IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

13 - Questione di prospettiva

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By Valeroot

Regola n. 1 del V.I.
Comprare sempre un gelato
in ogni nuova città.
(Otto anni, Lisbona)



«Buongiorno, Reed. Vai da qualche parte?».

Alex si staccò dallo stipite della porta. Il suo solito mezzo sorriso era velato da una smorfia di stanchezza, mentre la sua mano risaliva dal collo ai capelli, come se si fosse svegliato anche lui da poco.

Cercai nei suoi occhi le tracce dello scatto d'ira di qualche ora prima, ma non c'era nulla nel modo in cui mi stava guardando, a suggerirmi che avessimo condiviso quello strano momento sul patio degli Evans. Era rilassato, sfacciato. Esattamente la versione di sé che mi aveva propinato anche alla lezione di fisica, quando aveva voluto quasi controllarmi o verificare cosa pensassi, dopo avermi spinta ad andarmene da casa sua.

Lo osservai ancora per un istante, ma la tranquillità con la quale mi guardava non mi dava alcun appiglio per provare a riaprire quella conversazione, quindi riabbassai lo sguardo sulle cuffiette del telefono che stavo annodando per metterle in tasca. «Volevo andare a scattare qualche foto, vuoi venire?» proposi dubbiosa.

Alex mi faceva sentire sempre... incerta. E non solo perché il suo comportamento era una contraddizione unica. Riuscivo a superare il fatto che si comportasse sempre in maniera diversa. No, ciò che mi spiazzava era la costante sensazione di non capire mai per davvero la direzione dei suoi pensieri.

«Non vorrei mai averti sulla coscienza, Reed» replicò meditabondo, con l'ennesimo sorrisino divertito che tagliava il suo viso. E mentre io scuotevo la testa esasperata, prese una felpa e si diresse oltre il patio, facendomi cenno di seguirlo.

M'incamminai dietro di lui. La macchina fotografica a tracolla, la bottiglietta d'acqua mezza vuota incastrata nella tasca della felpa e il cellulare nell'elastico dei pantaloni. Neppure quando James mi aveva spedita per due mesi in Giordania ero conciata così male. Scesi velocemente i gradini che separavano la baita degli Evans dalla strada sterrata, per recuperare i metri con i quali Alex mi aveva già staccata.

Il manto di foglie umide attutiva i nostri passi e nonostante il cielo sembrasse ancora piuttosto scuro, dagli alberi iniziava a filtrare una tenue luce mattutina. Mi era sempre piaciuta quella parte della giornata. Ero un'inguaribile dormigliona e quindi raramente riuscivo a essere in piedi così presto, ma avevo sempre pensato che le prime ore dell'alba avessero un qualcosa di magico. Come se per qualche istante potessi fingere di essere l'unica persona esistente al mondo. Niente problemi, nessuna responsabilità.

«Dove stiamo andando?» chiesi osservando il sentiero di fronte a me.

Avevamo guidato di notte, quindi quella era la prima volta che osservavo la strada che avevamo percorso. Dallo sterrato principale, Alex si era subito staccato imboccando una viuzza intervallata da massi e ampie macchie di vegetazione, che mi davano l'impressione di poter nascondere animali o voragini di fango. Ci stavamo addentrando nel bosco ed era evidente che fossero mesi che nessuno batteva quel sentiero.

«In un posto». Fu la sua esaustiva risposta.

Mi costrinsi a reprimere ogni evidente segno di insoddisfazione, nonostante avessi avuto la tentazione di alzare gli occhi al cielo. Bene, anche oggi si era svegliato con una forte vena collaborativa nei miei confronti. «Che posto?» chiesi con fare accondiscendente, consapevole che mettermi a polemizzare con Alex non mi avrebbe portata da nessuna parte. Per qualche ragione, infatti, avevo la sensazione che più le mie risposte si facessero indispettite, più la cosa lo divertisse.

Lui, però, non doveva essere del mio stesso avviso. «Non ti spegni mai, Reed?» mi domandò, scimmiottando il tono estremamente tollerante che avevo utilizzato. L'ombra di un sorrisino aleggiò sul suo volto, mentre spostava un grosso ramo che intralciava il passaggio. «Non siamo più nello sgabuzzino della Churchill Accademy» m'informò.

Mi stava prendendo in giro, probabilmente risentito di tutte le domande della sera precedente. Eppure, non ero stata l'unica a giocare pesante. Non dimenticavo che Alex mi avesse chiesto per ben due volte cosa mi avesse portata a Danvers. E c'era una parte di me, non sapevo quanto sospettosa o quanto paranoica, che aveva l'impressione che quella domanda non fosse stata poi del tutto casuale. Che ci fosse qualcosa nel modo in cui si interessava alla mia vita, per poi sottrarsi quando io facevo lo stesso, che fosse in qualche modo studiato.

Mentre lui continuava a spostare quei detriti, finsi di dover riflettere sulla sua domanda. Impiegai quel tempo per osservare il paesaggio attorno a me, prima di appoggiarmi a un grosso masso. Nella luce tenue dell'alba avevo il continuo terrore di veder spuntare dalla vegetazione un qualche animale pronto a sbranarci. Non sapevo neppure cosa vivesse nei boschi del Massachusetts. Cinghiali, forse? Preferivo non pensarci.

«Se mi dici dove stiamo andando, credo di poter riuscire a rimanere zitta per almeno cinque minuti» conclusi con un pizzico di acidità.

Vidi la sua mano bloccarsi a mezz'aria, prima di lanciare lontano da noi un grosso ramo secco. «Tu? Zitta per più di dieci secondi?» mi provocò con espressione incredula. Poi sbatté tra loro le mani per pulirle dal terriccio «Nah, non credo proprio».

Avrei voluto dire di essere infastidita dalla sua capacità di ribattere sempre con il commento più seccante del mondo. Tuttavia, preferivo mille volte questa versione rilassata e ironica di Alex, rispetto a quella bipolare che avevo conosciuto la sera precedente.

Prima che potessi rispondere, però, mi ritrovai a seguire i movimenti del suo capo, mentre valutava con attenzione l'ambiente circostante. Il sentiero era uno soltanto, eppure avevo l'impressione che Alex stesse cercando qualcosa di diverso dal semplice percorso che si stagliava di fronte a noi.

«Ti porto in un posto dove andavo da piccolo» dichiarò distratto, osservando la radura.

«E intendi farlo andando alla cieca?» chiesi ironicamente, mentre lo osservavo concentrarsi su una parte particolarmente selvaggia del bosco.

Non avevo mai provato una sensazione come quella. Sentirmi affascinata dal posto che stavo visitando ma provare anche un'inspiegabile sensazione di disagio. Alle nostre spalle stavamo lasciando una radura fertile ma ariosa, per insinuarci in una massa frondosa e dal terreno scosceso. Era come se il Wenham Lake avesse due volti: uno da cartolina, amabile e rassicurante, mentre l'altro era più sconfinato... Quasi sinistro, dato che era impossibile vedere dove ci saremmo diretti. Forse la sera prima avrei dovuto specificare ad Alex che, pur viaggiando nei posti più remoti del mondo, non ero comunque una grande fan della natura incontaminata.

Lui non rispose e continuò a osservare un punto in cui la vegetazione era talmente fitta, che l'unico accenno di luce prendeva forma in rade chiazze che illuminavano il terreno, e che sembravano riconcorrersi su una stradina tutt'altro che rassicurante. E proprio mentre il mio cervello confermava che per nessuna ragione al mondo mi sarei addentrata in quella macchia inesplorata, lo vidi staccarsi dal sentiero principale, raggiungendo il limite del bosco.

Strabuzzai gli occhi. Era impazzito? Perché non c'era alcuna possibilità che lo seguissi in quel posto. A maggior ragione, se non ricordava bene la strada.

Alternai gli occhi dalla schiena del ragazzo di fronte a me al sentiero che continuava alla mia destra. Non riuscivo a capire quale delle due opzioni mi piacesse di meno. Anche la strada sterrata, infatti, era talmente malridotta da non risultare esattamente invitante.

«Preferisci continuare da sola?».

La voce di Alex richiamò la mia attenzione e vidi distintamente quanto quella situazione lo divertisse, nelle fossette che si erano formate ai lati delle sue labbra. Incrociò le mani dietro al collo e si limitò a guardarmi con un misto di ironia e soddisfazione, perché era consapevole che non sarei mai rimasta in quel posto da sola e che alla fine lo avrei seguito.

E infatti andò esattamente così. Mi ritrovai a colmare i metri che ci dividevano, consapevole di trovarmi nel mezzo del nulla e in un posto dove Google Maps probabilmente neppure funzionava. «Serve a qualcosa, dirti che non ho assolutamente fiducia nel tuo senso dell'orientamento?» gli chiesi raggiungendolo a mio malgrado nel bosco.

Per rispondere, Alex non dovette scomodare il suo solito cattivo umore. Scrollò semplicemente le spalle, come se quella constatazione non lo avesse colpito affatto.

«Ho viaggiato più di te, non preoccuparti del mio senso dell'orientamento» mi redarguì, tranquillo.

Il suo era stato un commento leggero, senza alcuna pretesa, e impiegai quindi un po' di tempo, per capire perché le mie orecchie avessero registrato qualcosa di strano in quelle parole. Realizzai poco dopo però, che non era la prima volta che Alex faceva riferimento ai miei viaggi con James. Era accaduto anche la sera prima, durante quel gioco alcolico a scuola. Il problema, però, era che non gli avevo raccontato proprio nulla sulla mia vita ed era quindi evidente che alla Churchill Accademy le notizie girassero in fretta.

«Prima conoscevi il mio nome, adesso sai dei miei viaggi...» dissi iniziando a tenere il conto di quanto Alex sapesse su di me. Mi fermai, scoccandogli un'occhiata fintamente preoccupata. «Devo spaventarmi?».

Lo vidi nascondere l'ombra di un sorrisino scuotendo piano la testa. «Allora dimmi qualcosa che non so» mi sfidò.

Quello era un gioco pericoloso. Non c'era più l'alcol della festa a proteggermi o l'oscurità di uno stanzino malamente illuminato. Eravamo solo noi due, alla piena luce del giorno, senza che ci fosse un diversivo con il quale nascondermi.

Non risposi e tornai a voltarmi verso il sentiero, riprendendo a camminare. Ero malferma e mi muovevo cautamente a causa delle radici degli alberi che sbarravano il percorso. Alex dietro di me ridacchiò piano, ma non era per la mia goffaggine. Aveva lanciato il guanto di sfida sapendo che non lo avrei accettato. Forse fu per quello che decisi di pronunciare le successive parole.

«Regola numero uno del Vero Itinerante: in ogni nuova città, si deve sempre comprare un gelato per Cassie» recitai a memoria, prima di tornare a guardarlo. Articolai un sorrisino di scuse. «Avevo otto quando l'ho inventata, e mio padre mi stava trascinando per musei da ore» precisai con una punta di imbarazzo.

Alex riprodusse una bassa risata, tornando a camminare accanto a me. «Vero itinerante?» replicò scuotendo piano la testa. Credo che si aspettasse qualcosa di più elaborato, ma dopotutto ero solo una bambina quando le avevo ideate.

«Io e James ci chiamiamo così e abbiamo un'infinità di queste regole» risposi sollevando le spalle. Non ero sicura di cosa avesse spinto il mio cervello a decidere di raccontare la storia della mia vita ad Alexander Case. Credo che nel profondo stessi cercando di dimostrargli qualcosa. Forse, non tanto che non avrei ceduto a quel braccio di ferro che continuava dalla sera precedente, quanto che potessimo avere una conversazione normale, senza scontri di vario genere.

Tuttavia, in qualche modo quella mia confessione doveva averlo incuriosito. Lo vidi alzare lo sguardo, come a volersi assicurare che lo stessi seguendo, mentre mi faceva cenno di proseguire più a sud. «La seconda regola?» chiese poi. La sua voce questa volta aveva un'inflessione un po' più dolce, rispetto a prima. Non c'era più quell'ironia secca che a volte mi infastidiva. Sembrava semplicemente... interessato.

Lo guardai di sottecchi, sollevando la mia bottiglietta d'acqua a mo' di brindisi. «Conosci le regole: ora tocca a te» lo ripresi. «Puoi sempre fingere che sia tequila».

Il sentiero tortuoso ci costringeva a procedere spalla contro spalla in sempre più occasioni. Forse più vicini di quanto sarebbe concesso a due persone che hanno passato la metà del tempo insieme a punzecchiarsi e l'altra metà a ignorarsi. Ad Alex però non sembrava dar fastidio, e non faceva niente né per aumentare quella distanza, né per ridurla ulteriormente.

«Se non ricordo male, ho già risposto a un sacco di domande» replicò, lanciandomi un'occhiata sorniona. E per qualche strana ragione ebbi la sensazione che di lì a poco tutta la sicurezza provata fino a quel momento si sarebbe dissolta. «Hai voluto sapere perché fossi stato cacciato dall'ultima scuola, cosa pensassi di te, delle mie conversazioni con Philip...» Mi provocò con tono divertito. «Che altro vuoi sapere, Reed?».

Adesso la sua inflessione era più... controllata. Il suo atteggiamento sembrava quasi di paziente attesa, come se stesse attendendo di valutare la mia risposta.

Avrei voluto chiedergli se anche lui avesse più pensato ai medaglioni, ma era una domanda che sentivo aleggiare scomoda tra di noi fin dalla sera precedente. «Quello che vuoi» ribattei piano.

«Quello che voglio?» ripeté, osservandomi da sotto le ciglia scure. Sembrava sbalordito.

Gli feci cenno di sì con il mento, continuando ad alternare il mio sguardo dal sentiero sconnesso al suo viso. Una scintilla di sorpresa animò i suoi tratti e una sorta di istinto sepolto dentro di me mi fece passare in rassegna le mie ultime parole. Perché avevo la sensazione di essere appena stata fregata?

«Bene, allora credo che non dirò proprio nulla» si limitò a rispondere.

«Giochi sporco» sentenziai. Sapevo che avrebbe trovato il modo per tirarsi indietro e in realtà non ne ero neppure del tutto sorpresa. Anzi, arrivai persino ad ammettere a me stessa che sarei stata un tantino delusa, se avesse semplicemente risposto.

Alex ridacchiò ancora, facendomi cenno con il mento di proseguire. «Mai detto il contrario».

Eravamo arrivati ai piedi di una piccola parete rocciosa, colma di nicchie e ciuffi d'erba verde che spuntavano dalle numerose fessure.

La sua testa scattò nella mia direzione. «Soffri di vertigini?» mi chiese circospetto, come se quel pensiero non lo avesse neanche sfiorato prima.

Lo guardai con un'espressione scettica. «Se continui con tutte queste domande, dovrò smetterla di rispondere anche io» lo presi in giro, prima di tastare la compattezza della roccia con le mani. James mi aveva fatta arrampicare in posti ben peggiori, quando ci serviva una foto di Petra dall'alto per giornale dell'università.

Credo che Alex avesse considerato l'ipotesi che mi sarei tirata indietro, ma quando vide i miei piedi staccarsi dal sentiero, un basso sospiro lasciò le sue labbra. «Come non detto» ribatté, alzando un po' la voce affinché arrivasse a me. Percepivo il suo sguardo bucarmi la schiena, e mai come in quel momento mi sentii consapevole di ogni singolo movimento che stavo compiendo. «Cerca di non scivolare» aggiunse.

Ignorai il suo avvertimento e mi appiattii contro la parete, cercando gli appigli migliori. Issarsi su quel masso doveva essere piuttosto facile perché non era più alto di due o tre metri, ma prestai il doppio dell'attenzione che avrei impiegato di solito. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era finire per terra con la risata di Alexander Case ad accompagnare la mia caduta.

«E tu cerca di non finire nel lago» replicai con uno sbuffo dovuto alla fatica. La roccia friabile si dissolveva in granelli appuntiti sotto ai miei palmi. Probabilmente, avrei avuto più di un paio di abrasioni alla fine della giornata. «Anzi, no, ti prego: sporgiti un po'» mi corressi.

A qualche metro di distanza, sentii Alex ridere ancora, ma la sua risposta si perse tra gli ululati del vento che s'insinuava tra le rocce. Eravamo più esposti a quell'altezza, eppure stranamente non avevo paura. Feci leva sulle braccia, dandomi un'ultima spinta per issarmi sulla cima e improvvisamente una luce aranciata e morbida mi riempì gli occhi, portandomi a sbattere ripetutamente le palpebre.

Sotto di noi, il Wenham Lake sembrava infinito. Le mie iridi finirono per percorrere avidamente le insenature del fiume che separava con decisione la radura pianeggiante dalla distesa boschiva, unendosi al lago lievemente increspato dalla brezza mattutina. Sempre quella dualità: la campagna tranquilla che si trasformava in pendii rocciosi e ampie macchie color oliva. Sembravano più tetre e scure, nonostante la luce tenue dell'alba tendesse a regalare sfumature pastello a tutta la valle. A quel punto, afferrare la macchina fotografica fu un puro istinto. Per diversi minuti mi estraniai completamente dal mondo, esaminando luce e angolazione, dimenticandomi addirittura di essere lì con Alex.

Fu un'improvvisa raffica di vento a farmi tornare alla realtà. I capelli mulinarono sul mio viso, coprendo la lente e costringendomi a staccarmi dall'obiettivo. Tentai di pinzarli dietro alle orecchie, mentre mi guardavo attorno in cerca della sua figura, ma non impiegai molto a trovarlo. Alex era sceso diversi metri più in basso e si trovava seduto su una piccola insenatura a strapiombo sull'acqua. Rispetto al solito però, mi trovai a osservarlo con occhi diversi. Lo vidi passarsi una mano tra i capelli, strofinando i palmi alla base del collo, mentre teneva il capo chino, pensieroso. Aveva sempre avuto quell'aria tormentata?

Fu proprio in quel momento, che lui decise di alzare lo sguardo nella mia direzione. Non so bene cosa mi aspettassi di vedere, ma certamente fu strano scorgere la sua aria tesa che si tramutava in quel sorrisino da gradasso che aveva sempre.

Non sapevo se mi sentissi più a disagio per aver visto quel cambiamento repentino sul suo viso, o per il fatto di essere stata palesemente beccata a fissarlo. Nel dubbio, afferrai nuovamente la macchina fotografica, sventolandola con ampi gesti.

«Stai fermo» gli ordinai, ostentando una finta professionalità che non avevo affatto.

Dovetti alzare un po' la voce per farmi sentire, perché il fiume si riversava nel lago con una piccola cascata rumorosa, proprio ai piedi della radura scelta da Alex. In realtà, avevo l'estrema convinzione che si sarebbe rifiutato di seguire le mie indicazioni, ma dopo avermi lanciato un'occhiata ammonitrice, continuò a rimanere esattamente nella stessa posizione di prima, infischiandosene dell'obiettivo puntato nella sua direzione.

Un po' dovevo ammettere che invidiavo il modo in cui sembrava disinteressarsi da tutto ciò che lo circondava. Sempre distante, sempre imperscrutabile. Ma in quel momento mi chiesi quanto Alex fosse effettivamente così e quanto cercasse solo di mostrarsi tale.

Archiviai quei pensieri, concentrandomi unicamente sulla fotografia e dopo una serie di scatti tutto sommato accettabili, finii per raggiungerlo, scendendo cautamente lungo la discesa. Si era leggermente spostato dallo strapiombo, il che la diceva lunga sulla fiducia nei miei confronti.

«Come sono venute le foto?» chiese, sdraiandosi sull'erba, mentre io prendevo posto accanto a lui.

Sentii le foglie umide solleticare le mie caviglie, mentre mi sporgevo per passargli la macchina fotografica. Non ero una di quelle persone che custodivano gelosamente i propri scatti. Avrei dovuto considerarli quantomeno decenti per iniziare a farmi qualche problema, e io non avevo affatto certe pretese. Alex fece per prendere il dispositivo dalle mie mani, quando lo vidi bloccarsi ed estrarre il cellulare dalla tasca con un moto d'impazienza.

«Dimmi» ordinò in tono seccato.

Il modo in cui aveva piegato il capo aveva fatto scivolare una serie di ciuffi morbidi sulla sua fronte, adombrando i suoi occhi già scuriti dal fastidio che traspariva dalla sua voce. Mi sembrava che fossimo tornati alla sera precedente, ma questa volta non avrei insistito. Meritavamo entrambi una tregua. Alex dalle mie domande, io dal suo comportamento altalenante.

Lo sentii emettere ancora un sibilo d'assenso, sempre con quell'aria scocciata e infastidita che mi fece immediatamente empatizzare con il suo interlocutore. Neppure in caso di imminente pericolo mi sarei mai azzardata di contattare per telefono Alexander Case.

Continuai a giocherellare con le goccioline depositate sui fili d'erba, mentre Alex si allontanava, probabilmente per evitare che ascoltassi la sua conversazione. Avrei voluto dirgli che dopo il nostro scambio sul patio degli Evans non avevo la benché minima intenzione di immischiarmi nuovamente nei suoi affari. Nonostante non fossi particolarmente brava a interagire con le persone, infatti, una cosa su Alex l'avevo capita: non tollerava di dover dare spiegazioni. Alla fine, però, mi limitai a far vagare lo sguardo lungo il profilo delle colline che circondavano il Wenham Lake.

C'era ancora una fitta foschia che copriva la zona nord, proprio quella che avevamo evitato perché Alex mi aveva condotta sul sentiero opposto. In quel punto, gli alberi erano più secchi e mi ricordavano alla lontana le colonne tortili che si usavano nel milleseicento, perché i rami erano talmente attorcigliati tra loro da sembrare in una piena lotta di supremazia. Non avevo mai visto un paesaggio simile e forse neppure esisteva, perché era come se una parte del Wenham Lake vivesse in una dimensione a parte, slegata dal resto del mondo.

La pressione di una mano sulla mia spalla mi fece sobbalzare. Girai la testa di scatto, impattando con due iridi azzurre lievemente assottigliate. Alex era tornato sui suoi passi e si era fermato nevoso alle mie spalle. «Scusa» mormorò corrucciato. Il display del suo cellulare era premuto contro la sua maglietta, indicandomi chiaramente che la telefonata di prima non fosse ancora finita. «Hai un foglio o qualcosa per scrivere?» mi chiese.

Anche se il tono con il quale aveva parlato sembrava calmo, il suo sguardo era velato di un'urgenza che mi portò a rispondere frettolosamente, facendogli cenno di attendere mentre rovistavo nella borsa. Recuperai la mia agenda e strappai un angolo della pagina finale, mentre lui si era sporto verso di me per far scivolare la penna incastrata nell'elastico centrale.

Rimasi immobile, mentre il suo viso si accostava al mio e la sua guancia mi sfiorava la tempia. Talmente immobile che per un istante mi sembrò quasi di trattenere il respiro. Non ero molto abituata a quello: al fatto che la gente si avvicinasse troppo a me. Ero figlia unica e avevo vissuto per la maggior parte del tempo solo con James. Il problema quindi non era Alex. Credo che avrei avuto la medesima reazione se al suo posto ci fosse stato Caleb o Alice. So solo che ripresi a respirare unicamente quando sentii il suo corpo spostarsi dal mio

«Okay, Christian» lo sentii dire, sempre con quel suo solito atteggiamento autoritario. La sua voce si allontanò di nuovo. «Ci sono, ripetimi l'indirizzo.»

Nella foga di aiutarlo, avevo lasciato cadere sulla mia coscia destra una serie di buste e biglietti, che prima si trovavano incastrate nell'agenda. Sapevo cosa fossero: il mio piccolo segreto. Nascondevo i moduli di rinuncia delle mie vecchie scuole, invece di rispedirli indietro. Non aveva senso, ne ero perfettamente consapevole, perché i trasferimenti venivano comunque perfezionati online. Eppure c'era qualcosa nel carattere definitivo di quei moduli, che mi impediva di firmarli. Era come se una parte di me non fosse mai pronta a chiudere i capitoli precedenti. Come se lasciassi sempre uno spiraglio, nel quale potessi infilarmi qualora ne avessi avuto bisogno: le chiavi di un armadietto, il numero di telefono di un vicino di casa o, come in quel caso, i documenti di iscrizione incompleti.

La cosa assurda era che raramente avevo bisogno davvero di quelle vie di fuga: non vivevamo mai due volte nello stesso posto e di solito non mi lasciavo indietro qualcosa di sufficientemente importante da farmi decidere di tornare. Eppure era una sorta di tradizione che mi faceva sentire... più serena. Era come se la mia testa fosse in grado di creare un problema e risolverlo allo stesso tempo, e tutto alla fine si equilibrava sotto le effigi di un controllo tirannico.

C'era una busta, però, in tutti quei fogli familiari che ero solita nascondere... Una busta, che non avevo mai visto prima di quel momento. Soffiai una ciocca di capelli che danzava di fronte ai miei occhi, prima di raccoglierla.

Era un cartoncino nero, elegante. Sicuramente nulla che aveva a che fare con il mio piano scolastico, perché aveva una scritta raffinata in corsivo, proprio al centro di un complicato reticolo di linee d'oro.

"Il Ballo del Sole"

Ripetei quelle parole mentalmente, cercando di associarle a qualcosa di più famigliare. Che James mi avesse parlato di qualche evento dell'università di Boston? Onestamente ne dubitavo. Mio padre era stato parecchio su di giri negli ultimi giorni e aveva citato per lo più musei e installazioni artistiche che avrebbe visitato. Di solito, era piuttosto preciso sugli eventi mondani ai quali avrei dovuto partecipare, perché sapeva fin troppo bene che avrei cercato una qualsiasi scusa per evitarli. Quindi no, avevo la sensazione che quel biglietto avesse poco a che fare con mio padre o con il suo lavoro. Ma chi avrebbe potuto invitarmi a una festa, visto che non conoscevo nessuno?

Provai a rileggere quelle poche informazioni riportate sul lato opposto dell'invito. Oltre la data, l'indirizzo e l'indicazione che fosse un ballo in maschera, non c'era altro che potesse fornirmi un'indicazione più precisa. Lo rigirai per un po' tra le mani, cercando altri dettagli sfuggiti all'occhiata poco attenta che gli avevo rivolto inizialmente, tuttavia un improvviso movimento alla mia destra mi costrinse a fermarmi.

Alex fece un profondo sospiro, tornando a sedersi accanto a me. Lasciò ricadere le braccia sulle ginocchia, teso. E ancora una volta mi chiesi perché m'importasse così tanto di conoscere la motivazione dietro a quei suoi cambi d'umore continui.

Lo guardai di sottecchi, aspettando che da un momento all'altro parlasse o quantomeno desse un segno di vita, ma lui sembrava completamente perso nei suoi pensieri. Di nuovo, avevo la sensazione che fosse in quel prato con me solo fisicamente, perché la sua mente sembrava distante miglia intere.

Credevo di essere una persona coscienziosa, una di quelle che quando sbagliano non si piangono troppo addosso ma riescono a trarre un insegnamento da ogni singola situazione. Anzi, dovevo essere così, perché la vita con James mi aveva insegnato a reagire sempre prontamente, facendo tesoro di ogni esperienza. Invece, mi risultò evidente che su determinati aspetti non imparassi mai dai miei errori. E ne ebbi la prova definitiva quando sentii una domanda lasciare le mie labbra, ancora prima che me ne rendessi conto.

«Tutto bene?» chiesi stringendo piano il cartoncino tra le mani ed evitando accuratamente di guardarlo.

No, non era vero: avevo lanciato una piccola occhiata nella sua direzione, ma solamente quando ero stata sicura di non poter essere beccata.

Alex era disteso tra i fili d'erba, con gli occhi chiusi, i capelli disordinati che gli coprivano la fronte e le mani appoggiate sotto la testa. Il mio sguardo scese dalle spalle fasciate nella maglietta bianca fino alle braccia, dove notai una scritta tatuata che faceva capolino da sotto la manica. Era coperta per la maggior parte dal tessuto, ma nonostante ciò i miei occhi si concentrarono su quella piccola porzione di pelle per cercare di cogliere il significato di quelle parole nascoste.

Non ci riuscii, perché quella grafia elegante si perdeva tra le ombre della maglietta e la mia attenzione si rispostò sul suo viso, giusto in tempo per vedere le sue labbra tendersi in una smorfia. Non sembrava intenzionato a rispondere, ma il modo in cui i suoi occhi si arpionarono ai miei con la freddezza di due cristalli di ghiaccio, mi diede l'assoluta certezza che una delle sue classiche risposte taglienti fosse lì, in attesa di colpirmi ancora una volta.

Strinsi un po' le palpebre, preparandomi ad ascoltare la sua replica che però sorprendentemente non arrivò. Non so se si fosse accorto della mia reazione e non so se fosse stata proprio quella a fargli scegliere di cambiare approccio, ma vidi il suo sguardo perdere d'intensità, mentre i muscoli delle braccia si rilassavano lentamente.

«Tutto okay» rispose con voce roca, anche se il suo tono continuava a suggerire l'esatto contrario.

"Cazzate", avrei voluto dire, ma non aggiunsi altro e annuii impercettibilmente, passando le dita tra l'erba per domare il senso di agitazione che mi pervadeva ogni volta che sentivo di aver superato un qualche limite immaginario.

«Cos'hai, lì?» mi chiese poi, indicando le buste.

Sicuramente era solo un tentativo di cambiare argomento, ma lo assecondai girando il cartoncino per fargli vedere l'invito. Stavo per chiedergli se lui conoscesse quello strano evento in maschera, quando all'improvviso un flash mi accecò, e una miriade di piccole stelline coprì la mia visuale, disorientandomi.

«Ti odio, Case» farfugliai confusa, sbattendo ripetutamente le palpebre.

Lo sentii ridacchiare e stendersi nuovamente accanto a me, mentre io attendevo pazientemente di recuperare la vista. «Sono riuscito a farti stare zitta per due secondi, un record» si rallegrò ironico, allungando la mano per sfilami il cartoncino. «Comunque mi sembra di aver già visto questo invito».

Attesi ancora qualche secondo, prima di sporgermi oltre la sua spalla per indicargli l'indirizzo. «È dei Parker» gli feci notare, «mio padre probabilmente non si è accorto, quando mi ha consegnato le lettere».

Non ero sicura che Alex mi stesse ascoltando però. Fece ruotare un po' il cartoncino tra le mani, leggendo con la mia stessa attenzione le parole impresse tra tutti quei ghirigori decorativi. Il suo viso era assorto come se stesse cercando di identificare un qualche dettaglio, ma a me continuava a sembrare un semplice invito forse un po' troppo elegante per Danvers.

«Beh, non credo che avranno da ridire, se vorrai imbucarti all'evento» mormorò infine scrollando le spalle e restituendomi l'invito, «sono dall'altra parte del mondo, in questo momento».

Certo, era proprio un'ottima idea, mi ritrovai a pensare ironica. Soprattutto, visto che ero l'ultima persona al mondo che si sarebbe imbucata di sua spontanea volontà a una festa. La mia vocina interiore però non sembrava d'accordo con il mio scetticismo, e mi stava già ricordando che in due sole settimane, a causa della mia eccessiva mondanità, ero finita in una piscina e in uno sgabuzzino con lui.

Un lampo sopra le nostre teste fece scattare il mio viso verso l'alto, proprio mentre il rimbombo di un tuono lacerava l'aria.

«È sempre così, qua» commentò Alex. Quando mi voltai nella sua direzione, notai che anche lui stava osservando le nubi gonfie e minacciose che si muovevano veloci nella nostra direzione. Si erano avvicinate a sufficienza da limare le punte degli alberi sulla collina, rendendo quell'altura ancora più grigia e sinistra di prima. «Andiamo, dai, prima di rimanere bloccati qui» riprese.

Annuii distratta, anche se il mio sguardo non riusciva a staccarsi da quei viticci plumbei che sembravano turbinare come fumo in una boccia di cristallo.

***

Avevo sempre avuto un limite in termini di socialità. Forse perché ero poco abituata a stare in mezzo alle persone, forse perché a causa della mia infanzia ero priva di quella capacità di adattarmi per troppo tempo agli altri. Sta di fatto, che dopo qualche ora nella baita degli Evans a chiacchierare e a scherzare insieme, avevo iniziato a sentirmi quasi sopraffatta a quella situazione.

Non era colpa dei ragazzi. Erano sempre stati tutti tremendamente gentili con me, ma avevano anche continuato a tartassarmi di domande sui miei viaggi, forse perché ormai ero a Danvers da diverse settimane e sentivano di non dover più limitare la loro curiosità.

Quella era la ragione per la quale alla fine avevo deciso di lanciarmi sulla prima macchina di ritorno verso il centro, quella composta da Alex e Matt. Non so perché avevo avuto l'impressione che anche quei due non si sopportassero, forse era a causa del gelo che c'era con Caleb. Tuttavia avevo intuito che si conoscessero da tempo, perché Alex aveva fatto una strana battuta su delle ripetizioni che sicuramente non erano rivolte a lui, visto che i voti sul suo curriculum erano perfetti. In ogni caso, si erano praticamente alleati nel prendermi in giro per l'intero viaggio di ritorno, stemperando un po' quel clima teso che avevo avvertito alla fine della giornata.

«Ciao papà» esclamai appoggiando il mio zaino dentro casa. Avevo le scarpe completamente imbrattate di terra e mi accucciai all'ingresso per toglierle, mentre sollevavo lo sguardo per individuare James.

Lo trovai spalmato sul divano, con le caviglie incrociate e un sorriso dolce in volto, come ogni volta che mi sforzavo di chiamarlo così, abbandonando il suo nome di battesimo.

«Com'è andata polpetta?» mi chiese facendo le leva sui gomiti per drizzare la schiena. Aveva la classica espressione distrutta di chi aveva appena terminato una maratona cinematografica di qualche serie tv. Conoscendolo, avrei scommesso che la sua scelta fosse ricaduta su Star Trek. «Non ti aspettavo a casa così presto» continuò cercando di nascondere uno sbadiglio.

«Ho fatto un mucchio di foto, ora le scarico e te le faccio vedere» risposi sedendomi accanto a lui e prendendo il portatile dal tavolino.

James mi guardò con rammarico, come se fosse indicibilmente dispiaciuto nel dover intaccare il mio entusiasmo e realizzai che probabilmente, a causa del mio buonumore, dovevo aver tralasciato qualche riferimento tra le sue parole.

«In realtà, non ti aspettavo a casa così presto» ripeté per la seconda volta. E a quel punto, non potei più ignorare quella sfumatura di dispiacere che prima avevo confuso con stupore. «Avevo programmato il pomeriggio con Lauren, ma se ti fa piacere sto a casa» aggiunse un po' nervosamente.

Affondai i denti nel labbro inferiore per non scoppiare a ridere. Sembrava quasi che mi stesse chiedendo il permesso di vedere quella che, ormai ne ero certa, fosse la donna che frequentava. Rabbrividii al pensiero che mio padre potesse avere una vita sentimentale più entusiasmante della mia.

Attaccai la macchina fotografica al computer, cercando di ignorare quel pensiero e tutte le sue sconvenienti implicazioni. «Papà» mi affrettai a dire, per impormi di chiudere velocemente quell'argomento, «quale figlia ti direbbe di stare a casa?».

Venni ricompensata con un buffetto sui capelli, prima di vederlo alzarsi e scomparire verso il guardaroba. Era così poco da mio padre, quel gesto. Sarebbe stato interessante capire perché si facesse così tanti problemi a lasciarmi da sola, ora che ero adulta, quando invece da piccola era l'esatto contrario. Sembrava che avesse sviluppato l'istinto paterno quando ormai non era più necessario, e mi trovai a pensare che ogni cosa in James sembrava funzionare al contrario. Non si era mai arrabbiato per un brutto voto o per qualche mio disastro, ma era capace di lamentarsi senza sosta se decidevo di poltrire a casa per l'intero weekend, magari rifiutando qualche sua bizzarra proposta atletica.

Aspettai pazientemente che il portatile scaricasse le foto, mentre mio padre dall'altra stanza non la piantava di farmi domande sul tempo. Non avevo alcuna intenzione di interessarmi alla sua uscita e risposi a monosillabi per tutta la durata della conversazione.

«Come sto, tesoro?» mi chiese qualche minuto dopo, scendendo dalle scale. Registrai distrattamente l'orrenda cravatta grigia che aveva indossato, ma non riuscii a fare alcuna battuta sul suo abbigliamento, perché il mio cervello era completamente assorbito da un altro elemento.

I miei occhi erano incatenati allo schermo di fronte a me, lievemente sgranati per lo stupore. Era uno scherzo vero? Mi guardai attorno, aspettandomi di veder saltare fuori le telecamere di qualche programma televisivo. Nella stanza però, c'era solo James e non aveva affatto l'aria di uno che avesse appena organizzato lo scherzo del secolo.

Tornai a concentrarmi sulla fotografia che avevo aperto con una strana sensazione di disagio che aveva rimestato il mio stomaco. Dovevo calmarmi. Feci un profondo respiro, zoomando sulla foto che Alex mi aveva fatto a tradimento. Avevo il viso rilassato, e le labbra leggermente arricciate perché sicuramente mi stavo lamentando per il suo gesto. Nella mano destra stringevo l'invito dei Parker, ed era stato proprio quel dettaglio a catturare la mia attenzione. Da vicino, non lo avevo notato, ma tutti quei ghirigori decorativi sull'invito, visti da lontano, andavano a formare una... Una sorta d'immagine: un ovale con un triangolo al centro.

Proprio come la collana che portavo in quel momento.

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