costante con la mia mente, intendo. Perché Alex non era una di quelle persone chiassose che attiravano l'attenzione di tutti per le maniere arroganti ed effervescenti. Tuttavia, con il suo timbro marcato e il suo atteggiamento indifferente sembrava avere un carisma innato che lo portava a insinuarsi nel cervello. Come un tarlo fisso, che rosicchiava tutti gli altri pensieri, continuando a calamitare l'attenzione solo su di sé.

E anche in quel momento, pur riconoscendo che avrei dovuto seguire il discorso di Caleb, faticavo a non ricondurre l'argomento su Alex.

«Perché non gioca?» mormorai, strappando gli occhi dalla porta a vetro, che si era appena richiusa alle sue spalle.

Non aveva senso. Da quando era tornato alla Churchill Accademy, ovunque andassi, tutti parlavano solamente di Alex e di suo fratello, e di come i due avessero riconquistato il trofeo di Stato dopo anni. La sua reazione eccessiva poi... C'era qualcosa che non andava; qualcosa che mi sfuggiva.

Tornai a guardare Caleb in tempo per vederlo alzare gli occhi al cielo. «È inaffidabile». Fu la sua risposta laconica.

Mi fissò con sollecitudine, quasi cercasse una conferma da parte mia, ma io alzai semplicemente le spalle. «Non lo conosco bene» risposi cautamente. Non so perché, ma non mi andava di giudicarlo così. Anzi, sorprendentemente, mi trovai infastidita da quel commento di Caleb. Le sue parole però mi lasciarono comunque una sensazione strana addosso.

È inaffidabile.

Non era esattamente un buon biglietto da visita, soprattutto considerando che mi sarei dovuta imbucare con lui ad una festa della quale non sapevamo niente.

«Adesso devo andare dal coach Russell». Caleb si sporse verso di me, mentre si alzava, e io istintivamente mi spostai un po' indietro. Era una reazione involontaria, ma fortunatamente lui non sembrò accorgersene. «Volevo informarti però che, se ti interessa, le cheerleader hanno i provini domani» continuò con un ghigno, studiandomi.

Lo fissai sarcastica. «Direi proprio di no».

La mia risposta non doveva averlo sorpreso troppo, perché stranamente la sua reazione si ridusse a una risata divertita. «Non ci contavo molto» ammise grattandosi il capo un po' imbarazzato, «ma Alice mi aveva pregato di provarci. Credo che ti abbia anche iscritta alle selezioni».

Continuai a restituire il suo sguardo scettica, mentre si allontanava di qualche passo. Di una cosa ero certa: Alice Evans poteva essere abituata a vincere in ogni situazione, ma non mi avrebbe mai convinta a mettermi in ridicolo di fronte a tutti.

***

ALEX

Ne avevo piene le palle.

Ne avevo piene le palle di Evans, del coach Russell, e soprattutto ne avevo piene le palle delle domande sul football.

Se esisteva un limite massimo di rabbia che una persona poteva contenere, sembrava che io non lo avessi ancora raggiunto.

Istintivamente, tirai un po' più giù la manica della maglietta, per coprire il tatuaggio che avevo sul braccio. Bella pensata marchiarmi di inchiostro permanente proprio quel punto, ma io e Christian a quindici anni eravamo due idioti... e lui in effetti lo era ancora. In ogni caso, non ero tenuto a dare spiegazioni a nessuno, ma chissà perché la gente non sembrava mai in grado di pensare agli affari propri e volevo andarmene velocemente da quel posto. Il parcheggio della Churchill Accademy pullulava infatti di gente che avrei voluto evitare e i metri che mi dividevano dalla mia macchina mi sembravano infiniti.

«Case, vieni con noi al Blackout, domani?» mi urlò quell'idiota di Philip, quando mi vide al parcheggio.

Okay, forse lui era una delle poche persone che non meritava di essere ignorato, perché era l'unico a coprirmi sempre le spalle, ma non ne potevo più della sua insistenza. Se non avessi dovuto mantenere quel segreto sarebbe stato tutto più semplice. Forse avrei potuto giocare ancora a football, o quantomeno non avrei avuto tutta la squadra con il fiato sul collo, perché nessuno di loro capiva la mia decisione.

«Sono impegnato.» Neanche morto sarei entrato di nuovo in quel posto.

«Hai un appuntamento, Case?» mi sfotté.

Dio, perché doveva essere così rompipalle? Continuai a camminare lungo il perimetro del parcheggio, schivando metà della squadra di basket, che stava facendo il giro dell'isolato.

«Allora, Case?» insistette, finendo per urlare per farsi sentire.

Non riposi e salii in macchina, facendo manovra velocemente mentre, il mio braccio sinistro stava ancora cercando la cintura di sicurezza. L'unico aspetto positivo di avere il coach dalla mia parte era di essere coperto in casi come questo. Stavo saltando di nuovo le lezioni, ma nessuno si sarebbe lamentato.

Dovevo scoprire una cosa però... verificare tutto il prima possibile, perché non appena era arrivato Caleb, quell'invito che avevo avuto di fronte agli occhi si era collegato a un ricordo diverso.

"Non so niente di questa storia".

Balle. Ecco in cosa ero bravo: mentire, portare le persone dalla mia parte, ottenere ciò che volevo. Era sempre stato così. Persino Christian, che era abituato a vincere sempre, non era bravo quanto me.

Avevo mentito davvero però?

Perché in fondo, il mio era solo un dubbio e non ero neppure certo di avere ragione. E a quel punto, sarebbe stata davvero una bugia o piuttosto un'omissione?

Quei pensieri, uniti alla consapevolezza che stessi cercando una giustificazione, mi irritavano tanto quanto le domande di Philip e dovetti concentrarmi sulla strada di fronte a me, per non superare tutti i limiti di velocità per il nervosismo.

Accostai velocemente all'ingresso di casa e, come al solito, feci scattare l'allarme. Dovevo calmarmi. Soprattutto prima di fare qualche casino come far intervenire per il nulla la polizia, proprio quando mio padre era fuori città. Inserii il codice di sicurezza due volte, prima che quel rumore assordante si spegnesse e m'infilai velocemente in salotto, mollando le chiavi sul tavolino dell'ingresso, prima di lanciarmi sulle scale.

"Non so niente di questa storia".

Maledizione, perché continuavo a pensarci? Era da tanto tempo che avevo smesso di ritenermi responsabile per quello che succedeva agli altri, e non mi mancava per niente quella sensazione.

Riversai la mia frustrazione sulla porta che scattò sotto il colpo di una spallata ben assestata. Mio padre era un coglione, se pensava che bastasse così poco per tenermi lontano dai documenti della società.

Mi mossi con calma, consapevole che sarebbe rimasto fuori città per affari fino alla settimana successiva. Quella era l'unica ragione per la quale ringraziavo che fosse sommerso di lavoro fino al collo.

Mi voltai verso i documenti sulla scrivania. Erano una pila di fogli ammucchiati a seconda delle sedi a cui facevano riferimento: San Francisco, New York... Danvers. Iniziai a farli scorrere, fregandomene se stavo mettendo a soqquadro bilanci e relazioni semestrali. Detestavo quella roba.

Una decina di minuti dopo lo trovai: l'invito per la festa in maschera.

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Napoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i...