Ember

FDFlames

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[Fantascientifico/Distopico] 🏆VINCITRICE WATTYS 2021🏆 Serie "Ember" - Libro 1 Ember è il nuovo nome che l'u... Еще

Premi e Riconoscimenti
Aesthetic dei Personaggi Principali
Glossario e Pronunce
Prefazione
Mappa
Prologo I
Prologo II
Prologo III
Prologo IV
Parte I - L'Imperatore lo sa
Capitolo Uno
Capitolo Due
Capitolo Tre
Capitolo Quattro
Capitolo Cinque
Capitolo Sei
Capitolo Sette
Capitolo Otto
Capitolo Nove
Capitolo Dieci
Capitolo Undici
Capitolo Dodici
Capitolo Tredici
Capitolo Quattordici
Capitolo Quindici
Capitolo Sedici
Capitolo Diciassette
Capitolo Diciotto
Capitolo Diciannove
Capitolo Venti
Capitolo Ventuno
Capitolo Ventidue
Capitolo Ventitré
Capitolo Ventiquattro
Capitolo Venticinque
Capitolo Ventisei
Capitolo Ventisette
Capitolo Ventotto
Capitolo Ventinove
Capitolo Trenta
Capitolo Trentuno
Capitolo Trentadue
Capitolo Trentatré
Capitolo Trentaquattro
Capitolo Trentacinque
Capitolo Trentasei
Capitolo Trentasette
Capitolo Trentotto
Capitolo Trentanove
Capitolo Quaranta
Capitolo Quarantuno
Capitolo Quarantadue
Capitolo Quarantatré
Capitolo Quarantaquattro
Parte II - L'Onirico
Capitolo Quarantacinque
Capitolo Quarantasei
Capitolo Quarantasette
Capitolo Quarantanove
Capitolo Cinquanta
Capitolo Cinquantuno
Capitolo Cinquantadue
Capitolo Cinquantatré
Capitolo Cinquantaquattro
Parte III - L'Aldilà
Capitolo Cinquantacinque
Capitolo Cinquantasei
Capitolo Cinquantasette
Capitolo Cinquantotto
Capitolo Cinquantanove
Capitolo Sessanta
Capitolo Sessantuno
Epilogo
Playlist

Capitolo Quarantotto

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FDFlames

20 novembre 1581

Rozsalia aveva deciso di fermarsi. Forse non aveva valutato nel modo esatto la distanza che la separava da Noomadel. L'immensa distesa erbosa e collinare che precedeva la città degli Yksan l'aveva tratta in inganno. Non c'era una vera e propria strada che la giovane potesse seguire, così aveva creato un sentiero da sé. Ma era sola, era stanca, ed entro il tramonto aveva deciso di fermarsi.

Quella mattina era ripartita di gran lena, ma la sua energia era rapidamente svanita. L'aria fredda e umida delle colline le faceva pesare ogni passo che compiva, mentre i suoi piedi erano rallentati e infreddoliti dall'acqua che si insinuava nei suoi stivali. Doveva aver piovuto da poco, e le pozzanghere che si formavano alla base delle colline erano enormi. Rivoli che scivolavano dai versanti andavano a formare rigagnoli, fiumi, e piccoli stagni, che Rozsalia non sempre poteva aggirare.

Nel pomeriggio, però, era tornato il sole. Rozsalia decise di prendersi una pausa, fosse solo per lasciare asciugare i vestiti, la pesante giacca di pelliccia di yak che la riparava dal freddo, ma non dall'umidità.

Si fermò in una piccola valle, abbastanza riparata dal vento che spirava da est, dal mare, e dove il terreno era abbastanza asciutto. Sistemò una sorta di steccato ricavato dall'intreccio di alcuni bastoni che aveva raccolto nella foresta, e che avrebbe usato quella sera per accendere un fuoco, e vi stese la pelliccia. Poi estrasse il sacco a pelo dalla sua borsa, e lo stese lì accanto – non avrebbe potuto aspettare che la sua giacca si asciugasse senza qualche altro riparo dal freddo e dall'umidità. Si tolse gli stivali, e li posò a loro volta sullo steccato, in modo da non tenerli a contatto con il terreno, ancora alquanto umido, se non tanto quanto in altri punti della valle.

Si infilò nel sacco a pelo, alla ricerca di un sollievo da quel freddo che si era ormai insinuato nelle sue ossa, e che le aveva appesantite. Si strofinò le braccia, ora coperte solo da una camicia e una giacca relativamente leggera, e cercò di tirare verso l'alto le proprie calze, solo leggermente bagnate, e che avrebbero ancora potuto scaldarla, se avessero coperto meglio le sue caviglie.

Sospirò, infine, arrendendosi a quel freddo che la stava divorando. Alzò lo sguardo al sole, pallido e offuscato dalle nuvole. Ma erano nuvole bianche e sottili. Non si sarebbe messo a piovere di nuovo.

Avrebbe riposato solo per qualche momento, mentre il calore calante del sole avrebbe asciugato la sua pelliccia. Rozsalia sospirò, liberandosi dai brividi di freddo che irrigidivano la sua spina dorsale. Si lasciò andare, scivolando in un sogno, un sogno accogliente, e caldo, nel quale intravide Solean.

L'abilità di Rozsalia stava nel rendersi conto del passaggio dalla veglia al dormiveglia. Essendo cosciente in quella seconda fase, era una semplice conseguenza quella di rendersi conto anche di stare sognando. Era un passaggio, semplice ma per nulla istintivo, come attraversare l'uscio di una porta, una che collegava due dimensioni, due mondi. Il Reale e l'Onirico.

«Solean?» Rozsalia si rivolse alla figura al centro della stanza. Era la stanza di un qualche palazzo, arredato in uno stile antico. Era un salotto, si rese conto. Il pavimento era in legno scuro, e Rozsalia poteva apprezzarne l'odore. Era dello stesso colore delle sedie imbottite che si trovavano attorno ad un tavolo rettangolare, che si trovava dal lato opposto della stanza rispetto a un camino. E di fronte al camino, nel quale danzavano fiamme rosse e arancioni, dello stesso colore del tappeto, vi erano due poltrone, su una delle quali stava seduto Solean, intento a osservare il fuoco.

I suoi capelli erano più lunghi di come Rozsalia li ricordava dalle ultime volte in cui lo aveva sognato, ma era anche vero che era ancora attaccata all'immagine di lui che risaliva ormai a due anni addietro.

La cascata di lisci biondi ormai raggiungeva la metà della sua schiena, e la sua figura sembrava più fragile, le sue gambe più secche. E quando Rozsalia lo guardò in volto, si accorse che anch'esso era più smunto. E i suoi occhi, di quel caldo colore del miele, erano l'unica traccia di quell'uomo che la portarono a esclamare il suo nome, e ad abbracciarlo.

«Rozsa,» Solean chiamò il suo nome, la sua voce leggera, come se parlare gli costasse un'immensa fatica. «Sei qui. Sei vicina, ormai.» sospirò, stringendola a sé con tutta la forza che aveva, la forza di un bambino.

Rozsalia si staccò lievemente dall'abbraccio, e fece per allontanarsi, per sedersi sulla sedia di fronte a lui, quando Solean le fece cenno di sedersi sulle sue gambe.

La giovane esitò, temendo che si sarebbero spezzate come ramoscelli secchi.

«Sono qui.» disse lei, sorridendo, «Arriverò oggi stesso, lo prometto.»

«È un peccato.» sospirò Solean.

Rozsalia ebbe un colpo al cuore, e alzò lo sguardo, cercando gli occhi di lui, che erano fissi sulla sua figura, mentre le sue mani percorrevano lentamente la curva della sua schiena. «Che cosa intendi dire?» domandò la giovane, preoccupata.

«È tardi.» disse Solean, «Solo un poco troppo tardi.» continuò, mentre ora aveva preso a passare una mano tra i suoi capelli, giocando con quel rosso, affascinato da esso come lo sarebbe stato di poter toccare il fuoco senza scottarsi.

«Come sarebbe a dire? Il nostro destino è di stare insieme. E sono qui, con te, ora.» disse Rozsalia, cercando una speranza che Solean stava violentemente strappando via dalle sue mani, perché affrontasse la realtà, e la guardasse negli occhi.

«Che ore sono, Rozsa?» domandò Solean, apparentemente cambiando discorso.

La ragazza non capì il motivo di quella domanda, tanto più perché si trovavano in un sogno, ma andò comunque alla ricerca di un qualche orologio, e ne trovò uno a pendolo, alla parete di fronte a sé.

Il vuoto tra un ticchettio e l'altro sembrava durare molto più di un secondo. Sembrava un intero minuto. Sembrava un'ora. Sembrava l'eternità.

«Le quattro del pomeriggio.» balbettò lei, insicura, non capendo dove Solean volesse arrivare, fino all'ultimo.

«È giorno, Rozsalia. E questo è un sogno.» disse Solean.

Rozsalia indietreggiò, rendendosi conto di ciò che sia l'aspetto che la voce di Solean significassero, insieme alla sua aria sconsolata.

Solean si alzò dalla sedia, massaggiandosi la tempia sinistra. Ma non erano i suoi soliti capogiri. Rozsalia lo capì. I ricordi non avevano nulla a che fare con quel dolore.

«Mi sento come se fossi rimasto solo, chiuso qui dentro.» disse Solean, facendo cenno alla stanza, attorno a sé. «Questo è il salotto delle mie stanze, qui al Palazzo di Noomadel.» spiegò, «Ma so che non è reale. Non c'è nessuno. E poi, posso arrivare fino in camera, posso scendere le scale, ma dopo solo qualche gradino, ho come questa sensazione...» tentò di farle capire, «La sensazione che non dovrei essere lì.»

Si fermò sui suoi passi, mentre aveva cominciato a camminare avanti e indietro, per la lunghezza del tavolo di legno, posando la mano sullo schienale di ogni sedia, accarezzandole una ad una. «Questo non è reale.» disse Solean. «Tu ne sei la prova.» la indicò.

«Io?» Rozsalia si portò entrambe le mani al petto, e lo guardò con occhi persi e ingenui, come se si sentisse accusata di un qualche crimine.

«So che non è reale.» riprese a dire Solean, serio, «Da ieri sera non ho mangiato, non ho bevuto, non ho dormito, non ho incontrato nessuno, e ora tu sei entrata da quella porta come se niente fosse!»

Le venne più vicino, tornando di fronte al camino, dove l'aveva lasciata, e senza preavviso, la strinse in un altro abbraccio. «Questo è un sogno, Rozsa. Deve essere un sogno. Non può essere la realtà. Non voglio che sia la realtà. È troppo buio. È troppo freddo. Voglio uscire da qui.»

La giovane prese a tremare, man mano che i singhiozzi di Solean si tramutavano in un pianto.

Rozsalia prese il suo viso tra le mani, accarezzando le sue guance e guardandolo negli occhi. «Andrà tutto bene.» promise lei, in un sussurro, «Non importa se questo è un sogno, finché noi stiamo insieme.»

Solean annuì, e Rozsalia sorrise, prima di protendersi in avanti, solo di un poco, quanto bastava per scambiarsi un breve bacio. Un bacio vero. Un bacio reale.

«Non c'è differenza.» disse lei.

«Non c'è differenza.» le fece eco lui.

Quando l'intreccio delle loro mani si sciolse, Rozsalia aprì gli occhi per trovare davanti a sé le nuvole, di un bianco rosato. Il tramonto, pensò.

Non aveva tempo da perdere. In fretta e furia, infilò gli stivali e la pelliccia. Sistemò di nuovo il sacco a pelo nella sua borsa, ma non si preoccupò di impacchettarlo come avrebbe dovuto. Non avrebbe mai più dormito lì dentro.

Avrebbe sfidato il freddo della notte, senza timore. Avrebbe cavalcato la sua Fenice, se avesse potuto. Ma sarebbe arrivata a Noomadel quello stesso giorno.

Avrebbe riabbracciato Solean quella stessa notte.

«Non mi interessa!» sbottò Kerol, lasciando andare le sbarre di ferro, e ritirandosi nell'oscurità della sua cella, dandogli le spalle. Era una menzogna, ma era l'unica cosa che avrebbe mai potuto dire, messa di fronte a quei fatti.

«Questa è una bugia.» disse infatti l'Imperatore, «Una bugia visibile da ogni Ember.» aggiunse.

Kerol si voltò lievemente, lanciandogli un'occhiata da far gelare il sangue. Ma nelle vene dell'Imperatore non scorreva sangue. Scorrevano informazioni, algoritmi incomprensibili a ogni Ember, fonte di una verità accessibile a lui solo.

«Mi fa solo sentire come se stessi sprecando il mio tempo, chiusa qui dentro, isolata dal mondo.» mentì di nuovo. Ma non era del tutto una bugia.

«Se anche avessi a disposizione tutti gli Yksan con i quali condividesti il tuo letto per tutti gli anni passati a Noomadel, ancora non sarebbe più lontana da te la sensazione che provi ora.» disse l'Imperatore, «Al contrario, a essa si sommerebbe il senso di colpa, e la vergogna per poter essere definita un'ipocrita.»

Kerol arrossì. Non ammise che l'Imperatore aveva ragione. Si limitò a restare in silenzio. L'Imperatore sapeva di avere ragione. Almeno, il suo orgoglio sarebbe potuto rimanere il più possibile intatto, se la sua bocca fosse rimasta chiusa.

Ma, prima di tutto, doveva ammetterlo a se stessa. Questo lo capiva anche da sé. Ciò che l'Imperatore le aveva appena rivelato l'aveva ferita profondamente, questo era un dato di fatto. Il motivo, quello era ancora da vedere.

Per tutto quel tempo, non le era giunta una sola notizia di Larenc, tanto che era rimasta all'oscuro anche della sua vittoria a Fersenvar. Ora, invece, l'Imperatore in persona giungeva alla sua cella per comunicarle che il posto da lei tanto ambito le era stato sottratto da Loura, quella strega ingorda e deforme. L'odio avrebbe minacciato di rendere Kerol ancora più brutta di lei.

Si limitò a mordersi il labbro, ripetutamente, fino a farlo sanguinare. Un dolore minimo, controllato, come avrebbe fatto bene a controllare anche la sua mente, sulla quale aveva una presa troppo leggera, che sentiva scivolare via, troppo facilmente, troppo in fretta.

Se l'Imperatore era giunto fino a Gejta per avvisarla della notte che Larenc aveva passato con Loura, doveva esserci un motivo, uno che si nascondeva dietro alla sua reazione. La sua prevedibile reazione. Negare che le importasse qualcosa, ammettere che non era così, cercare di riscattarsi.

E come? Andando avanti? E come? Si chiese ancora. In che modo avrebbe potuto dimostrare a se stessa, a Larenc, all'Imperatore, a Zena, di essere capace di andare avanti da sola, di valere di più? Come poteva dare a tutti la prova che non le importava?

Non poteva. Kerol lo capì immediatamente. Quindi era questo, che l'Imperatore voleva? Metterla di fronte all'evidenza? Costringerla ad ammettere che il fatto che Larenc potesse essere felice senza di lei, il fatto di non essere più la sua partner, la stava ferendo a morte? Voleva costringerla a pregarlo di farla tornare all'Accademia? Mai. Non sarebbe mai accaduto. Kerol non si sarebbe mai abbassata a tanto. Lo sapevano entrambi.

Eppure, in lei, l'idea di avere un pretesto per uscire da Gejta, mascherabile con la gelosia, non sembrava poi così insensata.

No, ripeté a se stessa. Se c'era una cosa che non aveva ancora perso, quella era l'orgoglio. E vi sarebbe rimasta aggrappata con le unghie e con i denti, ma nessuno glielo avrebbe portato via. La libertà, la vita, persino la bellezza. Anche quella avrebbero potuto sottrarle, il tempo e quella dannata cella lontana dal sole. Ma non il suo orgoglio. Kerol non avrebbe mai chiesto un favore, nemmeno il più misero. Non avrebbe mai pregato nessuno. Tantomeno il mostro bianco che si trovava dall'altro lato delle sbarre.

La sua rabbia fu svelta a rivolgersi a Larenc. Era lui il codardo che non aveva saputo resistere ai propri istinti. Era lui l'idiota che pensava di poterla tenere all'oscuro di tutto. Era lui l'ipocrita che le aveva offerto la stessa mano che aveva appena accarezzato un'altra donna.

Sì, era gelosia. Era una sensazione distinta, semplice da definire. E ormai aveva invaso il suo cuore, rivelandole la sua esistenza. Ma perché il suo cuore tornava da lei solo quando doveva soffrire? Che cuore pauroso, doveva avere. Che cuore inetto e codardo batteva nel petto di una donna tanto forte e coraggiosa.

Ma il cuore non rivela la nostra identità. Rivela la nostra essenza. E possiamo tradirla tutte le volte che vogliamo.

Kerol lo faceva costantemente, e ormai quel cuore non lo sentiva più suo.

«Larenc non è come te.» riprese l'Imperatore, senza interrompere il filo dei suoi pensieri, ma inserendosi nella conversazione che Kerol credeva di aver avuto solo con se stessa.

«È il tuo esatto opposto, in questo senso.»

«Che cosa vorresti dire?» Kerol aggrottò le sopracciglia. Da tempo aveva abbandonato ogni forma di rispetto, nei confronti dell'Alto Imperatore.

«Il suo cuore è forte, ma Larenc sceglie di essere debole.» continuò lui, «Non vede più un motivo per cui combattere. Non vede più un motivo per essere sincero. Quindi mente.»

«E non si rende conto di quanto faccia male agli altri? Di quanto faccia male a me?» chiese Kerol, portandosi una mano al petto, «È proprio uno stupido.» scosse la testa, «Ora mi dirai che non gli importa più nemmeno di me, e che non vede un motivo per riportarmi all'Accademia, vero? Mi dirai che non gli è mai importato. E io ti crederò, perché dentro di me so che è così.»

«Ma, dentro di te, tu sai anche che il tuo cuore è un gran bugiardo.» disse l'Imperatore.

«Non è—» No. Non aveva senso, mentire di nuovo. Gli avrebbe solo dato ragione.

«Sii onesta con te stessa, Lady Kerol.» continuò l'Alto Imperatore, «Accetta il dolore che provi. Accetta quella gelosia. Ammetti a te stessa che stai cominciando ad amare quell'idiota

Kerol si morse il labbro, di nuovo. «Questo è ciò che vuoi tu.» si rese conto. Alzò lo sguardo, i suoi occhi di ambra pieni di fuoco e di rabbia. «Ciò che tu vuoi che io faccia.»

«Questo è il tuo destino, Lady Kerol.» la corresse l'Imperatore, prima di voltarsi, e andarsene, lasciandola sola.

Facile. Troppo facile, toglierle ogni scelta, in quel modo. Destino. Inevitabile.

Pensava che si sarebbe rassegnata tanto facilmente? No, l'Imperatore conosceva la sua indole. Sapeva che avrebbe combattuto. Ma era Kerol a sapere quanto fosse inutile, ormai.

Avrebbe combattuto solo per perdere, o si sarebbe arresa solo per rimpiangere di non aver combattuto.

Il paradosso del castello assediato. Le parole di Larenc le tornarono alla mente, e insieme a esse il suo viso, e insieme a esso una sensazione dolce e amara insieme.

E senza aver combattuto, Kerol capì di avere perso.


Spazio autrice

Bentornati, miei carissimi Ember!

Dunque, due scene distinte: Rozsalia e Kerol.

Rozsalia e Solean sono teneri, come al solito, e tra poco sembra che la nostra eroina dai capelli rossi raggiungerà Noomadel. Ma noi sappiamo che è troppo tardi, hehehe.

Che cosa pensate che sia successo a Solean, dopo quella batosta? Sarà diventato un fantasma o forse non è così grave?

E poi c'è Kerol che non arriva a diventare romantica (quello mai!) ma comunque sembra intenerirsi un attimino. Credo che sia una delle ship meno popolari, quella tra lei e Larenc, ma vi chiedo comunque... cosa pensate che succederà a riguardo? E che mi dite di Loura, nel caso in cui Larenc cambiasse idea?

F. D. Flames

Ogni immagine utilizzata appartiene al rispettivo artista.

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