IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

5 - La Churchill Accademy (II)

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By Valeroot

Fu Alice a recuperarmi dopo la lezione di chimica. Ancora seduta al bancone intonso, mi trovò persa tra i miei pensieri mentre fissavo le provette trasparenti e disegnavo distrattamente cubetti tridimensionali con una matita a mina morbida. Non sapevo esattamente perché lo facessi. Perché inzaccherassi il mio banco di disegni senza senso, ogni volta che il mio cervello voleva scollegarsi per qualche istante. Tuttavia il disegno così come la fotografia mi aveva sempre rilassata. 

«Webb ti ha distrutta» decretò, appoggiando i gomiti sul tavolo e incastrando il mento sul palmo. Era il ritratto della salute: guance imporporate di divertimento, lisce ciocche nere incastrate dietro le orecchie e una linea meravigliosamente dritta di eyeliner a contornare i suoi occhi chiari. Niente occhiaie, niente postumi della sbornia. Tra le due, sembravo io ad aver bevuto come una spugna.

Mi affrettai a cancellare quegli obbrobri, e ricacciai il quaderno nella borsa, prima che potesse vedere gli appunti che mi aveva lasciato quel ragazzo. Aveva senso che non volessi parlarle dell'incontro della sera precedente? Forse no, ma assecondai il mio istinto, decidendo di eliminare quei pensieri dalla mia mente.

«In realtà, sono più sconvolta dal fatto che il corridoio dei laboratori abbia dei cuccioli di pterodattilo appesi al soffitto» mormorai simulando un finto brivido.

La Churchill Accademy accostava finiture di grande pregio, come la scalinata in marmo e i soffitti alti, con dettagli tipici di un parco divertimenti, esattamente come quelle riproduzioni di dinosauri, che ci osservavano minacciose mentre uscivamo dall'aula.

Alice scacciò le mie parole con un cenno noncurante della mano. «Non fare la guastafeste» mi riprese, appoggiandosi accanto a un cucciolo di T-Rex. «Io li trovo adorabili.»

Ovvio che li trovasse adorabili: era americana. Dovetti trattenere un sorrisino, perché era un classico commento di mio padre, quando si ritrovava a frequentare i musei statunitensi. Solo il Met di New York riusciva a soddisfare la sua vena critica, tutto il resto per James era solo fuffa.

Stavo ancora scuotendo la testa con fare esasperato, quando la fiumana di studenti del secondo piano ci spinse in direzione della mensa. Finimmo per rimanere incolonnate dietro alla squadra di basket, mentre Alice continuava a blaterale di tutti i corsi extrascolastici ai quali si sarebbe voluta iscrivere. Lo avrei trovato un argomento interessante, se non fosse che non ero assolutamente intenzionata a farmi coinvolgere da quegli eventi di massa.

Il perché era piuttosto semplice: non sapevo per quanto tempo mio padre avrebbe deciso di rimanere negli Stati Uniti. Poteva essere una settimana, così come un paio di mesi. L'ultima volta aveva lasciato Los Angeles dopo poco più di tre mesi e onestamente non mi aspettavo nulla di diverso neppure questa volta.

Una zaffata di odore speziato e pesante mi riportò alla realtà, costringendomi a mettere a fuoco i tavoli pieni di studenti e la lenta processione che avanzava verso il lato corto della stanza. Ogni volta che entravo in mensa, avevo la sensazione di essere stata catapultata nella stazione di comando di una navicella spaziale. Tutto era bianco: dai tavoli, alle divise candide del personale. L'unica nota che graffiava quella patina di asettica perfezione era la risata gutturale della cuoca, continuamente impegnata in una lotta senza possibilità di vittoria con i gusti difficili degli studenti.

«Qualsiasi cosa succeda, ricordati di non prendere il merluzzo.» Alice si stava riempiendo il vassoio, snocciolando la lunga serie di consigli, o meglio di avvertimenti, che mi ripeteva dal primo giorno in cui avevo messo piede in quella scuola.

«Niente pesce, sì allo sformato di patate. In generale, cerca di evitare tutto quello che prima poteva respirare, okay?». Rassicurante, davvero, ma avrei evitato di farglielo notare.

«Alice, non siamo in uno show di sopravvivenza estrema.» Caleb ci affiancò mentre terminavamo di comporre il nostro vassoio. Una sorta di tortino di verdure per Alice, e un quantitativo indecente di tranci di pizza per noi due. Mollò una lattina di coca-cola sul mio vassoio e ne presa una per se stesso.

«Non disturbatevi a chiamarmi, quando vomiterete anche il pranzo di Natale» ribatté lei con tono fintamente allegro.

«A proposito di chiamate...» Caleb afferrò per un braccio la cugina, mentre con la testa mi faceva segno di seguirli all'esterno, dove una serie di tavoli erano appoggiati al limite tra la serra e l'immensa distesa boschiva che si estendeva per le contee di Danvers e Peabody.

James l'aveva scelta per quello. La città, intendo. L'aveva scelta per la vicinanza con l'università di Boston e per la possibilità di assaporare l'autentica vita di campagna. Non avevo avuto il coraggio di fargli notare che in realtà ci fosse ben poco di autentico o di contadino nella cittadina che aveva scelto. Era un covo di ricconi che ostentavano l'ultimo modello di automobile nel parcheggio sul retro. Ma a lui piaceva, e a me bastava questo.

Prendemmo posto a un tavolo da picnic, mentre Caleb scalpitava per recuperare la nostra attenzione. «Cosa è successo ieri sera?» chiese inchiodando la cugina con uno sguardo carico di tensione.

Non riuscivo a capire se gli piacesse o meno quel ruolo. Quello di cugino iperprotettivo, che tentava di imbrigliare l'esuberanza di Alice. Perché per quanto si rendesse sempre scontroso quando lei esagerava, una parte di me aveva la sensazione che si sentisse importante in quella veste.

Lei come al solito reagì con la maturità che ci si sarebbe aspettata da una ragazza di diciassette anni: finse di non sentirlo, e rivolse il viso nella mia direzione. «Sbaglio o tu eri un po' diversa, quando siamo andate via?» mi domandò, portando alla bocca una forchettata di pasticcio.

Il ricordo dei miei vestiti zuppi mi faceva ancora rabbrividire. Anzi, avevo la sensazione che quel freddo mi si fosse incastrato dentro, nonostante la doccia calda e il pigiama in pile, decisamente eccessivo per quel mese dell'anno. Ma la punta del naso ghiacciato e le dita intorpidite non mentivano. Le coprii con le maniche del maglione che indossavo, scaldandole tra loro e pensando al contempo a una scusa da refilarle.

«È stata una serata movimentata» risposi distratta. E il tuffo in piscina era stato solo l'inizio.

La mia risposta evasiva finì per non essere notata, perché Caleb tentò prontamente di rientrare nel nostro campo visivo, muovendo le mani di fronte ai nostri occhi. Evidentemente non sopportava di essere stato tagliato fuori dalla conversazione, ma non appena riuscì ad attirare la nostra attenzione, sulla soglia della mensa comparvero gli ultimi membri del nostro gruppo. Due ragazzi talmente agli antipodi della catena alimentare della Churchill Accademy, che ancora non avevo capito cosa avessero in comune.

Matt, il nerd dai fitti riccioli e moderni occhiali neri, che mi era stato presentato come promessa dell'olimpo di Yale nonché signore oscuro dei Sith, e il famoso Dean, il ragazzone biondo che guidava la squadra difensiva di football e che aveva quella strana situazione indefinita con Alice.

Non sapevo esattamente come quei due si sopportassero, perché sulla carta avevano in comune quanto un amish e una stripper. Eppure dove non arrivava il temperamento focoso e adrenalinico di Dean, c'era sempre la pazienza imperturbabile di Matt a rimetterlo in riga. E anche quel giorno arrivarono al nostro tavolo esattamente allo stesso modo: Dean con un ematoma sul viso e le labbra imbronciate, mentre Matt gli reggeva lo zaino e scuoteva la testa esasperato.

«Ho bisogno di un'infermiera!» Dean si lanciò su Alice, sfoderando il suo cipiglio da cucciolo di labrador un po' troppo alto. «Curami tu, meraviglia delle meraviglie!».

Soffocai una risatina contro la lattina che stavo bevendo, mentre la mia amica veniva inglobata nelle braccia possenti di Dean. Tuttavia, sapevo che quell'idillio sarebbe durato ben poco, perché quel suo comportamento di solito finiva per scatenare non solo l'ira di Alice, ma anche quella di Caleb. Proprio come stava accadendo in quel momento.

«Levati da mia cugina» lo ammonì, tirandogli uno scappellotto sul capo. «Ha già dei gusti abbastanza di merda, senza dover aggiungere anche te» borbottò.

Questo era quello che accadeva ogni volta che il clan al completo si riuniva: volavano insulti, volavano minacce, e l'argomento principale per il quale ci eravamo riuniti rimaneva in disparte almeno per una ventina di minuti.

Nessuno chiese a Dean cosa avesse combinato e per quello mi sentii libera di lasciar vagare il mio sguardo sul giardino, mentre loro continuavano a battibeccare. Gli studenti che passeggiavano accanto a noi non sembravano avere alcuna fretta di raggiungere i tavoli ancora liberi. Si fermavano spesso a chiacchierare tra loro, ma i gruppetti erano ben delineati, proprio come lo sarebbero stati in una scuola pubblica. Il tavolo del club di matematica, quello dei tutor dell'ultimo anno, quello dei giocatori di football...

Fu allora che lo vidi. Lo sconosciuto era appoggiato mollemente a una panchina, circondato da un gruppetto di persone, senza però dar l'impressione di voler davvero partecipare al loro discorso. Ogni tanto le sue labbra si piegavano in un mezzo sorriso a rispondere alle esortazioni insistenti dei suoi amici, ma per il resto sembrava solo vagamente annoiato.

Con le mani grandi e nervose, stava tormentando una lattina e il mio sguardo finì per risalire dal polso largo al suo viso, dove le guance scavate tagliavano i suoi tratti proporzionati. Ciuffi di capelli ricadevano sui suoi occhi velandoli, ma nonostante ciò, per un attimo ebbi comunque l'impressione di sentire il suo sguardo sulla mia pelle.

«Chi è quello?» mormorai istintivamente a Caleb, mentre giocherellavo con la mia cannuccia.

Forse con le mie parole lo avevo interrotto, o forse non aveva capito di chi stessi parlando, perché non rispose subito. Il silenzio che seguì la mia domanda mi costrinse a voltarmi nella sua direzione. Caleb mi osservava con gli occhi increspati di fastidio, come ogni volta che Alice lo faceva dannare. Era la prima volta, però, che rivolgeva quello sguardo a me.

«È Alexander Case» mormorò contrariato. «Strano che tu non lo conosca...» sbuffò.

C'era uno scetticismo nella sua voce che mi portò ad aggrottare la fronte. Non avevo la benché minima idea di cosa stesse alludendo, ma non mi stavo di certo immaginando l'astio che trasudava dalle sue parole. «Perché dici così?» chiesi.

Caleb alzò le spalle in un gesto che voleva denotare indifferenza, ma che tuttavia non riusciva a nascondere il suo fastidio. «Eri alla sua festa, ieri sera.»

Sbarrai gli occhi e per poco non rovesciai la lattina che stringevo tra le mani. «Come scusa?» replicai.

Immaginavo di aver capito male. Anzi, sicuramente dovevo aver capito male, perché se quella fosse stata la sua festa... Significava anche che la cucina che avevo vandalizzato fosse la sua!

In un istante, l'immagine di quella distesa di fazzoletti si materializzò nella mia testa, ma no, non era neppure quello a sconvolgermi così tanto, quanto il fatto di essere stata beccata a imbucarmi ad una festa alla quale non ero neppure stata invitata. Per di più, mi aveva fatto credere che non conoscesse i proprietari di quel posto... Dio, mi aveva persino fatto credere di aver rubato una felpa!

Sentii le mie guance scaldarsi e il mio sguardo abbassarsi in fretta e furia. Mai come in quel momento fui grata che l'attenzione di Caleb fosse tornata su Dean, visto che cercava nuovamente di abbracciare una più che contraria Alice. Sapevo di dovermi inserire in quel discorso e dare man forte alla mia amica – qualsiasi cosa credesse che Dean avesse combinato – ma proprio non riuscivo a togliermi dalla testa quell'imbarazzo.

Secondo James la gravità di una bugia è direttamente proporzionale al livello di fiducia che viene tradito: più questa è bassa, più la menzogna è trascurabile. Cercai di ricordarmene, mentre mi imponevo di rimanere seduta a quel tavolo e di recuperare la calma. Ma anche quando tornai a spizzicare qualche patatina dal piatto di Matt, anche quando risi di una pessima battuta di Dean, il mio sguardo continuava a scartare verso destra. Verso quella figura rilassata sulla panchina a pochi metri da me.

Successe tutto velocemente. Proprio mentre ricordavo a me stessa che mi stavo comportando come la peggiore delle stalker, forse allertato da uno dei suoi amici, lo sconosciuto sollevò lo sguardo. Lo concentrò su di me e il sorrisino divertito che vidi spuntare sulle sue labbra mi fece intuire che gli fosse venuta una mezza idea, sul perché lo osservassi come se volessi tirargli la lattina di cola in testa. 

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