Raving. Ladro di Cuori

By fiorexstories

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#2 SOSPESA PER IL MOMENTO È difficile comprendermi. Spesso, nemmeno io ci riesco. Sarà perché sono perenneme... More

Prologo
Capitolo uno.
Capitolo due.
Capitolo tre.
Capitolo quattro.
Capitolo cinque
Capitolo sei.
Capitolo sette.
Capitolo nove.
Capitolo dieci.
Capitolo undici.
Capitolo dodici.

Capitolo otto.

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By fiorexstories


Masticando la cicca che avevo rubato a Mike di nascosto, trascinai il carrello nel silenzio tetro della piccola biblioteca impolverata.

Figurati se qualcuno si prendeva la briga di darle una pulita veloce. D'altronde, dovevo immaginare che fosse già di per sé avere degli effettivi libri.

Scossi la testa e rimisi a posto una vecchia edizione di Fiesta nel reparto giusto. Odiavo quando non rimettevano mai a posto i fottuti libri, inserendoli su scaffali a caso. Come se potesse considerarsi una cosa normale riporre Hemingway vicino a Stephenie Meyer.

Stupidi coglioni che non sapevano nemmeno scrivere il proprio nome. Ma che potevo aspettarmi mai da persone che ancora non sapevano pisciare in un fottuto cesso?

Ugh. Grugnendo, nella sezione dei thriller, mi destreggiai fra John le Carré e Lee Child, che mi ricordavo di aver consigliato io stesso a Peter, uno dei pochi detenuti che veniva regolarmente. L'unico che aveva capito tutto.

La biblioteca era il paradiso.
Silenziosa, tranquilla e priva di stronzi pronti a romperti il cazzo. Per di più, lavorarci significava svolgere il minimo indispensabile.

Avrei decisamente dovuto scrivere una guida sulla sopravvivenza in carcere.

Una volta finiti i libri del carrello, tornai nell'ala di lettura accompagnato da Le affinità elettive. Leggere mi era sempre piaciuto, fin da quando mia madre mi aveva messo il primo libro fra le mani e poi l'aveva letto insieme a me.

Le avventure di Tom Sawyer.

Era iniziato tutto da lì. Dalla sua voce armoniosa, così melodiosa che pareva miele sulle ferite. Mamma recitava, interpretava con quei suoi capelli biondi che volteggiavano al minimo movimento e io restavo sempre lì a pregare che non finisse mai. Che non se ne andasse a dare la buonanotte anche agli altri, che nessuno le chiedesse di raccontare una storia, perché volevo che restasse una nostra cosa speciale.

E poi se n'era andata all'improvviso senza prima avermi detto addio. Così, morta.

E io mi ero ritrovato da solo insieme a Tom, Huckleberry Finn, Holden, Jim, che forse un po' meno solo riuscivano a farmici sentire, ma non mi bastava mai.

Ero quello strano della famiglia, il combinaguai, il tossico, la pecora nera. Nessuno me lo aveva mai detto apertamente, ma sapevo che avrebbero preferito non avermi come fratello. O come figlio. Me lo sentivo.

Strinsi i denti, seduto al mio tavolo in fondo, tutto scheggiato, per togliermi dalla testa pensieri che avevano il puro scopo di farmi a pezzi più di quanto già non lo fossi.

Sfogliai la prima pagina, pronto a immergermi tra le righe, tuttavia un arrivo inaspettato me lo impedì.

Accadde tutto all'improvviso: una mano mi spinse bruscamente la faccia sul tavolo, facendomi male cane. Lo zigomo premeva fino a fondersi sulla superficie e dita ferree mi stringevano i capelli con una tale forza che temevo mi avrebbe reso calvo.

«Ma che cazzo», sibilai, dolorante.

Tentai di sollevare le mani per liberarmi dalla presa, ma qualcosa di freddo e sottile puntato sulla mia guancia mi fece desistere.

Che diavolo stava succedendo? Perché avevo un fottuto coltello premuto sulla pelle?

Poi il volto sfregiato di Declan apparve nella mia visuale. La cicatrice che gli tagliava la bocca era ancora più orrida da quella vicinanza, per non parlare della sua pelle secca e i denti ingialliti dalla vecchiaia e dal fumo.

Dio, speravo di non arrivare alla sua età con quell'aspetto. Doveva avere una decina d'anni in meno di mio padre, eppure sembrava vecchio il doppio.

E io mi stavo facendo minacciare da un nonnetto. Che schifo di mondo.

Lui sorrise. «Ciao, Raving».

«Ciao, Dec. Puoi dire al tuo amichetto di lasciarmi andare? Stanotte non ho dormito molto bene e mi fa un pochino male il collo».

«Oh, ma certo. Sono desolato».

Gli bastò una veloce occhiata al suo scagnozzo affinché la presa si allentasse, prima di sbattermi di nuovo sulla superficie con ancora più forza.

«Cazzo!», urlai, avvertivo di già lo zigomo gonfiarsi. «Ma che razza di problemi hai?».

Alla faccia del posto più tranquillo. La biblioteca in un attimo si era trasformata in un inferno.

Inspirai a fondo, digrignai i denti e tremai nel momento in cui prese a far scorrere la lama ghiacciata sulla mia pelle senza porsi alcun tipo di problema. Se mi avesse tagliato... anni di skincare buttati all'aria.

«Vuoi sapere che problema ho?», biascicò, divertito, e arricciai il naso dinnanzi al suo alito che puzzava di formaggio scaduto e merda.

«Beh, te l'ho chiest... 'Fanculo!», sbottai quando il bastardo dietro di me mi pestò di nuovo la testa sulla superficie.

«Attento a come parli, ragazzo. Fossi in te imparerei a tenere a freno la lingua, prima che qualcuno decida di tagliartela», mi redarguì Declan. Sibilai quando affondò leggermente la lama nella mia guancia, e un rivolo di sangue mi scivolò giù per il collo. «Intesi?».

Se Declan davvero credeva che me ne fottesse qualcosa della mia stessa vita, allora era un povero illuso. Non me ne fregava assolutamente niente. Potevo morire anche in quel preciso istante.

Forse a quel punto a qualcuno sarebbe davvero importato di me.

Ciononostante strinsi le labbra in una linea retta, perché volevo capire che cosa volesse da me. Non avevo più voglia di assecondare il suo teatrino.

Ero a tanto così dal piantargli il coltello in un occhio.

Lui curvò la bocca in un sorrisetto soddisfatto, che ebbe il risultato di farmi prudere le mani. «Bene, vedo che ci siamo capiti», mormorò, viscido come una serpe. «Sai cosa mi è successo stamattina?».

«Devo tirare a indovinare?».

Mugolai sofferente per lo strattone brutale alla cute che ottenni in risposta. No, a quanto pare non dovevamo giocare a Indovina Indovinello.

«Quando sono tornato dal mio giro di colazioni, ho trovato una busta nella federa del cuscino», continuò, e deglutii, perché sapevo dove stava andando a parare. «Era da parte di un certo Baby J e conteneva più di duemila dollari in contanti. Tutti pezzi da cento. Ma non è stato Baby J a pagare, non è vero,  Raving?».

Un tremito di inquietudine mi si cristallizzò nelle terminazioni nervose. Per un momento smisi addirittura di respirare,  con la pelle ferita che iniziava a bruciare e la presa di coscienza di quanto avevo fatto che mi serrava la gola.

«Io...», annaspai, la voce ridotta a uno strascico. «Io non so di cosa tu stia parlando».

La risata che sfuggì a Declan avrebbe fatto pisciare nelle mutande chiunque. «Ovviamente. Però voglio che tu sappia che detesto quando altre persone si mettono in mezzo ai miei affari, e che Ander mi deve ancora il suo cazzo di favore. Non è cambiato niente».

Figlio di puttana.

Ingoiai un brutto rospo e irrigidii la mandibola, ordinandomi di restare calmo. La mia posizione svantaggiata non mi permetteva di fare stronzate, come ad esempio prendergli la faccia e spaccargliela contro lo spigolo del tavolo.

«E i soldi?».

«Li accetto. Consideralo l'unico motivo per cui sei ancora vivo».

Così dicendo si risollevò di scatto, avviandosi verso l'uscita della biblioteca con la sua camminata ciondolante e stanca. Razza di vecchio appassito.

Resta calmo, Rave. Resta calmo.

Mi imposi di restare in silenzio, mentre il suo leccapiedi mi lasciava andare. Risollevando il capo, notai che la prima pagina del libro adesso era macchiata del mio sangue.

Mi vibrarono le spalle per il brusco respiro che presi di botto. Necessitavo di darmi una seria calmata, perché sentivo che a momenti sarei esploso.

Declan si fermò sulla soglia. «E... Raving?».

Non sollevai gli occhi dal titolo sporco. «Sì?».

«La prossima volta ti faccio ammazzare».

Poi schioccò le dita e un poderoso gancio destro mi si schiantò sulla faccia con una forza tale da farmi cadere giù dalla sedia. Percepii il taglio aprirsi, spaccarmi la faccia, e un dolore acuto mi sconquassò quando quel gorilla mi assestò un altro cazzotto sempre sullo stesso punto.

E un altro.
E un altro ancora.
E poi persi il conto.

---

«Tua madre puttana», borbottai, zoppicando fino alla mia cella, con il volto ridotto a un grumo di sangue e gonfiore.

Stavo tornando dall'infermeria, dove il dottor Tyler mi aveva rimesso in sesto il naso dopo aver finto di credere alla storiella di me che sbatto contro uno scaffale.

Ormai doveva averne viste tante di persone che sbattevano, perciò non ne era rimasto granché sorpreso.

Tenni il ghiaccio sullo zigomo livido e l'occhio pesto, attento a non parlare troppo che i punti al labbro facevano male da morire.

Mi sarebbero rimaste le cicatrici, porca troia. Volevo spaccare qualcosa. Volevo frantumare la faccia di Declan e usarla per pulire il pavimento. Volevo sparare in testa allo stronzo che mi aveva fatto questo e spezzargli ogni osso del corpo.

Avevo gli occhi lucidi dalla rabbia. Ero così tanto incazzato e a un passo dal commettere follie, che nemmeno provavo più dolore.

Vi uccido.
Vi uccido tutti, cazzo.

Sibilando fra i denti, rientrai nella mia fottuta prigione. Baby J, impegnato a fare i suoi piegamenti per terra, balzò in piedi non appena mi vide.

Spalancò gli occhi nocciola, sconvolto, nel rendersi conto di ciò che mi era successo, e aprì la bocca senza emettere alcun fiato.

Per una volta sembrava senza parole.

«Rav...»

Sbuffai, intanto che lui se ne restava lì a guardarmi come se non potesse far altro, e attesi che la guardia carceraria finisse la sua conta prima di chiudere le celle. L'ora d'aria era finita. Presto avrebbero portato la cena.

Non attesi oltre.
Sollevai il letto, il giusto per riuscire a tirare fuori la bustina cilindrica dal tubo d'acciaio vuoto del piedino.

Ander si allarmò. «Raving, che stai facendo?».

Non risposi. Pensai soltanto a placare il mio battito furioso con una pasticca di metadone, che mi sentivo troppo sul punto di scoppiare. Avevo bisogno di restare intero, invece.

Avevo bisogno di tempo per riflettere su come farla a pagare a Declan.
Lentamente.
Crudelmente.
Senza pietà.

Ingoiai un'altra pasticca, poi lanciai il ghiaccio lontano da me e mi diedi una botta sulla tempia, incurante delle ferite che strillavano per la sofferenza inferta.

«Vaffanculo!», gridai.

Perché il metadone ci stava impiegando così tanto a fare effetto? Perché non mi sentivo meglio?

«Raving!», sbottò il ragazzo davanti a me, strappandomi via dalle mani l'analgesico per metterlo via. «Ma che cazzo fai? Dimmi che ti è successo. Chi è stato a farti questo?».

Girai il volto, dandogli il profilo messo meno peggio. «Non sono cazzi tuoi. Dammi il cellulare, ho bisogno di chiamare una persona».

«Non ti do proprio niente. Sei fuori di te», disse severo e si calò sulle ginocchia davanti a me, dopo aver raccolto il ghiaccio. «Guardami».

Tenni lo sguardo fisso sulla mia destra e scossi il capo. Non volevo leggergli nelle pupille la pietà per me, né il suo giudizio, né nient altro. Tutto ciò che desideravo era che mi lasciasse stare.

«Raving, guardami», ripetè, poggiò la mano sulla mia coscia per indurmi a smetterla di muovere la gamba. Neppure mi ero accorto di farlo. «Voglio solo controllare meglio le tue ferite e aiutarti».

«E perché? Sei forse un medico?».

«No, ma sei il mio unico amico qui dentro e mi preoccupo per te. Avanti, fa' vedere».

Non so cosa fu di preciso a spingermi ad assecondarlo. Forse che mi avesse reputato suo amico, forse il tono realmente carico di preoccupazione o il profumo della sua pelle così vicino alla mia, o magari il calore del suo palmo che che ancora mi stava toccando.

Fatto sta che alla fine lo accontentai e Baby J trattenne sul serio il fiato nello scorgere il mio occhio viola e gonfio, lo zigomo massacrato, il cerotto sul naso, i punti sul labbro. Per fortuna almeno il sangue secco era stato lavato via.

Al contrario di quanto credevo, non scorsi alcuna traccia di giudizio nei suoi occhi, né un'espressione di puro compatimento. C'era solo dispiacere. Di riflesso, rilassai le spalle.

«Oh Dio, Rav», sussurrò, angosciato, e premette con dolcezza il ghiaccio sui punti più violacei. Sussultai. «Scusami, so che fa male. Ma chi è stato? E perché?».

Era davvero vicino. Tanto. Il suo respiro mi rotolava sulla carne, rinfrescava i bruciori, e aveva un tocco così delicato che mi sentii sciogliere. Nessuno si era mai preso cura di me. Nessuno, per quanto banale potesse essere, mi aveva mai tenuto il ghiaccio. 

«Non ha importanza», mormorai sottovoce, confuso.

Il metadone stava iniziando a fare effetto. Percepivo i miei pensieri accavallarsi, i nervi sciogliersi, e lui appoggiò l'altro palmo sulla mia mascella per tenermi fermo.

«Se lo dici tu», sospirò. «Sei proprio un guaio vivente, Rav». Abbozzò un sorrisetto.

«Ma non eri incazzato con me fino a ieri?».

Lui inarcò un sopracciglio. «Mi hai dato della puttana, dicendomi che avrei dovuto sbrigarmela da solo con Declan. Tu che dici?».

Dico che mi sono fatto gonfiare come un pallone per te, stronzo. E non ho nemmeno concluso niente.

«Almeno sono sincero».

Baby J roteò gli occhi, tuttavia una risatina divertita gli sfuggì, e mi si conficcò sotto le ossa. Doveva davvero smetterla di guardarmi in quel modo da sotto le ciglia, e ridere come se gli piace sul serio stare con me.

Mi chiesi se fosse possibile essere così belli.

Non riuscivo a pensare bene.

«Però», riprese, «te lo ripeto: siamo compagni. Se dobbiamo guardarci le spalle anche noi uno dall'altro, allora sarà un inferno. Dovremmo proteggerci a vicenda, Rave. Tu non credi?».

E al cospetto dei suoi occhioni, così pericolosi, colmi di speranza e una dolcezza che mi faceva tremare dentro, non potei far altro che annuire timidamente.

«Sì, hai ragione».

Ander sorrise. Gli si formarono delle rughette deliziose agli angoli della bocca, e non potei fare a meno di sospirare, nell'avercelo lì: inginocchiato tra le mie gambe aperte, le mani delicate sul mio volto e le mie sulle ginocchia, che gli sfioravano il busto.

«E comunque credo che la mia seduta con la psicologa mi abbia aiutato a sedare le ansie e la rabbia».

Non seppi cosa dirgli. Una parte di me voleva indagare, scoprire cosa si fossero detti, se lei era stata ammaliante e magnetica come lo era sempre con me, capire se le fosse piaciuta e se avrei dovuto stenderlo nel caso. L'altra parte... non voleva sapere nulla e basta, per timore della risposta.

Avevo il presentimento che non mi sarebbe piaciuta nessuna delle verità.

Mi sentivo il cervello in tilt, e nel momento in cui si allontanò non seppi se provai più mancanza o sollievo.

Smisi di rifletterci sopra soltanto perché si riavvicinò sul serio con il cellulare in mano. Me lo porse, senza perdere la sua consueta gentilezza. «Tieni».

Mi ero perfino dimenticato di avergli chiesto di usare il telefono.

Lo afferrai, non più convinto di voler spezzare il momento, ma non potevo tirarmi indietro ormai.

Ander si fece da parte e si rintanò sul letto superiore, perché io stavo occupando il suo, per lasciarmi una privacy che in realtà non anelavo.

Smettila, Raving.

Scrollai il capo, la mente rallentata ad attimi e desideri fugaci, e composi il numero, stando ben attento. Le guardie potevano spuntare da un momento all'altro.

Comunque, conoscevo soltanto due numeri di telefono a memoria: quello di Athos e quello di...

«No, non mi interessano le vostre promozioni e non voglio convertirmi a nessun'altra religione. Add-».

«Perché cazzo rispondi tu al posto di Omega?», ringhiai a bassa voce.

Dall'altra parte della linea udii attimi di silenzio. Si trattò di un paio di secondi. Poi sospirò: «Raving. Per quale motiv... no, aspetta, non ne voglio sapere niente. Non mi trascinerai nelle tue cose illegali. Ho un futuro, io. Delinquente».

«Ti spacco la faccia, Vergo, vedi di non farmi incazzare. Passami subito Omega».

«Non posso».

Se non mi avessero pestato a sangue, mi sarei strofinato la mano sul volto. Mi limitai a inspirare profondamente. «E perché?».

«Stiamo giocando a nascondino con Mitch. Lui contava».

«È cieco, Vergo. Come fa a giocare?».

«Appunto. Non ci vedrà mai».

«In che universo tu hai ventidue anni?».

«Tu ne hai ventisette, eppure non mi sembra che te la passi meglio di me. Così per dire».

Ero una persona che si infastidiva con estrema facilità. Irritarmi non era affatto una cosa difficile. Bastava una parola fuori posto o uno sguardo strano. Eppure i livelli di urto emotivo che riuscivo a raggiungere Vergo era qualcosa che andavano al di là di qualsiasi comprensione umana e logica.

«Comunque, questo non spiega il perché tu abbia il suo cellulare», tornai all'attacco.

«Tu hai i tuoi segreti, io ho i miei».

«Vergo, Cristo Santo, giuro che...»

E mi scoppiò a ridere nell'orecchio, provocandomi pura orticaria alle vene. Se fossimo stati nella stessa stanza, probabilmente, in questo momento ci staremmo picchiando a morte.

«Ti sto prendendo per il culo, genio dell'est. Nessun nascondino. Io e Omega siamo usciti a prenderci una birra...»

«Ha diciassette anni».

«Si deve pur iniziare da un punto, no? Comunque, dicevo. Ha bevuto un quarto di bicchiere ed è corso a pisciare. Ora che ci penso, pero, deve esserci caduto nel cesso».

«Te lo ripeto: è cieco. Come cazzo fa a ritrovarti? Vallo subito a cercare!».

Non ero in condizioni di poter sopportare Vergo ancora un solo secondo. Ci voleva pazienza e coraggio con uno come lui, e io non avevo nessuna delle due cose.

Nel frattempo, sentii un'altra risatina provenire dal letto di sopra. In tutta risposta, gli diedi una botta sotto al materasso. Lui rise un pochino di più.

«Non mi ero reso conto di star parlando con Athos», borbottò Vergo. «Vuoi sapere perché ho portato Omega in un bar?».

«Perché c'è la tua Krissy e dovevi spiarla come il malato stalker che sei?».

«Primo: non chiamarla così. Secondo: sì. Terzo: non è questo il punto. Quarto: Omega è giù di morale».

Una fitta mi colpì dall'interno. Mi si spezzava sempre il cuore quando Omega non stava bene. Quando Omega smetteva di essere felice.

Forse, fra tutti noi, era quello che più poteva vantare il diritto di poter star male, eppure ogni volta che si permetteva di buttarsi giù non gliene davamo modo. E non sapevo se fosse corretto o meno nei suoi confronti.

«Penso sia colpa mia», mormorai, rattristato.

«Io penso che sia soltanto un'insieme di cose. E per di più, ha da poco inviato le domande ai college. È sotto stress».

«Anche io lo sarei se tu fossi l'unico fratello che mi è rimasto».

Vergo ridacchiò, con quella sua risata da iena più fastidiosa di lui stesso. «Ti voglio bene, Ravi... oh, porca puttana».

Mi agitai in un secondo. «Che succede?».

«Oh, porca puttana».

«Vergo! Che cazzo succede? Dimmelo subito! Omega è nei suoi guai? Lo stanno infastidendo?».

«No, ma credo che Omega abbia appena perso la verginità in un cesso con una mora strafiga più strafiga del mondo».

Spalancai la bocca. «Scusami?».

«Vado a indagare. Ciao, bro».

«No, aspett...»

Chiuse la chiamata senza darmi il tempo di metabolizzare e chiedere altro.
Che cazzo aveva appena detto?

No, impossibile.
Impossibile.

Non era da Omega.

Però... se così fosse stato...
Dio, il mio bambino stava crescendo.

Ciao!!
Lo so, lo so, ci ho messo una vita per aggiornarla, e questo perché ho dato precedenza a My Baby.

Perdonatemi, davvero.

Come vedete, nel capitolo abbiamo un avvicinamento tra Rave e Baby J...
Che ne pensate?

Per eventuali scleri, vi aspetto nel box sul mio profilo Instagram.
(Fiorexstories)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
A presto! 🤍

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