Capitolo 3 - Grace

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Ho ricordi molto sbiaditi della mia infanzia. Non so né quando, né come siano morti i miei veri genitori, mi sembra di essere semplicemente nata in quell'orfanotrofio, di aver vissuto sempre lì.

Più precisamente era un convento di suore. Accoglievano studenti e orfani per indirizzarli alla parola di Dio, dargli un alloggio e un'istruzione. Oltre alle suore vi era anche un personale scolastico e delle addette alle pulizie. Tutto era gestito regolarmente e la nostra vita era programmata.

Al mattino Suor Josephine ci svegliava suonando un piccolo campanello. Dormivamo tutte nella stessa stanza in cui c'erano tanti letti uguali posti a distanza uguale, armadi in cui ciascuno aveva il proprio reparto.

Allora iniziava il rituale mattutino: andavamo a lavarci, indossavamo l'uniforme, pregavamo e andavamo a fare colazione. Successivamente andavamo alle lezioni che duravano fino alle sedici del pomeriggio, con una pausa di un'ora per il pranzo. Se non avevamo finito i compiti assegnati in classe, li completavamo il pomeriggio, altrimenti ci permettevano di giocare nel cortile. La sera prima di cena pregavamo e solo il sabato ci permettevano di restare svegli fino a tardi. Potevamo scegliere se guardare la televisione, fare qualche gioco da tavolo o raccontare storie a turno davanti al fuoco. Tutto il resto della settimana si andava a letto alle otto. La domenica andavamo in chiesa, che era proprio accanto al convento. Era un edificio tutto bianco con le imposte marrone scuro e un campanile non molto alto. Tutto intorno era circondato da siepi e alberi e lungo tutto il viale si estendeva un prato verde nel quale a volte aiutavamo le suore a fare giardinaggio.

Da bambina mi piaceva stare lì, avevo tanti amici. Poi però arrivava quel momento in cui qualcuno li portava via. Qualcuno li sceglieva. Io non ero mai stata scelta. Allora mi facevo più triste perché sapevo che stare in convento era bello ma vivere in un altro posto e con qualcuno che ti avesse scelto perché ti desiderava e ti avrebbe voluto bene, sarebbe stato meglio.

Le suore ci volevano bene tutti allo stesso modo, perché eravamo tutti uguali, tutti figli di Dio. Ma loro non ci avevano scelto, qualcun altro aveva scelto per noi.

Crescendo iniziai a soffrire. Non volevo più stare lì perché sapevo che al di fuori di quel cortile c'era un mondo che a me era sconosciuto. Lo sapevo perché i miei amici a volte mi mandavano delle lettere per raccontarmi cose che nemmeno immaginavo. Tutti si divertivano, facevano cose che qui non ci erano permesse, perché erano vizi, ci avrebbero distratti dalla fede.

Non ero sicura di credere nella fede, pregare era qualcosa che dovevo fare per forza. Eppure se qualcuno di così potente fosse stato lassù, io non mi sarei trovata orfana.

Quando avevo otto anni Suor Maria mi disse che c'era una coppia che avrebbe voluto adottarmi perché non poteva avere più figli. Sarebbero venuti nel pomeriggio. Mi disse di pettinarmi, sistemarmi ed essere gentile. Ero felice perché qualcuno mi aveva finalmente scelta, qualcuno mi voleva davvero. O ero forse un bisogno per colmare il loro dolore, anche questo mi affliggeva.

Ci incontrammo nel cortile sul retro. Ero molto titubante. Mi salutarono contenti e io li osservai per bene: non erano giovani ma nemmeno vecchi. Lei era un po' in carne, con i capelli biondo scuro un po' crespi che si muovevano per il vento. Lui era magro ma aveva un po' di pancia, era serio e un po' calvo. Ci presentammo e parlammo per un po'. Mi raccontarono di dove vivevano, che avevano un figlio di dodici anni molto simpatico. Parlarono molto di lui e io diventai impaziente di conoscerlo. Fui felice perché avrei avuto qualcuno con cui giocare e non sarei stata sola con loro. Certo, avrei preferito avere una sorella, ma mi accontentai.

Compilarono tanti fogli di cui non avevo idea a cosa servissero. Presi le mie poche cose e salutai tutti. Mi sentivo importante perché finalmente andavo via mentre gli altri bambini, soprattutto quelli antipatici, sarebbero rimasti lì. Sperai che nessuno li scegliesse. Non meritavano di uscire da lì e fare i dispetti ad altre persone.

Il viaggio in macchina fu lungo e silenzioso, durò forse mezz'ora. Io guardai tutto il tempo la città dal finestrino. Tutto mi sembrava nuovo e allettante. Eravamo usciti dal convento solo poche volte per qualche gita al parco. Non ero mai stata nemmeno al mare. Rosalie disse che mi avrebbero portata quel pomeriggio stesso.

Tutte le case del quartiere erano colorate, la nostra era bianca e piena di finestre. Tutto intorno era circondato da un prato verde, ma non c'erano fiori. Rosalie mi disse che avrei potuto piantarli insieme a Roy se avessi voluto. John aprì la porta e io restai dietro di loro. Mi sporsi titubante a guardare e vidi un bambino molto più alto di me con i capelli corti e una frangetta spettinata che mi fissava. Rosalie si fece da parte e con delicatezza mi spinse dentro.

«Lei è Grace.» disse.

Ma lui non rispose, mi salutò solo con la mano. I suoi genitori sistemarono i cappotti all'ingresso, poi suo padre si mise davanti al televisore e sua madre in cucina.

«Ti faccio vedere la tua camera.»

Finalmente si era deciso a parlare. Il momento di imbarazzo era passato. Corremmo su per le scale e aprì la prima porta a destra. Era tutta tinteggiata di rosa, c'era una finestra grande, un letto, un comodino, una scrivania con tanti peluches appoggiati sopra, un armadio. Non avevo mai avuto tanti mobili solo per me.

«Ti piace? Mia madre ha detto che ti porterà a comprare dei vestiti.»

Lo guardai sorpresa. Non avevo mai avuto dei vestiti all'infuori delle uniformi tutte uguali. Ero emozionatissima.

«Vieni, ti faccio vedere la mia camera.»

Corse verso un'altra porta e la aprì. Dentro era tutta blu, tanti giocattoli, un tappeto enorme su cui sedersi.

«Che bella.» Dissi meravigliata.

«E guarda cosa abbiamo appiccicato io e papà.» andò verso le finestre e chiuse le tende. Mi spinse dentro e chiuse la porta. La stanza non era completamente al buio ma sul tetto si vedevano tanti puntini luminosi come se fossero delle stelle.

«Wow, ma cosa sono?» risposi girando in tondo.

«Sono degli adesivi fosforescenti.» mi spiegò. Che parola strana, non l'avevo mai sentita prima.

«fofforescenti?

«Con la s: fosforescenti.» rispose divertito. I suoi occhi marroni si illuminarono. «Sai, da grande voglio fare l'astronomo.»

Inside our souls 2Where stories live. Discover now