Fuga verso il Chondath (Ches 1331 - Tarsakh 1331)

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Arrivammo a Khôltar alle prime luci dell'alba. Dimlen si era preparata per una fuga in grande stile: aveva rubato al padre una grossa somma di monete e aveva contattato un bardo di sua conoscenza perché ci aspettasse a Khôltar con una carovana di mercanti pronti a partire verso il cuore dello Shaar. Non restammo nella Città di Ferro per più di un'ora: Rajaput Tiket, il capo-carovana, ci consegnò uno zaino e dei vestiti, poi ci fece entrare nell'unico carro coperto a sua disposizione e partimmo sulla strada per Shaarmid. Per quattro ore viaggiammo senza soste e senza vedere nessuno. Per sicurezza ci era stato intimato di restare in silenzio e così facemmo. Quando finalmente ci fermammo, Rajaput ci fece uscire dal carro.

Nella mia vita ho visto molte terre, ma ti garantisco che c'è un motivo se il Sud viene chiamato Splendente. Uscendo dalla penombra del carro fummo abbagliati dal sole, già alto in cielo, che si rifletteva sull'immensa prateria, ingiallita dal calore, che ci circondava in ogni direzione. In quel luogo l'aria diventa infuocata durante il giorno e ghiacciata di notte. Guardando l'orizzonte mentre il sole è al suo massimo, puoi vedere la realtà divenire fluida come riflessa nell'acqua, mentre di notte gli artigli di Shar avvolgono ogni cosa nel gelo più profondo e solo la luce di Selûne è di conforto ai viaggiatori. Un giorno mi piacerebbe tornare nello Shaar, sempre che esista ancora.

Rajaput ci presentò al suo gruppo di mercanti nomadi: era la prima volta che vedevo così tanti umani tutti insieme. Non erano poi molto più alti di me, ma erano più snelli e fragili. Gli uomini portavano capelli corti e grossi baffi pettinati, mentre le donne avevano dei capelli lunghissimi nascosti dentro sottili sciarpe colorate. Ovviamente furono moltissime le cose che capii solo in seguito di loro, conoscendo anche altri umani, ma percepii sin da subito la loro fretta: sono condannati a invecchiare già da giovani, quindi non hanno tempo da perdere. Parlano in fretta, riflettono molto poco e finiscono per sembrare stupidi nell'agire. Si fidano di chiunque gli rivolga l'attenzione per più di un minuto e sembrano aspettarsi di morire da un momento all'altro. Prima di incontrarli, io ero l'individuo più avventato che avessi mai conosciuto, ma un umano riesce a essere sconsiderato anche nella scelta del numero di foglie di tè da mettere nell'infuso.

Devo ammettere, però, che Rajaput e i suoi compagni Durpari furono amichevoli e ospitali oltre ogni concezione per un nano d'oro. Ci sfamarono e ci trattarono come loro famigliari senza chiedere niente in cambio, se non qualche misera moneta d'oro alla partenza. Misera è quello che pensavo allora, ma la mia concezione di ricchezza è cambiata assai nel tempo.

Il viaggio durò dieci giorni circa. Giunti alla discesa dell'Altopiano, dovemmo pagare un tributo a una tribù locale che controllava il passaggio. Rajaput ci spiegò che era meglio non fare storie e consegnare loro parte delle scorte di cibo che avevamo per evitare problemi. A quanto pare era una cosa comune e tutte le carovane portavano scorte supplementari appositamente.

Pensaci, questi umani indigeni controllano con la forza un passaggio obbligato di una rotta commerciale e tutto ciò che chiedono per l'attraversamento sono un paio di bistecche essiccate e qualche pagnotta. Follia.

La sera del nono giorno giungemmo a Shaarmid, dove salutammo Rajaput che avrebbe continuato a viaggiare verso sud. Shaarmid era un gioiello di pietra nel mezzo delle praterie. Le strade erano affollate e rumorose, ogni negozio aveva almeno una bancarella protesa in mezzo alla carreggiata da cui il mercante di turno descriveva a squarciagola le sue meravigliose mercanzie. Io ne ero affascinato, mentre Dimlen ne era schifata. Il caos che regnava ovunque le dava alla testa: non era possibile fermarsi a un incrocio a pensare alla prossima mossa senza che un mercante cercasse di trascinarti nella sua bottega, un ragazzino ti chiedesse se avessi bisogno di indicazioni e una bambina ti implorasse di darle qualche spicciolo per mangiare. Tutti gli umani sapevano cosa fare e dove andare con assoluta certezza, o almeno fingevano di saperlo. Trovammo una locanda popolata principalmente da vecchi umani che giocavano a carte ai tavoli: un luogo tranquillo, così affittammo una stanza lì per alcuni giorni. Sapevamo di non poterci fermare a Shaarmid a lungo: Lord Mordar ci stava sicuramente cercando e non eravamo abbastanza lontani per stare al sicuro. Dimlen si chiuse nella stanza in affitto, sostenendo che la città fosse troppo orrenda per lei, così cercai una soluzione per conto mio. Nella prima mattinata che passai da solo nelle vie di Shaarmid, un cartografo mi trattò con sufficienza e si rifiutò di vendere una mappa a uno della mia stirpe, in una taverna di viaggiatori un gruppo di umani rigettò anche solo l'idea di prendermi con sé per viaggiare verso ovest perché "un nano ci rallenterebbe soltanto", un mercante mi vendette cibo avariato sostenendo che fosse del posto e quando tornai da Dimlen mi accorsi che mi avevano derubato di oltre venti monete d'oro mentre rientravo. Nonostante le prese in giro della mia compagna, riuscii a non cedere all'ira e reagii con calma. Se gli umani si fidano solo delle prime impressioni, dovevo cambiare atteggiamento e comportarmi come loro. Uscii di nuovo, ma al tramonto. La maggior parte dei negozianti restava aperta fino a tardi per sfruttare quelle ore in cui la temperatura era più vivibile. Camminai a passo svelto, coperto da un mantello con cappuccio. Avevo un pugnale alla cintura e cinque monete d'argento in tasca.

Il cartografo fu il mio primo bersaglio. Alloggiava al piano superiore del negozio e, data la sua età, aveva probabilmente famiglia. Il retro aveva un balconcino affacciato su una stradina laterale quasi deserta. Mi arrampicai e aprii la serratura senza troppo sforzo. La casa era deserta. Delle quattro stanze, solo la camera da letto e un piccolo studio sembravano essere utilizzate di recente. L'uomo era probabilmente vedovo con uno o più figli adulti. Tutto era tenuto con un certo ordine, tranne libri e pergamene, che sembravano sparpagliati un po' ovunque. Mi presi il giusto tempo per dare un'occhiata in giro, facendo attenzione a non emettere rumori sospetti e trovai il diario personale del cartografo in un cassetto della scrivania nello studio. Era scritto in comune per fortuna. Kilimut Datharathi era il suo nome. Moglie morta di malattia, figli in giro per il sud. Più che un diario era un'autobiografia tenuta con cura e ben rilegata. Cercai il punto in cui Hist, il nome della moglie, iniziava a comparire e strappai tutte le pagine da lì alla sua morte e le presi con me. Poi rimisi tutto in ordine come lo avevo trovato, uscii dal balconcino e rientrai dall'ingresso principale del negozio. Kilimut mi apostrofò con qualche insulto sprezzante come già aveva fatto la mattina, ma quando gli spiegai la situazione, cambiò atteggiamento. Gli parlai di sua moglie e del modo in cui si erano conosciuti così come lo avevo letto dal suo diario. Lo informai che un mio complice era in possesso di tutte le memorie di sua moglie che lui aveva scritto di suo pugno. Gli feci quindi presente che se mi fosse successo qualcosa, quelle pagine sarebbero andate distrutte all'istante aggiungendo che nessun corpo di guardia si sarebbe mai scomodato per qualche pezzo di carta di un poveraccio come lui.

Quella notte appresi un'altra nozione sugli umani: sono terrorizzati dal ricordo. Vivono per così poco tempo e sono così fragili che danno più importanza alle memorie delle persone, che alle persone in vita. La moglie di Kilimut era morta di malattia prima dei cinquant'anni e suo marito, solo dieci anni dopo, era terrorizzato dall'idea di dimenticarla, come se il suo ricordo potesse protrarne la vita materiale. Anche noi nani diamo importanza alla memoria dei nostri antenati, ma ci dedichiamo ad essa da anziani. A cinquant'anni non sei pronto per ricordare i morti, dovresti essere ancora proteso alla vita.

Il cartografo si dimostrò collaborativo. Mi consigliò di fuggire lontano, verso il regno di Amn, sulla costa occidentale e mi disse che ci potevo facilmente arrivare salpando da Sheirtalar, attraversando il mare Splendente, oppure passando da nord, attraverso il Chondath e le grandi pianure dell'ovest. Non avrei portato i piedi su una nave per tutta l'erba-pipa del Tethyr, così presi una mappa della Strada Dorata e del Chondath in cambio di una moneta d'argento e la promessa di restituire il manoscritto rubato prima della mia partenza.

Avendo le idee chiare sulla mia destinazione, non fu difficile trovare una compagnia di mercanti in partenza per il nord la mattina seguente. Informai Dimlen e partimmo all'alba.

Quei mercanti umani non erano gentili e ospitali come i Durpari. Provenivano dalle terre centrali ed erano silenziosi e scontrosi. Viaggiavamo solo la mattina presto e nel tardo pomeriggio, per evitare le temperature più estreme. A causa del forte vento tempestoso e del faticoso attraversamento dei Pendii del Fuoco, il viaggio durò circa un mese. Finimmo le provviste alcuni giorni prima di arrivare a Innarlith e dovemmo ridurci alla caccia. Ovviamente io non avevo alcuna competenza a riguardo e dovetti pagare profumatamente gli umani per ottenere qualche avanzo di carne. Attraversammo il Sespech senza entrare nelle mura della capitale, temendo problemi con l'immenso dispiego di forze militari a sorveglianza e arrivammo ad Arrabar ventisei giorni dopo la partenza da Shaarmid. Con quel viaggio mi lasciai lo Splendente Sud per sempre alle spalle.

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