IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

9 - Wenham Lake

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By Valeroot

Quando ero piccola io e papà facevamo un gioco. In aeroporto, ci sedevamo sempre di fronte alle immense vetrate che davano sulla pista d'atterraggio, con le caviglie incrociate sulle valigie, un caffè lungo per lui e una spremuta per me, e provavamo a indovinare dove fossero diretti gli aerei che rullavano lungo quella striscia di cemento chiaro.

Lui barava, l'avevo sempre saputo. Mentre io elencavo le capitali europee o qualcuno degli ultimi posti che avevamo visitato – poco importava se nella sperduta cittadina di Nieux neppure fosse presente un aeroporto, ero troppo piccola per saperlo – James si divertiva a inventare posti che in realtà neppure esistevano, per vedere se mi sarei accorta delle sue bugie.

Ricordo che lo guardavo sempre di sbieco, con quell'espressione che sarebbe poi diventata il mio marchio di fabbrica, un po' troppo seria e decisamente poco convinta e, quando lo scoprivo a inventare qualche nome, beh, a quel punto lo costringevo sempre a comprarmi la ciambella più grande di tutto l'aeroporto.

«Hai una pessima cera, sai?».

Alice socchiuse gli occhi, scrutandomi contrariata da sopra il caffè caldo che Dean ci aveva appena consegnato. Eravamo sedute sopra il lungo bancone che costeggiava la vetrata dell'aula studio all'ultimo piano della Churchill Accademy. No, da quella postazione non c'erano aerei da osservare, ma solamente l'immenso parco che si estendeva oltre gli alti cancelli in ferro battuto.

Quella era l'ala meno frequentata dell'intero complesso perché, proprio a causa di quella finestra, il sole si riversava sulla lunga fila di banchi, rendendo quell'ambiente una sorta di sauna, che gli studenti si guardavano bene dal frequentare. A noi però piaceva, e per quello passavamo ore lì, con le gambe incrociate e gli occhi socchiusi, assorbendo calore alla stregua di due lucertole.

Incastrai tra le dita il contenitore d'asporto, soppesando le sue parole, ma rinunciai a berne un secondo sorso. Era stato un dono di Dean, probabilmente l'ennesimo tentativo di ottenere il perdono di Alice per qualsiasi cosa avesse combinato. Sempre zelante, aveva finito per consegnare ad entrambe uno strano mix di latte di mandorle, caramello e una spolverata di cannella finale. Mi chiesi distrattamente se quella glorificazione del diabete avesse funzionato per ottenere il suo perdono e, da come Alice lo stava trangugiando, avevo la netta sensazione che la risposta fosse affermativa.

Tornai a concentrarmi sul nostro discorso. «Non mentivo, quando ti ho detto che ero ammalata» precisai, scrollando le spalle.

Nessuno mi aveva creduto quando li avevo avvisati che sarei stata a casa un paio di giorni a causa della febbre. Caleb sosteneva che in realtà volessi evitare Alice e, beh, lei sosteneva che volessi schivare i gruppi sportivi che si sarebbero formati a partire dalla prossima settimana. Il ché non era del tutto falso: niente mi avrebbe convinta a iscrivermi alla squadra di calcio o di lacrosse della scuola, tuttavia avevo l'impressione che gli altri riponessero delle grandi aspettative in me.

«Come te la cavi in fatto di coordinazione?» mi domandò drizzando la schiena e scrutandomi con l'occhio critico di una talent scout di modelle tredicenni della Grande Mela.

La mia incapacità per tutto ciò che richiedeva ritmo o sincronia era come un numero puro in matematica: impossibile da quantificare, adimensionale, insomma sprovvisto di unità di misura. Perché dire semplicemente "male", sarebbe stato riduttivo. Ero fermamente convinta, infatti, che l'unico sport degno di nota fosse quello che potevo seguire in televisione, possibilmente con un sacchetto di patatine fritte tra le mani.

«Un disastro, Alice. Davvero un disastro» risposi sottolineando bene il concetto con uno sguardo sconsolato.

Sapevo, però, che la mia risposta non avrebbe fermato la sua parlantina. Avevo infatti la sensazione che avesse totalmente bypassato quella fase della crescita dove non fai altro che chiedere il perché delle cose. James ricordava ancora i miei otto anni come il periodo più buio della sua vita, alimentato dal fatto che viaggiare così tanto aveva duplicato le domande che generalmente un bambino poneva. Per Alice invece, o quel periodo era appena iniziato, oppure non era proprio mai terminato.

«In matematica te la cavi, invece?» riattaccò, prima di portare alle labbra il bicchiere di caffè e allungare le gambe sulla balconata. Poi, all'improvviso, mosse la mano indicandomi di cancellare ciò che avevo appena sentito. Deglutì velocemente, facendo una smorfia perché probabilmente si era scottata la lingua. «Le gare di spelling!» esclamò, «scommetto che sei bravissima in quelle.»

Inarcai un sopracciglio. Okay, che non ero propriamente una bellezza prorompente, o una dal fisico atletico con quattro metri di gambe come le modelle di Victoria's Secret, ma le gare di pronuncia erano troppo persino per una come me.

«Alice, dalle tregua.» Caleb interruppe quell'interrogatorio avvolgendo un braccio attorno al collo della cugina e simulando un finto strangolamento. Gli ero grata per quell'interruzione, perché avevo la sensazione che le proposte di Alice peggiorassero ogni secondo di più. «Chiedile se verrà alla festa, piuttosto.»

Festa? Aggrottai la fronte. Noi eravamo appena state a una festa, e non dovevo sottolinearlo io, quanto la serata si fosse rivelata un totale fallimento. Caleb si era forse dimenticato delle due ore passate a tenere i capelli di sua cugina, mentre sbausciava contro il water del seminterrato?

La mia espressione doveva essere particolarmente evocativa, perché lui si affrettò ad alzare le mani in segno di pace. «Alice non berrà, ovviamente» tentò di tranquillizzarmi. Poi le lanciò un'espressione carica di tensione. «Vero, cuginetta?».

Era la minaccia meno convincente che avessi mai visto e Alice dovette pensarla allo stesso modo, perché in tutta risposta la vidi disegnare una croce sul cuore, con un sorriso talmente falso e zuccheroso che le mie budella si rivoltarono. Era praticamente la firma per l'ennesima serata passata a gestire i suoi drammi con Dean.

Non riuscivo a capire perché Caleb non se ne rendesse conto, o perché loro due facessero sempre finta che fosse normale ubriacarsi, urlarsi addosso per metà serata e poi comportarsi normalmente il giorno dopo. Alice non ne parlava, Dean neppure. Caleb forse cercava solo di non pensare al fatto che la sua cuginetta avesse una vita sentimentale e Matt... Beh, Matt era troppo impegnato a entrare a Yale, per lasciarsi coinvolgere dai quei drammi amorosi.

La nostra discussione fu interrotta dal passaggio della squadra di football alle nostre spalle, con annessi cori e ululati da una parte all'altra del corridoio. Andava sempre così: ogni volta che iniziava il campionato, gli americani sembravano incapaci di contenere il loro entusiasmo. Sollevai lo sguardo giusto un attimo, mettendo a fuoco Philip e qualche altro ragazzo di cui non avevo ancora imparato il nome e, mentre Caleb si sbracciava a salutarne un altro paio e l'attenzione di Alice era stata calamitata da Dean, io tornai a osservare il panorama fuori da quell'immensa finestra sul parco.

I miei occhi impiegarono poco ad azzerare i contorni, mentre il verde acceso della distesa boschiva vicino a Danvers catturava la mia attenzione. Il parco perfettamente pareggiato della scuola si trasformava dopo pochi metri in bosco costellato da una fitta schiera di alberi, che proseguivano sempre più densi e sempre più alti, fino a quell'immenso lago che avevo già visto al mio arrivo.

Era strano che mio padre non mi avesse ancora proposto di andare a fare un'escursione insieme a lui. Per James Reed una giornata senza nuove scoperte era una giornata persa. Forse, però, era a causa di quella donna, Lauren, se il suo approccio stava lentamente cambiando.

«Ti interessa il Wenham Lake?».

Era stato Caleb a parlare. I convenevoli con la squadra di football dovevano essersi conclusi, perché aveva circumnavigato Alice e si era spostato accanto a me, appoggiandosi con le gambe al bancone dove ero ancora seduta.

«Sembra un bel posto» osservai, tornando con gli occhi alla vetrata.

Ero un'amante della fotografia, non che fossi brava davvero, tuttavia avevo una sorta di fissazione per i colori. Forse per me era una sorta di riferimento, di elemento distintivo che associavo ai viaggi con James. Dopo settimane passate a osservare deserto, rovine archeologiche o città abbandonate, dovevo trovare una specie di dettaglio, di particolarità che fissasse nella mia memoria quel luogo. E così i colori erano diventati la discriminante: il turchese del mare di Cancun, il rosa roccioso delle rovine di Petra e ora il verde trifoglio del Wenham Lake.

«Lo è» confermò Caleb. «Mio nonno ci portava spesso a pesca» aggiunse, indicando con il capo il corridoio dell'amministrazione dietro di noi.

Giusto, dimenticavo sempre che Alice e Caleb fossero i nipoti del preside di quella scuola. Non ne parlavamo mai, anche se probabilmente a lui non interessava molto delle maldicenze che potevano sorgere da quella situazione. Caleb faceva parte della squadra di football e veniva associato maggiormente al suo ruolo di ricevitore, piuttosto che al suo cognome.

«Ci tornate spesso?» chiesi interessata.

«Oh no.» Scoppiò a ridere, come se un ricordo si fosse schiantato di colpo nella sua mente. «La nostra famiglia è un po' folle e, quando eravamo piccoli, mio nonno ci raccontava un mucchio di leggende sulle streghe di Ipswich» mi spiegò, «sai, siamo vicini a Salem qui, e Alice ne era letteralmente terrorizzata.»

Mi unì alla sua risata, cercando di convertirla in uno sbuffo basso. Se Alice ci avesse trovati a ridere di lei, saremmo finiti entrambi nella fontana della scuola.

«Un'infanzia interessante» mediai sollevando le spalle.

Dallo sguardo complice che mi rivolse, sembrava che anche lui fosse d'accordo con me. «Decisamente» concordò, mentre io tornavo a osservare l'esterno. Poco dopo però, la sua voce incerta tornò a richiamare la mia attenzione. «Hai detto che tuo padre è via in questi giorni, giusto?» mi domandò pensieroso.

Mi voltai verso di lui e trovai un sorrisino che scalpitava per mettersi in mostra. Caleb era talmente simile ad Alice, con quei capelli neri e quell'aria bonaria, che spesso dimenticavo che non fossero fratelli.

«Tornerà domenica» mi affrettai a replicare.

Era esattamente ciò che voleva sentirsi dire. Lo capii dal modo in cui i lineamenti del suo viso si rilassarono e le guance si tesero verso l'alto. La sua convinzione improvvisamente supportata dalla conferma che avevo appena pronunciato.

«Allora prepara uno zaino: sabato sera, dopo la festa della scuola, andremo lì». Si sporse per picchiettare con la nocca il vetro, e i miei occhi seguirono il suo movimento, osservando nuovamente il lago.

L'idea di infilarmi in un bosco ben oltre la mezzanotte non mi faceva impazzire di gioia, così come non ero del tutto convinta di voler replicare la serata precedente.

«Non vado troppo d'accordo con tenda e saccopelo» provai ad abbozzare. «Troppo campeggio da piccola» aggiunsi, stringendomi nelle spalle per scusarmi di quel rifiuto.

Avevo raccontato poco della mia vita agli altri. Non sapevo bene perché non mi andasse mai di condividere la mia infanzia con loro, forse perché cercavo di tenere a mente che io lì ero solo di passaggio: me ne sarei andata dopo poche settimane e avrei ricominciato da qualche parte, quindi perché ammorbarli con dettagli inutili?

Sapevo però che gran parte del mio rifiuto fosse riconducibile ad altro. Tra una domanda e l'altra, infatti, avrebbero iniziato a chiedere qualche informazione in più sulla mia famiglia, e io non avevo intenzione di rivelare a nessuno che mio padre fosse un professore folle e mia madre una fuggitiva seriale.

Caleb però seppellì i miei tentativi di tirarmi indietro con un'esplosione di risate. «Tenda?» ripeté scettico, mentre il suo torace continuava a sussultare. Poi, inarcò il sopracciglio, come se gli avessi proposto di ballare la samba nudo. «Credi che possa portare mia cugina in un posto senza idromassaggio?».

Indicò con il mento un punto alle mie spalle e seguii la linea tracciata dai suoi occhi con la chiara consapevolezza di trovare Alice, alla fine di quel percorso. E in effetti fu così: lei era ancora impegnata a ridere e scherzare con Dean, tuttavia non fu l'unica figura che i miei occhi incontrarono.

Con la schiena piantata su una delle colonne che dividevano la stanza dall'atrio, Alex se ne stava a picchiettare il piede contro il pavimento, nervoso. Attorno a lui, si era formata una piccola folla, come ogni volta in cui, in un liceo americano, il campionato di football si avvicinava e tutti sembravano nutriti di un fermento talmente incontrollato da essere perennemente su di giri. Lui però non sembrava partecipe di quell'entusiasmo. Mentre Philip gli avvolgeva un braccio attorno al collo e cercava di farsi bello con due cheerleader ferme di fronte a loro, Alex se ne stava con le mani seppellite nelle tasche dei jeans, osservandosi attorno distratto.

"Ci siamo già incontrati, prima?"

Il ricordo di quella domanda affossò le parole che Caleb stava ancora borbottando accanto a me, in merito allo chalet, alla strada da percorrere e alla festa a cui avremmo partecipato. Non m'interessava nulla. Nella mia testa, solo la sua voce; nei miei occhi, unicamente i suoi, che adesso si erano sollevati e avevano attraversato la stanza, per trovarmi lì: seduta su quel bancone bianco, con la luce che m'inondava il viso, le braccia, i capelli, mentre io avrei voluto tornare in disparte, nel mio solito cono d'ombra.

Eppure, non ci riuscii. Non mossi neppure un muscolo, non sbattei neppure le palpebre, mentre sentivo lo spostamento d'aria prodotto da Caleb accanto a me, che scalpitava per recuperare la mia attenzione. Non riuscii a fare niente di diverso che ricambiare quello sguardo.

Era come se, in quelle situazioni, l'equilibrio del mio corpo si rovesciasse. La tranquillità era stata soppiantata dall'agitazione, un sottile fremito aveva intagliato le mie ossa, i miei muscoli portando una strana tensione a gonfiarsi sottopelle. Dovevo far qualcosa per togliermi dalla testa tutta quella situazione: i medaglioni, quelle coincidenze... mia madre.

Mi voltai con urgenza verso Caleb, mostrando il mio sorriso migliore. «A che ora devo farmi trovare pronta?».

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