IGNI

By Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... More

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
18 - Il Sole
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

4- La Churchill Accademy (I)

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By Valeroot

Non avevo smesso di pensarci neppure per un istante. Avevo sentito quel pensiero aleggiare nella mia mente quando avevo recuperato Alice, quando l'avevo costretta a salire sull'auto e persino quando Caleb mi aveva richiamata e ci aveva raggiunte, per darmi un passaggio e riportarmi a casa. Avevo riflettuto su quell'incontro mentre mi lavavo i denti, mentre mi liberavo della felpa e del maglioncino ormai zuppi e persino quando avevo tentato di prendere sonno, facendo quel giochino di ripetere nella mia testa tutte le capitali che avevo visitato con James per addormentarmi.

Niente. Niente era riuscito a scardinare dal mio cervello quello sguardo secco che mi aveva fatta sentire come se fosse stato in grado di leggermi dentro. Come se riuscisse ad andare oltre a quell'immagine della nuova arrivata, che portavo sempre con me in ogni posto che visitavo. Mi aveva vista sul serio e, a giudicare dalla sua espressione, aveva trovato qualcosa che non gli era piaciuto affatto.

Lasciai andare il medaglione ovale che indossavo, dopo che i miei polpastrelli avevano continuato a rigirarlo, grattando sulla superficie irregolare per tutta la durata del viaggio. L'autobus cittadino impiegava otto minuti per percorrere l'intera Chase Street, la via dove vivevo. Se l'autista era il vecchio Roy poi, poteva impiegarne persino sei, con la sua guida al limite della legalità. Tuttavia quel giorno, il percorso che costeggiava il viale alberato della Churchill Accademy non mi era mai sembrato così lungo. Una manciata di minuti infiniti, nei quali non avevo fatto altro che agitarmi nervosa sul sedile, tentando di ignorare i miei pensieri.

Mi accodai con una goccia di apprensione al flusso di studenti in attesa di lasciare il mezzo. Frequentare quella scuola mi metteva ansia, e sapevo anche che, con le esperienze che avevo fatto in quei diciassette anni, gestire qualche studente un po' troppo espansivo non doveva essere un problema per me. Potevo infatti curare i morsi dei più comuni serpenti, conoscevo qualche parola in swahili, in portoghese e sicuramente qualche espressione in francese, tuttavia nonostante sulla carta potessi risultare la studentessa perfetta, le relazioni umane spesso mi mettevano a disagio.

Razionalmente, sapevo che la ragione fosse solo la scarsa abitudine: ero cresciuta con James e con una mezza dozzina di studiosi invasati di leggende Maya. Non c'era quindi nulla di male ad ammettere il mio nervosismo. Ma nonostante avessi già iniziato a frequentare le lezioni da un paio di settimane, non riuscivo a scardinare del tutto quell'agitazione.

Scesi gli ultimi gradini e sollevai lo sguardo sulla struttura gotica di fronte a me. L'imponenza della Churchill Accademy svettava inequivocabile tra gli altri edifici della zona. Il giardino elegantemente pareggiato e le ampie vetrate incassate in un moderno colonnato in pietra infondevano un'aurea di ricercatezza ed eleganza, che mi intimoriva oltremodo.

Io ero cresciuta a suon di campeggio nel deserto, camminate da sei ore e panini con il formaggio come ricompensa. Calzettoni di spugna e vestiti comodi avevano poi fatto il resto. Non ero proprio adatta a quel genere di posti e forse era per quello che apprezzavo così tanto Alice.

Lei non era una di loro. Una della cerchia degli snob, insomma. Nonostante i vestiti a sbuffo e i capelli sempre perfettamente intrecciati potessero trarre in inganno, Alice non si limitava a una facciata ben costruita. Lo si capiva dal fatto che non riuscisse mai a parlare a un tono di voce contenuto, e che le sue reazioni sarebbero state giudicate troppo spontanee e chiassose, da quell'ambiente raffinato in cui era cresciuta. No, Alice nonostante fosse nata tra ricchezza e privilegi era rimasta troppo concreta per quel mondo patinato. Quello stesso mondo che, invece, veniva abbracciato senza riserve dal resto dei componenti della sua famiglia. Caleb compreso.

«Quanto è stata imbarazzante mia cugina, ieri sera?» mi chiese proprio quest'ultimo, affiancandomi. Portava una felpa dei Falchi assurdamente simile a quella che giaceva nel cesto della mia biancheria sporca, e quel dettaglio mi distrasse per un attimo. Chissà chi si sarebbe svegliato quel giorno senza la sua divisa...

M'imposi di tornare alla domanda di Caleb e feci mentalmente il conto dei danni: Alice aveva cercato di ballare su un tavolo, abbracciata a una bottiglia di gin, come se fosse un cucciolo di koala da salvare, e aveva insultato Dean, urlando in mezzo a quell'improvvisata pista da ballo.

«Non troppo» mentii, incastrando le dita sotto ai passanti dello zaino. Sapevo che Caleb fosse sempre eccessivamente protettivo nei suoi confronti e non volevo alimentare le sue paranoie. «Cercherei solo di capire cosa sta succedendo tra lei e Dean» aggiunsi a beneficio dei suoi dubbi. «Mi è sembrata abbastanza sconvolta.»

Caleb non replicò, ma lo vidi pressare le labbra in una smorfia insoddisfatta, mentre smuoveva i capelli lisci che svolazzavano al vento. Sapevo quale fosse il problema: nessuno di noi avrebbe potuto prendersela troppo con quel ragazzo. Voglio dire, era palese che strisciasse in cerca di un briciolo di quelle attenzioni, che Alice generalmente non gli concedeva. Condividevamo quindi lo stesso disagio, nel dipingere lei come la vittima tra loro due. E Caleb ne era consapevole esattamente quanto me.

«Devo andare a lezione» mormorò nervoso, facendo un passo all'indietro, verso quella gigantesca costruzione in vetro, che assomigliava ad una serra. Ancora non avevo capito che genere di incontri si tenessero lì, ma fortunatamente il mio piano didattico non aveva elementi che sembrassero richiamare al giardinaggio. «Speriamo che a pranzo non facciano una delle loro sceneggiate» aggiunse, scuotendo il capo. Non ci credeva lui e, onestamente, non ci credevo neppure io.

Finsi di farmi il segno della croce, anche se non ero esattamente religiosa, visto che l'unico esempio che avevo avuto nella mia vita era James, sempre troppo coinvolto dalle religioni politeiste per darmi un vero esempio di fede e devozione cristiana.

«Ci vediamo più tardi» lo salutai, risalendo i pochi gradini in pietra, che mi avrebbero condotta direttamente nel corridoio dedicato ai laboratori.

L'interno della scuola era sempre lo stesso: caldo, elegante e luminoso. Era evidente che nonostante i due secoli sulle spalle della Churchill Accademy, la scuola fosse stata ristrutturata di recente. Anche se alcuni pezzi storici erano però rimasti, come i lampadari a cascata che mi facevano chiaramente supporre che l'architetto avesse una sorta di fissazione o ossessione per i film ambientati a Versailles.

Circumnavigai il tavolino con i moduli per l'iscrizione ai corsi extrascolastici e iniziai a percorrere il lungo corridoio, che dava sul campo da football.

Avevo il sospetto che chimica alla prima ora del lunedì fosse illegale almeno in una ventina di Stati, ma il produttivo Massachusetts se ne infischiava della mia scarsa propensione per le materie scientifiche. In ogni caso, i lati positivi della Churchill Accademy surclassavano nettamente gli aspetti negativi. Era l'unica della zona a proporre una serie di corsi extra, che si scostavano dai banali laboratori di falegnameria, o pittura. Filosofia, fotografia, lingue europee, recitazione... Tutte alternative che potevano arricchire il curriculum della mandria di studenti ipercompetitivi che mi circondava. E forse era anche per quello che sentivo una costante pressione su di me.

Presi posto in uno degli ultimi banconi, dove una serie di becher e di provette trasparenti erano state accatastate con fare disordinato in un cestino di metallo. Nonostante non fossi un asso nei bilanciamenti e nelle ossidazioni, non mi pesava eccessivamente frequentare quel corso, probabilmente anche a causa del suo insegnante.

Il professor Webb con il passare degli anni non aveva acquisito quella sicurezza che ci si aspettava da un uomo della sua età. Faticava a trovare un dialogo con i suoi studenti e non riusciva ad imporsi sulla classe. Stava semplicemente impalato davanti alla lavagna, borbottando qualche spiegazione agli studenti che si erano trovati loro malgrado in prima fila. Dal secondo banco in poi, nessuno stava più seguendo la lezione. Due ragazzi davanti a me si stavano scambiando alcune foto con il cellulare e uno stava persino guardando l'ultima puntata del trono di spade.

Scossi la testa e tornai alle mie reazioni chimiche. Bilanciamenti, reazioni esotermiche, processi correlati... Arabo, per una come me, ma mi concentrai comunque sui miei appunti. Avendo viaggiato per tutta la vita, avevo imparato a studiare in qualsiasi ambiente, senza farmi distrarre da ciò che avevo attorno. Era un po' come dormire: mi bastava una sedia ed ero capace di occupare anche otto o nove ore, senza rendermi conto di ciò che accadeva a due passi da me. Era stato l'istinto di sopravvivenza a farmi sviluppare quella capacità. Niente era peggio di dover rimanere svegli, mentre tuo padre ti stava portando per dodici ore a fare la traversata del Gobi.

«È sbagliato.»

Non ebbi neanche il tempo di realizzare che quella voce profonda ed estremamente seria non poteva appartenere alla mia vicina di banco Jessica, che la mia testa scattò a destra, trovando il ragazzo della sera precedente.

Stesso sorriso ironico, stesse iridi azzurre piantate nelle mie, stessa fossetta sulla guancia destra, che sembrava sottolineare il suo divertimento, per come fosse riuscito a cogliermi di sorpresa anche questa volta.

Il nostro sguardo si era incrociato sopra alla fila di provette vuote, che delimitavano la mia parte di bancone dalla sua. Le spostò infastidito, spingendole con le dita lunghe. Per una qualche ragione, sembrava trovarle estremamente irritanti, ma quando tornò a osservarmi, il sorrisino beffardo era tornato a incurvare le sue labbra.

«È sbagliato» ripeté lo sconosciuto, mentre si posizionava pigramente sullo sgabello accanto al mio. Aveva piantato il gomito sul tavolo, mentre la sua mano mulinava nei capelli, stropicciando i ricci scuri. Sembrava ancora mezzo addormentato, a giudicare dagli zigomi rossi e dagli occhi socchiusi, eppure qualcosa lo aveva spinto a decidere di sedersi proprio accanto a me.

«Cosa?» farfugliai, alla fine di quell'analisi.

Lo vidi tentare di trattenere un sorrisino pigro. «Cos'è sbagliato?» ripeté. Poi le sue labbra si piegarono nuovamente in un ghigno. «Tutto.»

Sollevai gli occhi al cielo. Non intendevo chiedergli davvero spiegazioni, la mia era stata solo una reazione istintiva. Più che altro, mi stavo domandando cosa ci facesse lì, ma a quanto pare il mio cervello non gradiva particolarmente le sorprese, perché mi sembrava di pensare alla metà della velocità rispetto al solito.

«No, intendo: cosa vuoi?» specificai.

Ignorò la mia domanda e la sua mano si avvicinò al mio quaderno. Un polso largo e ambrato tranciò di netto la mia visuale, inserendosi tra i miei occhi e la pagina spiegazzata. La afferrò, trascinandola a sé e, mentre ascoltavo il fruscio delle pagine che scivolavano tra loro, mi chiesi cosa diamine volesse fare con i miei esercizi.

«Questo è chiaramente sbilanciato» iniziò con fare pratico, picchiettando l'indice sul foglio. «Mentre qui hai perso totalmente l'idrogeno.»

E chissenefrega, avrei voluto rispondere. Ma non feci in tempo neppure ad aprire bocca che, con un gesto veloce, la sua mano si avvicinò alla mia. Osservai quel movimento, con un curioso distacco che mi rese evidente quanto quella situazione mi avesse colta di sorpresa.

Con le dita pinzò la sommità della penna che stavo ancora stringendo, sciogliendo la mia presa. Impiegò poco a rubare la mia biro, ma impiegò ancor meno a decidere di scarabocchiare qualcosa sul mio quaderno, senza neppure curarsi di chiedermi il permesso o di spiegarmi cosa avesse intenzione di fare.

Stava correggendo i miei compiti. Lo realizzai un istante dopo, troppo ferma a guardare quella mano parzialmente chiusa a pugno, talmente grande da coprire tutte le annotazioni e i grafici che avevo disegnato, per rendermi conto di ciò che stesse facendo. Quando, però, seguii quelle vene in rilievo che sboccavano dal polsino della felpa, fino alla biro salda tra le sue dita, trovai una linea nera che aveva cancellato l'ultima reazione chimica da me risolta.

Si voltò brevemente nella mia direzione. Il suo sguardo era torvo e incredulo. «Dovresti davvero imparare la legge di Lavoisier» commentò strappandomi da quell'analisi.

Non nascosi la mia espressione scocciata, ma sfortunatamente non poté coglierla, dal momento che si era voltato nuovamente a correggere i miei compiti.

«E tu dovresti davvero rifarti una vita lontano da me, dopo ieri» replicai per attirare nuovamente la sua attenzione.

Non riuscii a colpirlo. Credevo di poterlo fare, credevo di essere stata abbastanza acida, ma lui continuò a correggere le equazioni, limitandosi a scuotere la testa di tanto in tanto.

«Pensavo di averti già vista, tutto qui» replicò tranquillamente. Aveva infilato una mano tra i capelli per sorreggere il capo e in quel momento realizzai che sembrava davvero stanco, come se non dormisse da giorni. Probabilmente era proprio così: io me n'ero andata da quella festa subito dopo il nostro scontro, ma forse lui era rimasto per un bel pezzo. «Per quello ti ho chiesto se fossi già stata in quella casa» continuò.

Se qualcuno avesse osservato la scena dall'esterno, non avrebbe minimamente dubitato delle sue parole. Era tranquillo, sfacciato, e sostenere una conversazione con me, mentre faceva calcoli matematici a mente, non sembrava impegnarlo più di tanto. Eppure io non avevo dimenticato lo sguardo freddo e duro, con il quale mi aveva inchiodata la sera prima.

«Quindi te lo chiederò di nuovo» riprese di punto in bianco. «Ci siamo già visti?».

Il tono definitivo della sua voce mi portò a rialzare gli occhi su di lui. Aveva smesso di scrivere. La penna era stata riposizionata sul mio quaderno, ed era tornato ad osservarmi con quello sguardo inquisitore che mi faceva venir voglia di scappare e congelarmi sul posto insieme.

Perché insisteva? Avevo già risposto a quella domanda. E nonostante questa volta il suo viso fosse tagliato da un sorrisino ironico, il suo sguardo si manteneva serio e le iridi azzurre si erano ridotte a due spilli, che sondarono il mio volto in maniera oltremodo indiscreta, con un'attenzione che cozzava con la maschera rilassata dei suoi lineamenti. Perché improvvisamente mi sentivo sotto esame?

Decisi comunque di assecondarlo. «Non credo» replicai pensierosa. Incontravo un mucchio di gente, a causa della vita che conducevo. Feci mente locale degli ultimi Stati che avevo visitato: Giordania, Perù, Kenya... Recentemente non avevo frequentato molti posti gettonati dai turisti. «Dove hai vissuto nell'ultimo anno?» tentai, inclinando il capo per osservarlo meglio.

Neppure mi ero accorta che a seconda delle domande, i nostri corpi continuavano ad avvicinarsi e allontanarsi, come sollecitati da un elastico. Quando lui chiedeva, io mi allontanavo. Se lasciava la presa, tornavo ad appoggiare i gomiti sul tavolo. Questa volta però, fu lui a scostarsi.

Forse perché era così alto, forse perché il suo viso aveva sovrastato il mio per tutto quello scambio, ma percepii nettamente il suo corpo allontanarsi dal mio, mentre l'ombra prodotta dalla sua statura si spostava dal mio quaderno.

Si leccò il labbro inferiore lentamente, mentre afferrava la bretella del suo zaino. Il suo cervello questa volta era troppo concentrato su qualcosa, per ricordarsi di mantenere l'atteggiamento indifferente che aveva mostrato fino a quel momento.

«In giro» rispose con tono neutro, prima di avvicinare due dita alla fronte. Le staccò in segno di saluto e i suoi occhi tornarono su di me solo per un istante, prima che si dileguasse verso il bancone occupato da Philip.

Lo vidi lasciare la cartella a terra, buttandosi nuovamente sullo sgabello e, solo in quel momento, mi resi conto che era la seconda volta che parlavamo e ancora non sapevo come si chiamasse. Non sapevo chi fosse, non sapevo cosa volesse da me... La lista delle mie mancanze era lunga e fitta, come sempre.

Scossi la testa. Non doveva interessarmi. E nonostante sapessi di aver ragione, non riuscivo a togliermi dalla testa quel comportamento così assurdo. Prima complottava con me in cucina, poi mi aveva praticamente accusata di essere già stata in quella casa, e subito dopo mi aiutava con i compiti di chimica...

Solo in quel momento mi ricordai degli esercizi che aveva corretto. Abbassai lo sguardo su quella grafia decisamente meno tondeggiante della mia, piccola, ma comunque abbastanza ordinata. Aveva sistemato tutto: cerchiato gli elementi da controllare, aggiunto le cifre esatte affinché il bilanciamento fosse corretto... Aveva persino messo un punto esclamativo sull'idrogeno che avevo dimenticato!

Sul fondo della pagina, però, fu una scritta lasciata lì quasi per caso, ad attirare la mia attenzione.

Legge di Lavoisier: se un sistema è chiuso, nulla si crea e nulla si distrugge, perché tutto si trasforma. 

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