IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

2 - La festa (II)

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By Valeroot

«Serve una mano?».

Mi si spezzò il respiro, quando sentii una voce roca e divertita alle mie spalle. La mia testa scattò istintivamente nella direzione di quel suono, per associare un volto a quella domanda, e la mia mano si bloccò a mezz'aria, con le dita ancora contratte attorno a quell'ammasso di carta ruvida e bagnata.

Stava cercando di non scoppiare a ridere. Quello fu il primo dettaglio che notai del ragazzo davanti a me. E realizzai che il suo tentativo di rimanere impassibile era totalmente inutile, perché l'angolo della sua bocca si tendeva verso una fossetta incastonata sulla sua guancia destra.

Mi osservava divertito, con le caviglie incrociate e una spalla piantata alla colonna che divideva la cucina dal corridoio. Se non mi fossi trovata in quella situazione: a rubare kleenex nella cucina di qualche riccone, bagnando di acqua e di cloro ogni oggetto nel raggio di due metri, credo che lo avrei deriso anche io per quella posa granitica che aveva assunto.

«No grazie» mi affrettai a dire, distogliendo lo sguardo e riportandolo sulle mie gambe. Chissà cosa avrebbe pensato di una sconosciuta completamente zuppa d'acqua e rintanata in una stanza vuota, mentre il resto degli studenti festeggiava proprio lì accanto. Preferivo non pensarci.

«Sicura?» Lo sentii dire.

Mentre si avvicinava, il rumore dei suoi passi lenti sovrastò il fruscio dei fazzoletti che ancora muovevo distrattamente su ogni zona del mio corpo. Non mi ero accorta di quanto fosse alto, finché la sua ombra non si proiettò su di me. Centimetro dopo centimetro, la luce lasciò le mie braccia scoperte, mentre io ero ancora lì, continuando a sfregare la mia pelle, con i miei sensi immotivatamente in allerta sui suoi movimenti.

Non si fermò accanto a me. Così come se n'era andata, la luce tornò a far riflettere le goccioline d'acqua che costellavano il mio corpo, mentre il ragazzo mi superava disinvolto, andando ad arrestarsi solo di fronte all'immenso frigorifero incastrato all'angolo del bancone. Lanciai un'occhiata nella sua direzione e lo vidi aprire l'anta, osservando svogliatamente il contenuto.

Aveva piantato la mano sul lato del frigorifero, mentre il braccio flesso si contraeva al tamburellare delle sue dita sulla plastica dura. «Sicura che non ti serva aiuto?» ripeté con una nota di divertimento nella voce.

Mi accorsi in quel momento che stavo passando il tovagliolo per la quindicesima volta nello stesso punto e mi affrettai ad abbassare lo sguardo. «Sicura» confermai, imponendomi di smetterla di battere i denti. Sapevo che la temperatura dentro quella casa fosse più che accettabile, ma il mio corpo sembrava non rendersene conto. Non mentre il tessuto di quel maglione aderiva gelido alla mia pelle.

Con la coda dell'occhio, vidi lo sportello richiudersi. Lo sconosciuto doveva aver trovato ciò che stava cercando, perché lo schiocco tipico dell'apertura di una lattina spezzò il silenzio di quella stanza.

«Vai alla Churchill Accademy?» mi chiese con tono noncurante. E, mentre facevo segno di sì con la testa, percepii la sua voce avvicinarsi nuovamente a me.

Continuai a tamponare le mie gambe, senza sollevare lo sguardo dalle mani che cercavano di raggiungere ogni angolo possibile. Ero talmente bagnata, che più passavo quei fazzolettini, più sentivo di spargere l'acqua ovunque. Ne presi un altro, soffiando piano il mio nervosismo, in un paio di parole mormorate sottovoce.

«E tu?» mi affrettai ad aggiungere per non essere scortese. «Vai anche tu alla Churchill?».

Le mie premure si rivelarono completamente inutili perché il ragazzo non si degnò neppure di rispondermi. «Hai intenzione di finire tutti i tovaglioli di questa casa?» chiese pensieroso, mentre si appoggiava al bancone della cucina. Ma il suo tono non sembrava infastidito. Forse più... più ironico.

Se non fossi stata così in panico, mi sarei accorta che mi stava solo prendendo in giro, ma istintivamente sollevai lo sguardo e i miei occhi si puntellarono di vergogna, quando notai il quantitativo spropositato di carta che avevo utilizzato. Tutto il ripiano era sommerso di fazzolettini arrotolati e gocciolanti. Dio, avevo combinato un disastro.

«Dici che dovrei, non so... Lasciare dieci dollari per il disturbo?» mormorai, passando in rassegna il bancone.

Lo sentii appoggiare la lattina sulla penisola tra di noi. «Non so» ammise. Poi lo vidi abbassare di poco il mento, imitandomi nell'osservare lo scempio che avevo compiuto in quell'elegante cucina. «Ma non credo che i proprietari noteranno qualche tovagliolo, visto come sarà ridotto il resto della casa, domani.»

Il suo ragionamento non faceva una piega. Cosa potevano essere una decina di tovagliolini in confronto ai bicchieri che Alice aveva gettato sul pavimento? La mia moralità faceva acqua da tutte le parti, ne ero consapevole, ma mi ritrovai ad annuire rincuorata.

«E sai cosa penso, anche?» continuò lui, attirando nuovamente la mia attenzione. Tornai a osservarlo, ma dalla mia posizione riuscivo a scorgere solo il profilo dritto del suo naso e delle labbra gonfie. Fece una smorfia, che assomigliava tremendamente a un sorriso sarcastico. «Credo che possano sopravvivere anche con una felpa in meno» decretò e a quel punto voltò le spalle alla cucina, facendomi cenno di seguirlo con la testa. «Vieni con me» mi ordinò.

Lo vidi sfilare oltre il limite di quell'open-space, che sboccava su un atrio deserto, decorato con un tavolino in quarzo e grossi fiori bianchi. Dove diavolo stava andando? Non rimasi ferma a sufficienza per darmi una risposta, perché istintivamente avevo iniziato a seguirlo fino ai piedi di un'imponente scala di cristallo. Doveva esserci una legge non scritta per la quale il piano superiore fosse off-limits, perché in quel punto il silenzio era tagliato solamente dal leggero riverbero della musica che arrivava dal fondo della casa.

Il ragazzo prese a salire i gradini con passo annoiato, mentre io non la smettevo di guardarmi attorno. Appropriarmi di qualche pezzetto di carta andava bene, sporcare una cucina pulita lo ritenevo moralmente accettabile, ma rubare addirittura? Okay, era solo una felpa, ma era il principio che contava.

«Non credo che sia una grande idea» sussurrai, affrettandomi a raggiungerlo a metà scala. Il mio sguardo vagò sui gradini trasparenti e presi mentalmente nota di non spostare mai più gli occhi così in basso: quell'altezza mi faceva venire le vertigini.

«Perché?» mi chiese aggrottando la fronte. Non aspettò però che rispondessi a quella domanda. «Hai freddo» aggiunse serenamente. Poi seppellì le mani nelle tasche dei jeans e abbassò il viso, mentre continuava a camminare. A quanto pare, l'idea che ci fosse solo il vuoto sotto di noi non lo toccava minimamente, così come non sembrò affatto colpito dalla striscia di faretti che si accesero automaticamente, non appena iniziammo ad avanzare lungo il corridoio.

«Sì, beh, non credo che ai proprietari interessi, se mi hanno buttato nella loro piscina» ragionai distratta, ma non feci in tempo a terminare la frase che il ragazzo si bloccò a metà corridoio e per poco non rischiai di travolgerlo. Si guardò attorno con un ostentato interesse, che istintivamente mi fece mimare i suoi movimenti. Non riuscivo a capire cosa stesse cercando, perché io non vedevo proprio nulla. Solo quell'ammasso di opere d'arte astratte, che costellavano anche le pareti del salotto.

«Non mi sembra che ci siano altre persone, oltre a noi due» commentò, indicandoci con un gesto agile delle dita, «quindi non vedo dove sia il problema.»

Una logica ineccepibile la sua. Più solida di quella di un gangster dei peggiori bassifondi, dovetti ammettere. Ma prima che potessi replicare, superò una porta alla sua destra e mi ritrovai a seguirlo in un'ampia camera con le pareti azzurro pallido che si riflettevano sul parquet in legno scuro.

Una spaventosa quantità di trofei era accatastata con fare disordinato sull'imponente libreria accanto alla finestra, mentre una scrivania plumbea correva per tutto il lato corto. Impiegai un attimo per capire cosa avesse di diverso quella stanza rispetto al resto della casa: sembrava vissuta. Era ordinata certo, ma il portatile aperto sulla scrivania, i libri di testo abbandonati accanto ad esso e una quantità mostruosa di dvd sul mobiletto della televisione la rendevano meno asettica, rispetto a tutto il resto.

Quando i miei occhi incrociarono anche un gigantesco letto a due piazze, mi chiesi distrattamente cosa ci fosse di sbagliato in me, per decidere di seguire uno sconosciuto in un luogo tanto appartato, durante una festa dove erano tutti ubriachi.

Lui però non lo sembrava. Ubriaco, intendo. Prima aveva aperto solamente una lattina e in ogni caso si era già affrettato a prendere le distanze da me. Lo vidi raggiungere una specie di cassapanca nella quale frugò per un po', e forse furono proprio quei metri che ci dividevano a farmi sentire abbastanza a mio agio da rimanere sul limite di quella stanza, invece di rifugiarmi nuovamente al piano di sotto.

Infatti, nonostante le mie remore, sentivo il tremendo bisogno di disfarmi di quel maglione che prudeva e tirava verso il basso. Mi affrettai a sistemarlo una volta ancora, pregando di non bagnare irrimediabilmente anche il pavimento di quella camera.

Quando il ragazzo si voltò nuovamente nella mia direzione, vidi che aveva pescato una felpa blu da quel cassetto. Aveva un disegno familiare, una specie di aquila impressa in un punto appena sotto al colletto. Sapevo cosa rappresentasse: era il simbolo dei Falchi, la squadra di football della Churchill Accademy, proprio la medesima scuola privata alla quale James mi aveva iscritta. Era stata una specie di incentivo che l'università di Boston gli aveva offerto. Lui avrebbe guadagnato una cattedra da loro, io un posto in una prestigiosa scuola privata per ricchi snob. Eravamo tutti felici... Almeno sulla carta.

«Questa dovrebbe andare» mormorò avvicinandosi a me. Era la prima volta che lo osservavo per davvero. Voglio dire, stavamo parlando da una decina di minuti, ma avevo sempre fatto in modo di ritrovarmi fuori dalla sua portata, a causa dell'ovvio imbarazzo dettato dalla mia situazione. Eppure, anche adesso che lo guardavo con maggiore attenzione, ero sicura di non averlo mai visto a scuola, perché non era quel tipo di persona che avrei dimenticato tanto facilmente.

Aveva lineamenti severi. Non avrei saputo come descrivere altrimenti la proporzione di quei tratti dritti che scolpivano il suo viso. Eppure, non risultava tagliente, no, perché c'era qualcosa... Forse le labbra piene o il modo disinvolto con il quale si muoveva, o magari ancora i ricci che ricadevano morbidi sulla sua fronte, qualcosa insomma addolciva la rigidità del suo volto.

Tuttavia, quando fu a qualche passo da me, vidi i muscoli delle sue braccia contrarsi, la stoffa della sua maglietta tendersi e i suoi occhi... Quella fu la prima volta che li notai. Erano stati nascosti fino a quel momento dai capelli disordinati che giocavano a velarli, ma adesso erano lì, netti e decisi, che mi scrutavano attenti.

Non erano quei banali occhi azzurri che ero abituata a vedere in qualsiasi pubblicità alla televisione, nient'affatto. Erano di un colore glaciale, secco, lo stesso che immaginavo per il mare in tempesta. E in quel frangente mi ritrovai a pensare che mai paragone fosse stato più azzeccato, perché scorsi una sorta di lampo plasmare i tratti del suo viso.

Rabbia, incertezza... Forse un mix di entrambe, portarono a dilatare le sue pupille agitate, che si fermarono su di me, in un mutamento d'espressione talmente repentino da intimorirmi.

Il mio cervello si stava già chiedendo il perché di quel cambio d'atteggiamento, ma prima che potessi articolare la più sciocca delle domande, notai un altro dettaglio. Non stava osservando me. Non direttamente, per lo meno. Il suo sguardo era piantato sulla collana che spuntava fuori dal maglione largo di Alice. E, a giudicare dalla sua espressione, non era affatto contento di ciò che stava guardando.

«Sei già stata qui?» Fu la domanda secca, che risuonò tra quelle quattro mura.

Aveva parlato con tono basso e risentito, mentre i suoi occhi frugavano in maniera sfacciata nei miei, quasi cercasse una verità nascosta tra le pieghe del mio viso. Nonostante la vibrazione che aveva percorso il suo collo fino alla mascella, lo vidi incamminarsi verso di me con passo lento e la certezza che non mi sarei mossa da quella soglia.

E infatti non ci riuscii. Non riuscivo neppure a chiedergli perché mi stesse guardando in quel modo, cosa i suoi occhi stessero urlando nei miei. Mi fronteggiò con la consapevolezza che sarei rimasta intrappolata in quello sguardo, incapace di sottrarmi al suo astio, e per quello mi ritrovai a deglutire a vuoto, l'unica reazione che il mio corpo si concesse a quella situazione non preventivata. Cosa diavolo stava succedendo?

Il ragazzo si fermò solo quando fu a un passo da me. Abbastanza vicino da sentire un refolo d'aria calda infilarsi tra i miei capelli, ma a debita distanza dal mio corpo e dalla porta mezza aperta sul corridoio alle mie spalle. Lo vidi scoccarmi un'occhiata penetrante e in quel momento neppure realizzai, che avrei potuto risolvere quella situazione in un migliaio di modi diversi: tirandogli un pugno sul naso, ad esempio, o facendo un passo indietro, per tornare a rifugiarmi nel calore della festa e dei bassi, che riverberavano cupi dal piano di sotto.

No, in quel momento rimasi semplicemente immobile, troppo sconvolta da quel cambio d'atteggiamento per non sentirmi così... così insicura, così incerta e forse anche un po' spaventata.

Come se avesse letto con estrema chiarezza quelle emozioni sul mio viso, lo vidi chiudere gli occhi. Serrò le palpebre con un leggero tremito che smosse le ciglia lunghe e rilasciò un lungo sospiro, talmente controllato, che per un istante tranquillizzò persino me. Quando li riaprì, notai che qualcosa era nuovamente mutato nel suo atteggiamento. Sembrava più... controllato.

«Devo solo sapere se sei già stata in questa casa» ripeté con tono meno duro, rispetto a prima, ma una sfumatura aspra aveva comunque sporcato l'atteggiamento divertito che aveva avuto fino a qualche minuto prima.

Sembrava che avesse parlato direttamente con il mio corpo, perché senza neppure farci caso mi ritrovai a scuotere la testa. Non ero mai stata lì e di sicuro non ci sarei mai tornata, non dopo quella serata di merda.

Quei pensieri mi risvegliarono. Aggrottai la fronte e gli strappai la felpa dalle mani. «Si può sapere che problemi hai?» dissi, facendo un passo indietro. M'infilai la felpa senza neppure premurami di togliere il maglioncino prima e staccai lo sguardo da lui, giusto il tempo di far passare il tessuto sul mio viso. «Non sono mai stata in questa casa e non ci tornerò, contento?» ribadii, muovendo ancora un passo all'indietro.

Ero di nuovo nel corridoio e sobbalzai quando la striscia di faretti si accese automaticamente al mio passaggio. Dannate case da ricconi!

Lo sconosciuto non rispose, ma qualcosa nella sua espressione simulava una sorta di pentimento. Non gli diedi il tempo di reagire. Mi voltai di scatto e mi diressi verso quella scala di cristallo, che sembrava sospesa nel vuoto. Dovevo recuperare Alice e dovevo andarmene. Maledetto Massachusetts, maledetto Danvers, e maledetto James, che aveva deciso di trasferirsi lì. 

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