Raving. Ladro di Cuori

By fiorexstories

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#2 SOSPESA PER IL MOMENTO È difficile comprendermi. Spesso, nemmeno io ci riesco. Sarà perché sono perenneme... More

Prologo
Capitolo uno.
Capitolo due.
Capitolo tre.
Capitolo quattro.
Capitolo cinque
Capitolo sette.
Capitolo otto.
Capitolo nove.
Capitolo dieci.
Capitolo undici.
Capitolo dodici.

Capitolo sei.

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By fiorexstories


Che venga, che venga,
Il tempo che ci accenda.

C'era qualcosa di strano nell'aria.
Mi pizzicava la pelle, rosolava nei miei respiri e mi sentivo irrequieto. Vigeva una discreta elettricità che mi impediva di starmene tranquillo.

Forse perché ero sobrio.
Forse perché non avevo dormito.
O forse perché Chandra Sanders continuava a fissarmi come un fottuto falco, in attesa di vedermi crollare pezzo dopo pezzo.

Bella stronza che era, quella lì.

Se ne stava dall'altra parte della scrivania in rigoroso silenzio, consapevole della pressione che riusciva a mettermi addosso soltanto con la potenza del suo sguardo cobalto.

Inclinò la testa, e io seguii il movimento della sua ciocca d'inchiostro liquido scivolarle sulla clavicola sporgente. Aveva la camicetta d'avorio sbottonata al collo, le si intravedeva la pelle bianca tutta da sporcare.

«Sei pensieroso, oggi», disse all'improvviso, la voce suadente mirata a manipolarmi il cervello. «È successo qualcosa?».

Solo Baby J che fa danni.

Assottigliai le palpebre, perché mi faceva davvero incazzare l'idea che continuasse a usare quel tono professionale con me. «Te lo direi, se t'importasse realmente qualcosa».

Non ebbe un minimo sussulto. Era una lastra di ghiaccio incontaminata.

«Mi importa di tutti i miei pazienti, Raving».

Trattenni un ringhio per me. «E te li scopi anche tutti?».

«Solo quelli che sanno farmi godere». Fece una pausa a effetto, tirando su un sorrisetto snervante. «Ma tu non sentirti preso in causa. Sei stato l'eccezione».

Spalancai la bocca d'istinto, dovetti aggrapparmi sulla sedia di metallo cigolante per non saltarle addosso. Quella... quella...

Aveva davvero appena detto che non ero stato capace di farla venire?
Okay, sì, ero stato un po' un fallimento l'ultima volta, ma a mia discolpa se n'era andata prima che potessi rimediare in qualche modo. Fu un affronto bello e buono.

«Figlia di puttana», borbottai, offeso nel profondo. «E questo tu lo riterresti etico al tuo lavoro? Infilare il dito nella piaga? Complimenti».

«Sto soltanto facendo il tuo stesso gioco, Raving», rispose, la penna ben stretta nella mano destra. «Continui a tirare fuori quello che c'è stato tra me e te, e non possiamo andare avanti così. Devi capire che non conta niente, che si è trattato di un caso isolato e in questo studio non siamo CeCe e Raving. Qui rappresentiamo paziente e dottore, e io sono tenuta a rispettare e a farti rispettare i nostri ruoli. Comprendi o devo rispiegartelo?».

Vorrei poter dire di aver ascoltato ciò che disse. La verità è che ignorai gran parte del discorso, perché il modo in cui le sue labbra carnose si mossero e la faccia da schiaffi che mise su mi fecero vibrare il cazzo.

«Mh», tirai fuori, solo per darmi una parvenza di contegno, quando nella mia immaginazione le stavo di già strappando via la camicia di dosso.

«Perfetto. Vedo che ci siamo capiti».

Certo.

Era qualcosa fuori dal normale l'attrazione che provavo per lei, il sangue che mi faceva ribollire.

Mi spostai sulla sedia, mentre lei persisteva ad analizzare ogni mia singola mossa per poi annotarsele. Scribacchiava perfino alla più stupida smorfia che le rifilavo. Ma che cazzo aveva sempre da scrivere?

«E sei pregato di non insultarmi più», aggiunse, con un tremolio nella voce sempre controllata.

Oh, oh. Qualcuno stava per perdere la pazienza. Cazzo, sì. Sorrisi compiaciuto.

«Non dirmi che te la sei presa, dottoressa», ridacchiai, bastardo nell'anima, e incrociai le braccia al petto.

«Affatto».

«È affascinante quanto fastidioso come ti ostini a fingerti senza cuore, intoccabile».

Lei inarcò le sopracciglia curate, e mise da parte la biro per dedicarmi la sua completa attenzione. «Fingermi?».

«Sì, hai sentito bene». Mi passai la lingua sui denti, sporgendomi in avanti, fino a posare le mani sulla superficie della scrivania. Vicino alle sue. «E sai cosa? Sei una caricatura, Piccolo Diavolo. Una pessima caricatura».

«Okay, ti piace davvero tanto provocarmi», affermò, senza scomporsi di un millimetro.
«Ma posso darti un suggerimento?».

Sogghignai, scontrandomi con i suoi occhi blu. «Sono tutto orecchi».

«Hai ragione. Non sono intoccabile, quando supero il limite divento cattiva e quando lo divento non succedono mai cose belle». E poi Chandra stirò la sua bocca perfetta per succhiarmi il cazzo in una curva sadica, una che diceva che prima o poi mi avrebbe staccato la testa dal collo a morsi. Non vedevo l'ora. «Perciò... non farmi essere cattiva, cuoricino. Lo dico per te».

Inspirai profondamente, con le spalle tese e il mio corpo che diventava un unico nervo infiammato. Lei batté le ciglia un paio di volte, tenendosi stretta un'aria da innocentina che volevo cavarle via coi denti, e io un po' mi sentii succube di quei modi di fare.

Non so come fosse possibile, magari un po' perché io ero instabile e un po' perché lei era lei, ma ero caduto in fissa. E non mi sarei liberato da certe catene finché non me la fossi scopata. Era come un disco rotto.

Me ne stetti in silenzio, a deglutire come un povero coglione senza parole, sotto le sue pupille affilate come spilli. Si scostò addirittura i capelli dietro la spalla, da perfetta dea quale era, mettendo in mostra le unghie laccate di bordeaux.

Eppure fui sicuro che i miei pensieri, in qualche modo, le stessero gridando che mi sarebbe piaciuto vederla incazzarsi, farmi a pezzi e dimostrarmi la crudeltà di cui era fatta.

Fatti vedere, bastarda.

Ne fui certo perché la sua mandibola ebbe un guizzo, e all'improvviso deviò completamente rotta del discorso. Come se nulla fosse, tirò fuori un fascicolo abbastanza corposo e lo aprì.

Mi resi conto con un secondo di ritardo che quello era il mio fascicolo.

Non ebbi modo e maniera di proteggermi, quando Chandra risollevò il capo e alzò il tiro, mettendomi sotto scacco.

«Qui dice che sei stato sorpreso a rubare in un negozio di videogiochi per la prima volta a quattordici anni», pronunciò, melliflua.

Segui la marea, Rave.
O annegherai.

«Devo correggerti». Mi inumidii le labbra, ritirandomi un po' indietro. «Ne avevo tredici e mezzo, tanto per cominciare, e a denunciarmi fu quell'infame di Vergo che non sapeva farsi i cazzi suoi nemmeno a otto anni, altrimenti non mi avrebbero mai beccato».

Sapevo che non era quello che voleva sentirsi dire, ma col cazzo che mi sarei messo a cantarle a pappagallo ciò che mi frullava nella testa.

Chandra non mollò la presa. Quel diavoletto era un mastino. «Ed è stata colpa di Vergo anche tutte le altre dieci volte che sei stato colto con le mani nel sacco?».

«Ci metto un po' a capire i miei sbagli».

«Quindi poi non hai rubato più?».

«No, ho smesso di portarmi dietro Vergo».

Si bloccò per un momento, strinse le labbra in una linea retta, tuttavia lo vidi lo stesso il sussulto che fecero le sue spalle. Si stava trattenendo dal ridere, e di riflesso abbozzai un sorrisetto.

Mi soddisfaceva l'idea di averla quasi fatta ridere.

«Okay», sussurrò più a sé che a me, sfogliando tra le pagine. «E perché rubavi, Raving? Da quanto mi risulta non poteva trattarsi di una questione economica».

A giudicare dal modo in cui mi soppesò, sapevo che in realtà già sospettava le ragioni che mi spingevano a comportarmi in un determinato modo. Maledizione, aveva il resoconto della mia vita lì davanti a lei, perfino un idiota avrebbe capito la maggior parte delle cose.

Ma io mi strinsi nelle spalle e mi portai una caviglia sul ginocchio, cercando di sembrarle il più rilassato possibile. «Sono uno che si annoia facilmente».

«Sono certa che sia così». Schioccò la lingua sotto al palato. «E i piccoli furti ti aiutavano a colmare i momenti di noia?».

«A volte sì. A volte no».

«Capisco. E quando non ti aiutavano, cosa facevi?».

«Quello che mi andava».

Chandra scrisse altro sul suo quaderno del cazzo. Di nuovo, mi accorsi troppo tardi che mi stava portando esattamente dove voleva lei. Mi si stava sciogliendo la lingua più in fretta di quanto volessi. La morsi con forza.

Perciò, prima che potesse porgermi qualsiasi altra domanda, l'anticipai: «tu credi che io sia stupido?».

La osservai aggrottare le sopracciglia. «Come?».

«Credi che io sia stupido?», ripetei la domanda, mettendoci più enfasi.

«Perché questa domanda?».

«Perché dal tuo atteggiamento nei miei confronti sembra così».

«E tu ti senti stupido o semplicemente ti dà fastidio che io lo pensi?».

«Quindi ho ragione? Lo credi davvero?».

«No, Raving, al contrario». Scosse il capo, e un pizzico d'orgoglio mi punse il costato. «Io penso che tu sia una delle persone più sveglie che abbia mai conosciuto».

«Sveglio non significa intelligente».

«Intelligenza e stupidità talvolta vanno a braccetto, sai?».

Tornai a sporgermi in avanti, intrigato dalla piega che stava prendendo la conversazione, e appoggiai i gomiti sulla scrivania. Mi ritrovai così alla stessa altezza del suo viso, dirimpetto al mio.

Il buio delle miei iridi a contrastare la tempesta marina delle sue, uno scontro che bruciava nelle fondamenta delle ossa.

E non fatico, giuro per niente, a credere che per una come te ci si possa pure ammazzare. Guarda che demonio sei.

«Non so se ritenermi offeso o lusingato», ammisi, tenendomi il volto fra i palmi mentre la scrutavo da vicino.

Maledetto faccino.
Mi si bloccò il respiro quando una sorta di complicità le si plasmò sugli angoli della bocca sollevati.

«So cosa stai cercando di fare», sussurrò, quasi fosse un segreto.

«Ah sì?».

«Ah ha». Annuì, un po' divertita. «Ma, per rispondere alle tue domande interiori, dovresti sapere che esistono vari tipi di intelligenza».

«Ovvero?».

Chandra lanciò un'occhiata all'orologio che portava al polso, visto che ormai mancava pochissimo alla fine della nostra seduta, tuttavia questo non la fermò dal soddisfare la mia curiosità.

Anzi, strappò via un foglio dal suo quaderno e disegnò un cerchio irregolare, un po' a modo suo. Poi lo suddivise in otto parti, tutto sotto la mia attenzione che non accennava a mollarla nemmeno per un secondo.

Intanto che si premurava di fare dei disegnini per riempire gli spazio, riprese a parlare. «Howard Gardner era un neuropsicologo statunitense, e fu proprio lui ad affermare la teoria sulle intelligenze multiple. Ne differenziò ben otto».

Avevo sulla punta della lingua delle risposte da darle, ma mi sembravano tutte così banali rispetto a quella roba che mi stava spiegando lei. Perciò non potetti far altro che restare zitto e ascoltarla.

«Abbiamo l'intelligenza logico-matematica». Indicò dei numeretti che aveva disegnato come esempio. «Rappresenta le persone abili nei ragionamenti astratti, ad esempio matematici, scienziati e quant'altro». Puntò un'altra sezione, stavolta con le note musicali. «Intelligenza musicale, per chi ha l'intuito per tutto ciò che riguarda l'ambiente. Poi abbiamo l'intelligenza verbale-linguistica, ovvero gli individui capaci di articolare le parole o portati per le lingue straniere». Passò a un altro scarabocchio, senza mai perdermi d'occhio per assicurarsi che la stessi seguendo. Lo stavo facendo. «Intelligenza spaziale-visiva. Si prediligono le arti visive e la buona memoria, e in genere viene rappresentata da architetti, artisti, piloti. Intelligenza corporeo-cinestetica, per coloro che sfruttano il proprio corpo per esprimersi; predomina di solito negli sportivi, o di chi è dotato di autocontrollo. Fin qui tutto chiaro?».

«Cristallino».

«Perfetto». Sottolineò una piantina ritratta. «Questa è l'intelligenza naturalistica, che è legata a tutto ciò che riguarda gli elementi che ci circondano naturalmente». Quindi mi fissò di sottecchi. «Intelligenza interpersonale, cioè la capacità che abbiamo di entrare in empatia con gli altri. E, infine, l'intelligenza intrapersonale, quella che ci permette di capire noi stessi, di essere in grado di saper esprimere i nostri sentimenti, le nostre emozioni senza confondersi».

Ormai era scaduto il tempo. Lo sapevo. Eppure rimanemmo entrambi lì, io a memorizzare quanto appena detto, e lei in attesa di me.

Quando le feci un cenno del capo, lo prese come un via per poter continuare.

«Ognuno di noi, Raving, possiede almeno, almeno, sette di queste intelligenze, perciò la prossima volta che ti sentirai stupido o che qualcuno si permetterà di fartici sentire, rifletti sul fatto che hai sette intelligenze su otto. E non mi sembra poco. Intesi?».

La decisione che perpetuò dal suo timbro pulito e calmante ebbe un effetto anomalo su di me. Mi sembrò di tremare nella mia stessa pelle.

Nessuno mi aveva mai contraddetto su questioni simili. Ero sempre stato Raving l'Idiota, Raving il Criminale, Raving che non avrebbe mai combinato nulla di buono.

Poi spunta questa stronza, dopo che mi ero convinto in ventisette anni che tutti avessero ragione, e osa dirmi che alla fine ero la persona più sveglia che avesse mai conosciuto, fornendomi un punto d'appiglio per i momenti in cui mi sarebbe capitato di credere di non valere un cazzo.

E non era giusto.

Avrebbe dovuto incazzarsi, insistere sul mio profilo psicologico e poi sbattermi fuori, anziché riservarmi uno spazio per me e farmi sentire speciale.

«Intesi, Raving?», ripetè, quando non le diedi risposta.

Tanto alla fine a rimetterci sarei sempre stato io.

Mi ritirai indietro, e corrugai le labbra in un sorriso amaro. «Delirî, atto secondo. Alchimia del verbo: Ero stato dannato dall'arcobaleno. La Gioia era il mio fato, il mio rimorso, il mio verme: la mia vita sarebbe stata sempre troppo immensa per essere destinata alla forza e alla bellezza».

Mi alzai in piedi, scuotendo la testa, e la sedia cigolò sotto il peso, mentre lei mi osservava circospetta.

«Raving», mi richiamò. «Che vuoi dire?».

«Nulla. Rimbaud ha già detto anche troppo», sospirai, avvicinandomi alla porta. Mi aggrappai alla maniglia, e le rifilai un'occhiata da sopra la spalla. «D'accordo. Vuoi fottermi la mente, Piccolo Diavolo? Prego, accomodati pure. Ma poi tocca a me».

Se doveva farmi a pezzi, allora mi sarei premurato di renderle il favore.

Non mi soffermai sull'espressione che fece, mi limitai a uscire dallo studio per tornarmene in biblioteca prima che finisse l'ora d'aria.

E mi sarei aspettato di tutto, tranne che di vedere proprio Baby J in attesa del suo turno.

Ma che cazzo?

Ancora mi teneva il broncio dopo l'episodio dell'altra sera e le parole che gli avevo rivolto, perciò entrò nella stanza dandomi una spallata, senza aggiungere nulla o darmi tempo di chiedergli qualcosa.

Ripeto: ma che cazzo?

Mentre ripercorrevo il corridoio, però, non seppi se il fastidio che mi corrose lo stomaco fosse dovuto a lui che vedeva lei, o lei che vedeva lui.

Eccallà

E qui, iniziamo davvero... 🌚

"I Deliri" fa parte del poema "Una stagione all'inferno" di Arthur Rimbaud, nonché uno di cosiddetti poeti maledetti 💖

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Nel caso, vi aspetto nel box che vi ho lasciato sul mio profilo Instagram
{fiorexstories}

A presto!

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