IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

1 - La festa (I)

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By Valeroot

Quattro mesi prima

Le luci stroboscopiche si rincorrevano sulla mia pelle fino a perdersi tra le trame del mio maglioncino azzurro. Mio... Mio non lo era affatto, a dire la verità. Un nuovo regalo da quanto ero arrivata a Danvers, giusto per uniformarmi a quella strana cittadina. A quel pensiero, sollevai gli occhi al cielo, mentre sistemavo il cellulare ancora incastrato tra l'orecchio e la spalla.

Cinque, sei, sette squilli... A malapena riuscivo a sentirli con tutto quel rumore, ed ecco che subito scattava la segreteria telefonica. Perché nessuno rispondeva mai, quando ero io ad aver bisogno di loro? Caleb risultava irraggiungibile, Dean uguale. Non sapevo neppure perché ne fossi stupita: da quando avevo messo piede a Danvers, questa si stava rivelando la serata più lunga e assurda a cui avessi partecipato.

«Alice, mi ricordi perché siamo in questo posto?» urlai all'orecchio della ragazza accanto a me.

L'interno della casa era un'esplosione di corpi che si muovevano in sincronia scivolando tra di loro, seguendo il ritmo martellante di quella canzone, sparata a tutto volume dalle casse appoggiate sul tavolo di cristallo. Era un bene che il posto in cui si teneva la festa fosse immerso in campi di granoturco, altrimenti i vicini sarebbero già arrivati scortati da un plotone di forze dell'ordine.

Alice avvolse il suo braccio attorno al mio collo, facendomi scivolare lungo la spalla il maglioncino che mi aveva prestato. "Ti vesti sempre di nero" era stata la sua accusa e, prima che potessi rendermene conto, mi aveva infilato una specie di top che lasciava scoperti parecchi lembi di pelle. Sarebbe stato magnifico, se a indossarlo fosse stata lei. Io invece sembravo nuotare dentro quel tessuto finemente ricamato, che scorreva liberamente sulle mie clavicole e, per l'ennesima volta, mi ritrovai a risistemarmelo addosso, riponendo al suo interno con cura la collana che portavo.

«Siamo qui per dimostrare a Dean che non ho più otto anni» biascicò, portando alle labbra l'ennesimo shot di tequila.

Aspettai a malapena che finisse di berlo, prima di strapparle il bicchierino dalle mani. Sapevo che altrimenti lo avrebbe semplicemente lasciato cadere, proprio come aveva fatto con gli ultimi tre. Aveva superato il limite da un pezzo. Era evidente dal modo in cui il suo caschetto nero era arruffato e dalla spessa linea di eyeliner, ormai sbavata verso la guancia. Tuttavia, non sapevo esattamente come comportarmi: la conoscevo da un mese scarso e, nonostante fosse praticamente la mia unica amica in quel paesino agricolo del Massachusetts, non ero abbastanza in confidenza da ordinarle di smetterla.

«Dean sa che non hai otto anni» le spiegai pazientemente. O almeno, generalmente ne dimostrava qualcuno di più.

Alice a volte era solo... Solo un po' troppo impulsiva. Non pensava spesso alle conseguenze delle sue azioni, forse perché generalmente non si ritrovava a doverle gestire. Tuttavia, non era completamente irresponsabile. Aveva solo una parlantina un po' troppo esuberante, che spesso la cacciava nei guai. In ogni caso, mai, mai in quei trenta giorni, da quando mi ero trasferita lì, aveva perso il controllo in quel modo.

Avevo quindi il sospetto che fosse successo qualcosa quel pomeriggio... Qualcosa che coinvolgeva proprio quel ragazzo, con il quale si tormentava da quando avevano quattordici anni: Dean. E sapevo anche che quell'ipotesi non fosse poi tanto campata per aria, dal momento che l'avevo trovata fuori dalla mia porta, scalpitando per imbucarsi all'ennesima festa.

«Sai, ho un'ottima idea» ripresi sorreggendola per il gomito, «andiamo a cercarlo e spieghiamoglielo insieme.»

Ero una pessima amica. Pessima, davvero. Avevo avuto la mezza idea di mentirle sull'orario, fingendo che fossero le quattro di notte e non appena l'una, in modo da poterla riportare a casa e chiudere quella serata tremenda. Ma Alice aveva un voluminoso orologio digitale al polso destro, che pareva l'insegna luminosa di un casinò. Non sarei mai riuscita ad imbrogliarla.

Avevo quindi provato a chiamare Caleb, suo cugino, che si comportava sempre da fratello maggiore un po' troppo protettivo, ma il telefono aveva suonato a vuoto per un numero infinito di secondi, prima che la segreteria telefonica recidesse ogni mia flebile speranza. Quindi adesso mi trovavo da sola, a casa di uno sconosciuto, infilata tra i corpi sudaticci dei miei compagni di corso, senza sapere esattamente cosa fare.

«No, Cassie, vai tu.» Mi spinse contro il divano, rischiando di farmi capitolare sopra un gruppo di ragazzi che giocavano a lanciarsi dei piccoli vasi orientali. Sentii lo spirito da archeologo di James, mio padre, guardarli tutti con occhio accusatorio, minacciando una ritorsione immediata. «Io non voglio più Dean, voglio solo bere» mugugnò, strusciando la sua guancia sulla mia spalla. Dio, era completamente andata!

Mi massaggiai le tempie con le dita, mentre cercavo di farmi venire un'idea grandiosa per trascinarla via da quella festa, ma lei sembrava ignorare i miei tentativi di comportarmi in maniera responsabile, perché proprio in quel momento si ributtò nella mischia, iniziando a ballare contro la schiena di alcune ragazze intente a cantare un pezzo degli Oasis.

Un piccolo sospiro lasciò le mie labbra, mentre cercavo di recuperare la ragione grazie a quel momentaneo attimo di tregua. Dovevo farmi venire qualche idea, anche il mio lato lagnoso stava già facendo il conto di tutte le sfortune di quella serata.

In primis, non avevo una macchina. Alice era passata a prendermi con la sua, e aveva iniziato a sbronzarsi dieci secondi dopo essere entrati in quella villa. E ciò ci portava al secondo punto: non sapevo dove fossi. Avevo una mezza idea che avessimo raggiunto la zona nord di Danvers, perché avevo visto scorrere di fronte ai miei occhi una moltitudine di case in stile coloniale, con piscine a sfioro degne di una rivista d'arredamento. E quella in cui mi trovavo non era da meno.

Le pareti erano costellate di opere d'arte, che risaltavano grazie ai tappeti persiani chiari, e quel salone dove si trovavano tre divani disposti a ferro di cavallo era più vasto di un campo da basket. Era tutto così elegante ed essenziale, che quel design ricercato finiva per stordirmi, soprattutto se lo paragonavo con la casa dove abitavo io al momento. Feci una smorfia ricordandomi quella sorta di castello abbandonato a tre piani, che i Parker ci avevano affittato. L'ennesima fregatura in cui mio padre si era lasciato incastrare, a causa del suo animo avventuroso e al contempo totalmente ingenuo e inaffidabile.

«Sei la figlia di un diplomatico.»

Una voce limpida mi riscosse dai miei pensieri. Sollevai lo sguardo, mettendo a fuoco la figura di quel ragazzo alto e un po' allampanato, che mi tormentava da quando avevo messo piede a Danvers. Non sapevo perché Philip Reese si ostinasse a tentare di indovinare cosa mi avesse spinta a trasferirmi in quel paesino sperduto, e onestamente non sapevo neppure perché gli interessasse così tanto. Non eravamo neppure amici! Tuttavia, finché non mi avesse chiesto chiaro e tondo che lavoro facesse mio padre, avrei continuato a divertirmi ascoltando le sue teorie strampalate.

«Direi proprio di no» replicai, accostandomi al suo orecchio. Quella musica rimbombava talmente forte da azzerare il resto dei suoni, così prepotente che la sentivo pulsare persino sottopelle. «Sei completamente fuori strada.»

«Principato europeo» tentò, alzando un po' la voce. Poi mi scoccò un'occhiata sorniona. «Si sente che non sei americana.»

Scossi ancora la testa. Avrei voluto dirgli che effettivamente ero inglese, dato che l'unica casa di nostra proprietà si trovava a Londra, ma non era neppure quella la realtà. James e mia madre avevano vissuto lì, prima che lei decidesse di scappare perché eravamo evidentemente indegni delle sue attenzioni. Quindi no, solo Elizabeth e James potevano vantare quel titolo. Io in realtà non appartenevo proprio a niente.

Vidi scorrere nella mia mente le immagini di quei luoghi dimenticati da Dio, che avevo chiamato "casa" per brevi momenti durante la mia infanzia, ma mi affrettai a scacciare quei pensieri. Quello non era affatto il momento adatto per una passeggiata sul viale dei ricordi.

Non volevo che Philip leggesse la malinconia nel mio sguardo, quindi mi affrettai a gettare una veloce occhiata in mezzo alla folla per cercare Alice. Era ancora impegnata a ballare, come se quella fosse l'ultima serata della sua vita, e sembrava essersi fatta delle nuove amiche in quei due minuti scarsi nei quali non l'avevo controllata.

Rasserenata dall'idea che Miss Anima della Festa avesse trovato un modo per sfogare le energie, tornai a concentrarmi su Philip. «Niente sangue blu, ma ti stai avvicinando alla mia nazionalità» lo stuzzicai.

«Cassandra Reed, mi hai stufato.»

Il tono secco con il quale aveva pronunciato il mio nome mi fece aggrottare la fronte, ma non ebbi il tempo di interrogarmi troppo sulle sue intenzioni, perché in un paio di rapidi passi lo vidi divorare la distanza tra di noi. Non capii perché Philip si fosse abbassato, finché non sentii la sua spalla scontrarsi con il mio addome, mozzandomi il respiro, ma a quel punto i miei piedi si erano già staccati dal pavimento e i miei capelli mossi erano finiti per scorrere sulle mie guance.

Strabuzzai gli occhi. «Philip, cosa diavolo stai facendo?» proruppi con voce strozzata.

Il mio mondo si era ribaltato. Adesso i miei occhi non erano più all'altezza dei volti degli altri ragazzi della festa. Tutto quello che vedevo erano le caviglie spigolose che sfilavano di fronte a me, il tappeto dal design romboidale che scorreva sotto al mio viso e che venne poi rimpiazzato da fitte tavole in legno scuro, intervallate da ciuffi d'erba brillante.

Dove diavolo mi stava portando?

La musica della festa sembrava lievemente attutita, e un refolo d'aria ghiacciata mi confermò che ci trovavamo all'esterno. Philip continuava la sua marcia, mentre la brezza della notte s'infilava negli spacchi del maglione, costellando la mia pelle di brividi. E mentre io ancora mi lagnavo, tirando pugni contro la sua schiena e ordinandogli di mettermi giù, all'improvviso mi sentii cadere.

Un vuoto, secco e inaspettato, che cristallizzò il mio cuore e il mio respiro in un istante. C'erano solamente tutte quelle percezioni: l'aria che faceva librare i miei capelli, l'attesa, e poi... E poi l'acqua.

La mia caduta si arrestò nell'esatto istante in cui m'infransi sullo specchio d'acqua, azzerando ogni percezione. Philip mi aveva davvero gettata nella piscina di quella casa!

Mi si mozzò il respiro e la mia testa si svuotò, mentre andavo a fondo. I miei piedi non riuscirono neppure a sfiorare la pavimentazione di quella piscina: era troppo profonda, o forse io ero troppo bassa, sicuramente anche quella era una valida ipotesi. Rimasi per una manciata di secondi in un limbo statico, con i capelli che fluttuavano accanto a me, accarezzandomi le guance e il maglione largo che mi solleticava le spalle.

Era assurdo: l'acqua era calda e piacevole e per un istante una sorta di sorriso si formò sulle mie labbra. Avrei ucciso Philip, oh certo che lo avrei fatto, ma era quasi... quasi gradevole! La collana di mia madre finì però per frustarmi il collo e quell'elemento innescò nuovamente la catena di pensieri nel mio cervello. Aria. Avevo bisogno di aria.

Mi diedi una spinta verso l'alto, muovendo le gambe e indirizzandomi verso le luci ondeggianti che intravedevo sopra di me. Fu a quel punto che capii di aver fatto male i conti, perché c'era un unico, piccolo elemento, che la mia brillante analisi aveva tralasciato. E me ne resi conto non appena l'acqua scivolò veloce dal mio viso, facendomi riaffiorare da quella bolla di calore che aveva ovattato il mondo esterno: il vento.

Quando riemersi, l'aria furente di una qualsiasi serata di fine settembre nel freddo Massachusetts, mi frustò il viso, appiccicandomi ciocche di capelli gocciolanti ovunque e tagliandomi il respiro. Dio, si gelava!

Ebbi appena il tempo di vedere la nuvoletta di condensa lasciata dalle mie labbra che Philip riemerse accanto a me. «Era da una vita che sognavo di farlo» dichiarò, scrollando il capo come se fosse un labrador rinsecchito e flagellando l'acqua attorno a noi di piccole goccioline che incresparono la superficie.

Se ne infischiava del freddo, così come se ne fregava se la sua espressione entusiasta non trovasse corrispondenza nel mio viso tirato. Allungò il pugno nella mia direzione in cerca di supporto, tuttavia l'unica cosa che trovò fu la mia mano, che premette sulla sua testa per cacciarlo nuovamente sott'acqua.

«Vai a farti ancora una nuotata, Philip» proferii a denti stretti. Era il massimo della vendetta che mi sarei potuta permettere. Avevo freddo e il maglione oscillava pesante attorno a me, tirandomi verso il basso. Dovevo uscire da quella piscina, dovevo trovare Alice e dovevo costringerla a tornare a casa, per evitare una polmonite alla seconda settimana di lezioni. "Dovevo" un po' troppe cose, per una che fino a qualche minuto prima sembrava incapace persino di gestire un'amica un po' ubriaca.

Stizzita dai miei pensieri, mi trascinai contro la scaletta, cercando il coraggio di esporre all'aria fredda il mio corpo, avvolto nei vestiti zuppi. Dovetti contare fino a cinque, prima di convincermi che non sarei potuta rimanere in quella piscina fino al giorno successivo. Anche perché una vocina dentro di me mi ricordò che ero praticamente un'imbucata a quella festa.

Mi issai sul bordo, ignorando le occhiate curiose di alcuni ragazzi appoggiati al vicino pingpong. Le mie mani tremavano, mentre sferzate di aria fredda facevano volteggiare i miei capelli, e i brividi si riconcorrevano fin sopra ai miei gomiti, fin sopra le mie labbra. Dio, faceva così freddo! Così freddo, che per un istante pensai che mi sarei congelata sul posto.

Mi lasciai scivolare addosso i commenti di disapprovazione del club delle barbie, intente a sorseggiare i loro margarita sul patio vicino e non mi voltai neppure quando sentii le urla di Philip inseguirmi: non avevo tempo. Avrei cercato qualcosa con cui asciugarmi e avrei ritrovato Alice. Sì, quello mi sembrava un ottimo piano.

Provai a strizzare il maglione mentre percorrevo il perimetro esterno di quella villa squadrata. Era composta per la maggior parte da lunghe vetrate che si aprivano sul giardino, quindi supponevo che sarebbe stato facile rientrare in casa. Niente di più lontano dalla verità.

La festa era ormai allo sbando, il soggiorno era pieno di ragazzi ululanti e a nessuno sembrava interessare della sottoscritta, bagnata fradicia, che tentava di costruirsi un varco tra la postazione del deejay e quelli intenti a giocare a strip-poker. Nessuno si spostava, nessuno sembrava temere affatto per i propri vestiti. Erano tutti troppo ubriachi, per rendersi conto di ciò che accadeva attorno a loro.

Rinunciai a entrare da quella portafinestra e continuai a camminare, in cerca di un posto un po' meno affollato. Proseguii lungo il perimetro della casa, evidenziato da un porticato in legno chiaro, chiedendomi al contempo a che genere di evento mi fossi imbucata.

Forse era un compleanno o forse una di quelle feste tipicamente americane come lo sbarco dei padri pellegrini, o la festa per il raccolto. Non importava se fossi per metà americana: capivo molto poco di quelle tradizioni, il che non era poi così strano considerando che a malapena conoscevo quelle britanniche! Generalmente, io e James ci ritenevamo fortunati quando riuscivamo a tornare a Londra per passare il Natale con mia zia, tutto il resto era un extra che non consideravamo affatto.

La mia corsa si arrestò a una porta finestra laterale, spalancata in direzione del giardino sul retro. Sembrava che qualcuno l'avesse utilizzata per fiondarsi fuori da quella casa, ma guardandomi intorno vedevo solo cespugli ben sagomati e alberi di mele in lontananza. Nessuno in vista, e solo allora mi resi conto che dovevo aver camminato a lungo, per essere arrivata in un punto in cui la musica era solo un flebile suono in lontananza, così come gli schiamazzi della festa risultavano ovattati e irregolari.

Sapevo che non avrei dovuto essere lì. Era la mia buona educazione la prima a ricordarmi di quel dettaglio, eppure mi ritrovai comunque a sbirciare all'interno, scontrandomi con la cucina più ordinata e attrezzata che avessi mai visto.

I ripiani di granito bianco risplendevano brillanti sotto una fila di luci fioche, che dovevano essere state lasciate accese giusto per cortesia, e per un attimo la mia coscienza si domandò se fosse corretto che mettessi i miei piedi inzaccherati d'acqua su quel pavimento intonso. Ma avevo troppo freddo e tremavo troppo violentemente per sforzarmi di trovare un compromesso con la mia moralità.

Fu per quello che azzardai un passo all'interno, continuando a osservarmi attorno, come se potesse spuntare fuori qualcuno di punto in bianco a dirmi quanto fosse sbagliato quel mio comportamento. Senza il vento a farmi tremare, percepii distintamente la pesantezza del maglione che faceva colare rivoli di acqua ghiacciata sulla mia pancia e sulle gambe nude, e per quello cercai di raggiungere il più velocemente possibile il rotolo di carta assorbente accanto ai fornelli.

Staccai diversi quadratini, iniziando ad asciugarmi il viso e le braccia. Ero un disastro. I miei capelli rossicci erano appiccicati ovunque: attorno alle spalle, contro le tempie, aggrovigliati sul collo. Un ciuffo si era persino incaponito ad accarezzarmi le labbra. Cercai di asciugare tutto, sistemandomi per quanto possibile, ma avrei avuto bisogno di un miracolo per non bagnare interamente la macchina di Alice. Certo, sempre se nel frattempo lei non fosse collassata da qualche parte. A quel pensiero, i miei movimenti si fecero più veloci. Dovevo darmi una mossa.

A un certo punto, però, un rumore alle mi spalle bloccò ogni mio movimento e una voce bassa e divertita impattò le mie orecchie.

«Serve una mano?». 

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