GLENVION

By alefalzani

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Cosa si cela nel sangue di Patrich Martens? Quale oscuro segreto custodisce la sua memoria? La misteriosa mor... More

Parte 1
Parte 2
Parte 3
Parte 4
Parte 5
Parte 7
Parte 8
Parte 9
Parte 10
Parte 11
Parte 12 ( FINALE)

Parte 6

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By alefalzani


Capitolo 16

«Johan mi ha mandato un messaggio. . . dice. . . dice di tenerlo d'occhio perché è arrivato.» disse Tim disteso a terra con la testa rivolta verso l'amico che tentava a stento di sollevarsi.

«Ok, ma dovrai andare tu, io non mi reggo in piedi.»

«Credo di non avere scelta, sei tu quello messo peggio.» Tim si rivolse all'amico in tono canzonatorio «Riposati, sicuramente prima di domani non si farà nulla. Ci vorrà qualche ora prima di riunirci tutti, almeno credo.»

Emmanuel non rispose, aveva smesso di tentare di sollevarsi, si era girato sulla schiena e giaceva a terra supino, sfinito, il respiro affannato; stava recuperando le forze. Malgrado fosse in ottima forma fisica quelle azioni comportavano un enorme dispendio di energia e lo stremavano profondamente, il suo corpo era percorso da brividi di freddo, di tanto in tanto percepiva però del calore che si irradiava dal petto. Tim si era alzato con grande fatica, dapprima si era portato sul divano, dopo qualche secondo aveva raggiunto il bagno. Rimosse il sangue sulla bocca, si sciacquò il viso e passò in cucina. Estrasse una pillola dalla tasca e la ingoiò accompagnandola con una bibita presa dal frigo. Quindi fece un cenno con la testa all'amico e si chiuse la porta alle spalle. Scese le scale faticosamente, aveva un forte giramento di testa e gli fischiavano le orecchie, si tenne saldamente al corrimano fino all'ultimo scalino. Era uscito sorridendo, non voleva preoccupare Emmanuel più del dovuto. Non aveva lontanamente immaginato di ridursi in quelle condizioni. Sostò davanti al portone osservando la cattedrale di fronte, se il ragazzo fosse passato di lì lo avrebbe sicuramente notato. Sapeva tuttavia che lo stavano cercando e che conoscevano casa Martens. Nonostante le gambe lo reggessero a stento, decise di andare di persona, l'incolumità del giovane era prioritaria, Johan era stato chiaro. Stava camminando da alcuni minuti quando un ragazzo, evidentemente sotto shock, gli apparve dinanzi. Si voltava continuamente, sembrava stremato e disorientato. Tim lo riconobbe subito, in fondo era uguale a Marc e il suo comportamento non lasciava dubbi: era inseguito e forse aveva già conosciuto il nemico. Per quanto volesse chiamarlo ad alta voce, non ne aveva le forze, quando anche il ragazzo si accorse di lui gli fece cenno con la mano di raggiungerlo, quindi si sedette a terra, nella speranza di essere stato compreso. Patrich gli corse incontro e in breve lo raggiunse, ma la mano era ben salda sulla calibro nove dietro la schiena. Quando poté guardarlo in viso, comprese che non vi era pericolo, era debole e forse cercava semplicemente aiuto. Tim lo salutò e con un cenno della mano lo invitò a sedersi accanto a lui. A sua volta troppo stanco, senza comprendere il motivo di quella richiesta, Patrich lo assecondò. Si appoggiò pesantemente a terra, non disse una parola, osservò semplicemente l'altro che respirava a fatica.

«Piacere. . . di conoscerti ragazzo... finalmente sei arrivato» articolò con enorme fatica.

«Tu chi sei, perché mi conosci?»

Patrich era travolto dalla confusione.

«Chi sono non ha importanza. . . ora. Io conoscevo tuo padre, era, era. . . davvero un amico. Adesso devi solo ascoltarmi. Se sei qui e non a casa tua, significa che ti hanno trovato, vero?»

Patrich fece un cenno di consenso con la testa, quindi premette fermamente i palmi delle mani sulle palpebre tentando di reprimere un'emozione che di lì a poco l'avrebbe travolto, infine si appoggiò sulla spalla dell'altro, iniziando a piangere copiosamente.

«Ti prego, ti prego, se sai che cazzo sta succedendo dimmelo. Per favore, non ne posso più. Voglio solo sapere perché mio padre è morto, perché quei mostri mi seguono, cosa. . . sono? Dimmelo!» singhiozzava.

Tim lo ascoltava con gli occhi chiusi, ne condivideva profondamente la rabbia e la frustrazione, tutta quella responsabilità sulle spalle di un ragazzo era un macigno insostenibile.

«Avanti, smettila. Capisco cosa provi, credimi. Però. . . devi fidarti se ti dico che presto tutto ti sarà chiaro. Sappi che noi siamo al tuo fianco e ora che finalmente sei qui...Ma adesso devi andare, continua lungo questa strada, quattrocento metri, incontrerai una grossa palazzina verde. Sali al secondo piano, troverai una porta con una targa...bussa.»

Tim smise di parlare mentre Patrich aveva registrato tutto nella sua mente, la testa ancora poggiata sulla spalla dell'uomo. Non lo sentiva più respirare. Alzò lentamente il capo e capì subito che era morto. Non lo conosceva, ma sentiva che questi in qualche modo avrebbe voluto proteggerlo, parlargli, ma non ne aveva avuto il tempo. Anch'egli conosceva suo padre, come altri anche lui era coinvolto in quanto stava accadendo, ed era morto. Non esitò oltre, raccolse le forze e si alzò, doveva cercare una palazzina verde. Riprese a camminare quanto più velocemente poteva. Era imprigionato dalla paura, pietrificato, come se ad ogni passo dovesse andare in frantumi per poter avanzare, in un certo senso tutto quanto era accaduto aveva dissolto ogni sua certezza, messo in dubbio ogni istante che aveva vissuto, frantumato la sua identità. Notò la palazzina, vi fu di fronte alcuni minuti più tardi, una donna delle pulizie usciva dal portone principale in quel momento. Approfittò per entrare prima che la porta si richiudesse, quindi salì le scale e cercò una targa.

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Era l'unica, doveva bussare lì. Alcuni secondi dopo un uomo alto e dall'aspetto stanco gli aprì. Lo stupore che gli si dipinse sul volto quando vide il ragazzo confermò che la visita di Patrich era inaspettata.

«Tu, tu. . . che ci fai qui? Dov'è Tim? Doveva sorvegliarti? Perché diamine sei qui?» chiese agitato Emmanuel.

Patrich spinse la porta, voleva solo entrare e sedersi. Tim, ora conosceva il nome, entrò e notò a terra qualche macchia di sangue mal ripulito, rivolse lo sguardo al viso dell'uomo e si rese conto che le labbra erano contornate da un alone rosso. Con immediatezza estrasse la pistola puntandola contro l'altro; Emmanuel non si mosse, non sembrava affatto sorpreso da quella reazione

«Cosa significa questo sangue? Volete dirmi chi cazzo siete?»

Emmanuel lo invitò a sedersi, ancora una volta non sapeva per quale motivo ma sentiva di dover dare ascolto ad uno sconosciuto. Si accomodò sul divano, quindi l'altro gli si rivolse «Hai ucciso Tim?»

Patrich osservava la pistola nelle sue mani, la buttò sulla poltrona e frettolosamente si giustificò.

«No. . . no. . . che diavolo dici?! Ho ammazzato a casa quell'essere strano, ma ci è voluto quasi un caricatore per farlo fuori. Poi sono scappato e ho incontrato questo Tim, era stanco, stava per terra e mi ha detto di venire qui, poi. . . non so perché ma è morto, non respirava più!»

Emmanuel si sedette vicino a lui, abbassò il capo, strinse forte le labbra passando le dita tra i folti capelli scuri, quindi iniziò a dire qualcosa.

«È inutile aspettare, anche Tim ci ha lasciati, ma mi rincuora che tu lo abbia conosciuto, per un attimo ho creduto che lo avessi ucciso, non ti avrei perdonato. Ora, ascoltami. Ti è stato detto dove devi andare domani e a che ora?»

«Si, Johan, alla cattedrale, domani.»

«Bene dovrai attendere domani allora per conoscere quanto Johan ha promesso di rivelarti, tuttavia ti spiegherò ciò che vedi qui e ora. Questo sangue a terra, di chi pensi che sia?» chiese Emmanuel mentre gli occhi a stento riuscivano a trattenere le lacrime, nondimeno scrutava il ragazzo.

«Credo tuo, visto che la tua bocca è sporca. Oppure di qualcuno, tipo...di Tim? Che vuoi che ne sappia?»

Patrich si alzò dal divano. Emmanuel invece rimaneva seduto, estrasse una pillola dai pantaloni e la inghiottì.

«Che cosa hai preso? Stai male?»

«In un certo senso...si» rispose sintetico l'altro, continuò «Credi che i vampiri esistano davvero? E soprattutto credi che si nutrano del sangue umano?»

Emmanuel l'osservava con una punta di divertimento. Il ragazzo si ritrasse in cerca dell'arma, era troppo distante, prenderla sarebbe stato rischioso.

«Stupido, lascia perdere quella pistola, non l'hai ancora capito che siamo dalla stessa parte? Non voglio farti del male, perché persone come me, Tim e altre, sanno fare solo del bene.»

Patrich era assolutamente confuso, non capiva il nesso logico di quella conversazione, si affrettò.

«Sei un...vampiro? Allora? Questo mi stai dicendo? In fondo è possibile, ho visto con i miei occhi come quei tipi non muoiono neppure sotto una scarica di proiettili, a questo punto non mi sorprenderebbe se voi foste dei vampiri.»

«Tu non sai un cazzo di niente, siediti e smettila!» tuonò Emmanuel, lo sguardo spento era divenuto minaccioso.

Respirò profondamente come a richiamare l'autocontrollo che andava perdendo, in realtà stava riordinando le idee. Iniziò un lungo resoconto.

«Né io, né Tim o gli altri che incontrerai siamo vampiri, non nel senso comune del termine. Essi in verità sono esistiti parecchie migliaia di anni fa, le storie sono vere, si nutrivano di sangue e molte delle vittime divenivano a loro volta vampiri.» Emmanuel ora si alzava, il tono di voce si faceva cupo.

«Quello che nessuno sa, invece, è che durante l'evoluzione della razza umana vi fu un momento non ben definito in cui il processo, solo per un ceppo della piramide evolutiva umana, seguì dei ritmi accelerati, per così dire, prese una direzione diversa, un gruppo di individui si adattò diversamente, per conto proprio.»

Patrich lo osservava con sguardo incredulo, ma era troppo presto per fare qualsiasi domanda, in realtà nemmeno lui sapeva a cosa bisognava dare una risposta. Emmanuel conosceva benissimo quello sguardo di incredulità e stupore, in passato lo aveva avuto anche lui, dunque sapeva quali parole usare per rendere chiaro il concetto.

«Questo ceppo, così diverso, era in realtà migliore del primo, quello di cui la stragrande maggioranza di. . . noi, uomini, facciamo parte. Ma fu proprio questa diversità a causarne l'estinzione.»

Emmanuel fece un passo verso Patrich, gli sorrise appena, quindi completò.

«In pratica alcuni uomini svilupparono l'immunità a molteplici malattie, anche alle più letali, quelle che oggi chiamiamo cancro e tumori; in realtà, essi erano soggetti come tutti alle variazioni genetiche che determinano un tumore, ma straordinariamente il loro DNA era in grado di ripararsi, trovando il punto debole della catena e sostituendolo con la proteina idonea. Fu chiamata "autoespulsione" e questa caratteristica garantì uno sviluppo formidabile.»

Patrich si avvicinò osservandolo come alla ricerca di alcune differenze, indizi che lo identificassero come diverso.

«Tu hai questa capacità? Gli. . . altri che ancora non conosco hanno questo dono?» Emmanuel abbassò nuovamente la testa.

«Sbagli, Patrich, per noi questa è una maledizione come hai visto, talvolta può ucciderci. L'autoespulsione era chiaramente tramandata dai genitori alla prole, dunque sin dall'antichità intere famiglie ne erano interessate. Ma tu mi hai accusato di essere un vampiro, ricordi? Ecco, in tutto questo i vampiri c'entrano, purtroppo.» Patrich ebbe un'intuizione e tolse la parola di bocca all'altro.

«Vuoi dire che nello stesso periodo evolutivo sono esistiti entrambi e...»

«Esatto, accadde l'inverosimile. Un vampiro, si unì con uno di quegli umani e il figlio che nacque era . . . entrambi: vampiro e immune ai mali di cui ti ho detto. Ma non è tutto. Questi nuovi esseri riuscivano ad estirpare il male dal corpo, mordendo, attraverso la saliva iniettavano parti di proteine contenute nel loro DNA, riuscendo a riparare il codice genetico di colui che veniva morso, guarendolo di fatto.»

Patrich passò entrambe le mani sul capo, quindi appoggiò la schiena sul muro.

«Mi stai dicendo che...sei così anche tu...sei...capace di estirpare il male dalla gente.»

Emmanuel pose la mano sulla spalla del giovane amico.

«Esattamente, io e gli altri siamo gli unici rimasti di quella specie, il nostro compito è quello di salvare più vite possibili, estirpando cancro e tumori dal corpo delle persone con un semplice morso.»

Patrich si sentiva venire meno, il sangue a terra e quello sulla sua bocca: ora tutto era chiaro, quell'uomo aveva appena salvato qualcuno, magari era in strada davanti a lui e non se ne era accorto ma doveva essere così.

«Ma allora, spiegami di Tim, perché è morto?» ebbe infine il coraggio di chiedere.

Emmanuel tolse la mano dalla spalla, quindi si voltò.

«Hai saputo anche troppo, non avrei nemmeno dovuto dirti questo, adesso va a riposarti, io rimarrò sveglio e mi assicurerò che non ci siano intrusi. Domani per te sarà importante, tutto cambierà. Spero tu possa aiutarci, sinceramente. Ti lascio al divano, non è particolarmente comodo ma dovrai accontentarti.»

Emmanuel entrò nella stanza appena dopo la cucina e chiuse la porta, aveva perso un amico, voleva restare solo.

Capitolo 17

Hans Martens riteneva la sua poltrona di pelle nera un ottimo acquisto, forse il migliore. Malgrado fosse uno dei tanti oggetti di rara e pregiata fattura di cui si era circondato a certificazione del suo status, col passare degli anni aveva iniziato ad apprezzarne la comodità, vi si era adagiato ad ogni traguardo, vi aveva assaporato la vittoria, soprattutto ne adorava l'odore, profumava di trionfo. Nei laboratori che aveva creato invece, a quindici metri di profondità, non vi erano poltrone, né posti a sedere, se si eccettuavano le scomode sedie su cui passavano interminabili ore i suoi ricercatori. Non era particolarmente incline a dotare i suoi ambienti di lavoro di comfort, poltrone e spazi relax avrebbero costituito più un danno che un aiuto. Il posto di lavoro era e doveva essere un luogo di fatica e di impegno. Ogni aspetto del laboratorio e del processo di ricerca era il risultato di anni di studi, di analisi e di tentativi che aveva portato avanti personalmente; unico fine la perfezione, l'efficienza assoluta. I ricercatori e gli scienziati che lavoravano per lui non conoscevano tregua: turni di dieci ore con pause di cinque per riposare e mangiare qualcosa. Anche questo sistema era stato da lui concepito: senza adottare una turnistica e alternare i suoi impiegati si potevano sfruttare sempre le stesse persone e farle riposare regolarmente e con puntualità. Risultato: il lavoro era continuato da chi lo aveva interrotto in precedenza con conseguenti margini di errore ridottissimi, nessuna responsabilità da attribuire ad altri se non a chi seguiva il processo dagli arbori. Tuttavia doveva in qualche modo accelerare i tempi ed era consapevole che le sole risorse del corpo umano e un'organizzazione impeccabile non sarebbero state sufficienti; fece produrre integratori energetici con altissime percentuali di caffeina e taurina, assolutamente illegali in quelle concentrazioni. Illegali se vendute, ma Hans ne faceva uso esclusivo all'interno dei laboratori, vigeva il silenzio più assoluto. Talvolta gli effetti erano allarmanti: le poche ore di sonno unite al ritmo di lavoro incalzante generavano attacchi di ansia e panico. Solo in quelle occasioni il soggetto veniva rispedito a casa per un solo giorno di riposo e sorvegliato segretamente. Chi lavorava per il dottor Martens diveniva prigioniero, tutto gli veniva negato ad eccezione di un'unica cosa, il denaro, l'arma prediletta con la quale acquistava vite, consenso, silenzio. Quello che in un giorno lavorativo sembrava impossibile da ottenere diventava assolutamente fattibile. Ancora una volta rise all'idea di quanto bastasse poco per ottenere molto, un piccolo aumento a fine mese e i volti stanchi e tristi tornavano a sorridere: patetici, marionette che mai sarebbero riuscite a divincolarsi dalle sue corde. Tra i tanti burattini del suo teatro la segretaria Rita non faceva eccezione; tuttavia lo zelo, quasi stacanovismo della donna, aveva alimentato negli anni una certa simpatia da parte di Hans, questi provava nei suoi confronti un sentimento molto simile al rispetto.

«Allora Rita, questa poltrona? Il momento è per me solenne, non posso mica gustarlo in piedi!» esclamò Hans gioioso, mentre si apprestava ad entrare nel laboratorio numero quattro.

Dall'altro lato del cellulare Rita alzava gli occhi al cielo in segno di sconfitta.

«Dottor Hans la sua poltrona non entra nell'ascensore! Ho appena ripreso le misure ed è impossibile farla entrare! Mi dispiace!» rispose con voce tremolante Rita. «Dannazione Rita! Ok, oggi ho deciso che voglio essere felice e farò faticosamente a meno della mia poltrona, questo giorno è troppo bello, Rita cara, troppo.»

La donna rimase allibita; generalmente, nelle rare occasioni in cui i suoi desideri non potevano essere esauditi, il dottore la riempiva di insulti di ogni tipo. Gli stessi le avevano causato negli anni una sorta di psicosi: ogni mattina il principale problema al lavoro era soddisfare le sue folli richieste, pena una tremenda umiliazione. Sbalordita rifletteva su come per la seconda volta nel giro di pochi giorni non l'avesse umiliata vedendo inesaudito un suo desiderio. Il giorno prima si era comportato allo stesso modo, ripensò che anche allora era sceso in quei laboratori. Che cosa avevano di tanto speciale? E perché a lei era fatto divieto di entrarvi? Pazienza, oggi le era andata bene, poteva ritenersi fortunata. Hans digitò una sequenza alfanumerica all'ingresso della porta del laboratorio numero quattro: ogni sala aveva un proprio codice d'accesso diverso dalle altre, solo lui li conosceva a memoria. Chiunque volesse o dovesse accedere in quei laboratori doveva chiedere a lui, ricercatori compresi. La porta del numero quattro si aprì e dinanzi al suo stupore i dottori Robert e Franc si sentirono importanti e appagati.

«Così velocemente, proprio come avevate promesso. Ci siete riusciti, questo è eccellente!»

Di fronte a lui dodici uomini dal volto pallido e dagli occhi neri come l'inchiostro erano disposti in due file da sei unità ciascuna: retti, impassibili, dallo sguardo vuoto. «Proprio come li desideravo, perfetti: il loro sguardo così come i loro volti non trasmettono nulla, sono vuoti. Noto con piacere che abbiamo finalmente risolto il problema dell'insubordinazione.»

Distolse lo sguardo dagli uomini e continuò a rivolgersi ai dottori.

«E ditemi, rispetto alle prime quattro cavie? Quali miglioramenti?» chiese frenetico, rivolgendosi per la prima volta con aria di assoluto rispetto verso i due scienziati.

Robert mise entrambe le mani in tasca, lo sguardo appagato ma gli occhi stanchi, osservò il suo compagno di lavoro, il più giovane Franc.

«Le prime due cavie che abbiamo in Italia sono semplici cani da guardia, non hanno esigenza di nutrirsi né percepiscono variazioni climatiche, in altre parole non sentono caldo o freddo. Tuttavia si spostano in maniera elementare, inoltre i riflessi sono piuttosto lenti, non hanno particolari abilità di lotta. La numero tre in confronto risulta migliorata sul piano della resistenza fisica e della velocità. In effetti all'aeroporto di Bruxelles non si è comportata malvagiamente e ha resistito a parecchi colpi. La quarta, in realtà dovrebbe essere quella che più di tutte si avvicina a questi nuovi prototipi: potente, resistente, veloce e in grado di prendere autonomamente alcune decisioni, ma sempre ubbidiente e ligia al suo dovere. Da questa siamo chiaramente ancora in attesa del rapporto sulla missione assegnatale.»

«Già, dottor Robert, ma mi dica, il siero di automutazione, quante altre dosi abbiamo?»

«Sono tutte lì, in quella valigia, almeno mille unità, grossomodo.»

Hans iniziò a ridere, passando le mani sul volto, era tremendamente vicino al suo sogno da poterlo contenere in una valigia. Quindi, con assoluta calma, mentre la risata si faceva più potente, estrasse una pistola dalla giacca e sparò a Franc, direttamente in testa. Quando il corpo fu a terra lo colpì nuovamente al cuore. D'improvviso era tornato serio, il volto quasi deformato da una smorfia di disprezzo mista a soddisfazione. Robert si portò verso il muro, poi si diresse alla porta, era bloccata, non avrebbe potuto lasciare la stanza.

«L'ho bloccata inserendo un codice per l'uscita, caro Robert, da qui non si esce. Credo tu sappia cosa ti aspetta ma prima di ucciderti vorrei spiegarti perché, in fondo te lo devo.»

L'uomo iniziò ad urlare chiedendo aiuto, ma sapeva benissimo che le mura erano insonorizzate e nessuno lo avrebbe sentito.

«Motivo numero uno, la quarta cavia ha fallito e il ragazzo è riuscito a fuggire.»

Un colpo alla gamba destra, l'uomo cadde a terra.

«Motivo numero due, perché tu e il tuo amico mi siete costati un mucchio di soldi.» Quindi gli sparò all'altra gamba, mentre le grida di Robert si facevano insopportabili. «Ti...ti...prego, ho fatto quello che volevi, m...mi. . .avevi offerto tu quei soldi...ma. . . non li avrei chiesti. . .non così tanti. . .per favore, ho famiglia!»

Le urla si tramutarono in un piatto dirotto.

«Vedi caro Robert, non puoi dire che io non sia magnanimo, con tutti i soldi che ti ho dato, la tua famiglia potrà vivere di rendita, almeno questo devi riconoscerlo. Ma torniamo a noi, il motivo che più di tutti mi fa incazzare è il numero tre: nessuno, mai, può guardarmi con aria di superiorità, nessuno può pensare che io dipenda da lui, nemmeno tu!»

Lo finì mirando alla testa. Hans osservò il corpo a terra, in fondo lo riteneva un buon elemento, ma non poteva permettere che qualcuno, ora, parlasse dei suoi segreti. Uscì dal laboratorio, entrò nel cinque con la stessa procedura. Osservò il manto d'oro ancora immobile e intatto sulla tavola d'acciaio, mentre i soliti tre uomini vi armeggiavano intorno. Li scrutò per un attimo, attese che si accorgessero di lui, lasciò che lo stupore li cogliesse, quindi sparò, esaurì l'intero caricatore. I tre corpi giacevano a terra senza vita.

«Non ho più bisogno di nessuno, ti distruggerò da solo, maledetto» disse con tono di sfida, rivolgendosi all'oggetto misterioso.

Uscì dal laboratorio, mentre altri due uomini stavano già provvedendo a pulire la quattro. Attese pazientemente che finissero, le dodici cavie impassibili e immobili. Quando ebbero terminato di pulire, li fece uscire, afferrò la valigia e la porta si chiuse.

«Al cinque stesso lavoro, uscite e la porta si richiuderà automaticamente, un'ultima cosa: non ci siamo mai visti.»

I due volti erano nascosti da una mascherina, acconsentirono con un cenno della testa. Ora la scena era pulita, come era già avvenuto in altre occasioni i ricercatori, ignari di tutto, avrebbero continuato a lavorare tranquillamente. Solo lui aveva la conoscenza e il potere, i corpi sigillati in un enorme cassone non avrebbero insospettito nessuno, la valigia era al sicuro nelle sue mani, un piccolo esercito già ai suoi ordini.

Il folle piano di Hans aveva inizio.  

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