Capitolo 38

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Elsa era come congelata sul posto. Non l'avevo vista così dal suo crollo emotivo a scuola. Ma almeno quella volta sapevo di poterla aiutare, di non esserne la causa.

«Paga, ragazzo.» Owen se ne andò, seguito dal suo gruppo di uomini squallidi. Non potevo credere di essere stato uno di loro.

«Non è vero.» Lei parló quando chiusi la porta. «Ha mentito. Non puoi essere stato tu, l'incidente è stato a Miami. E tu mi hai detto di non esserti mai spostato da qui.»

«Si, non sono mai uscito dallo stato.» Risposi, sapevo che quello che stavo per dire l'avrebbe fatta scappare. «Ma l'incidente con Dannis è successo a Miami. È stata l'unica volta in cui sono stato lì.» Non volevo mentirle, ma sapevo di essere innocente.

Mi guardò come se la stessi minacciando con un coltello alla gola e non potevo permettermi di farla scappare. Non sopportavo l'idea di perderla.

«Ma questo non vuol dire niente.» Mi affrettai a rimediare. «Ha sicuramente mentito, Elsa. Io non ho mai incontrato i tuoi genitori e non ho fatto incidenti in auto quella sera.»

«Qualcosa lì ha fatti andare fuori strada.» Sussurrò guardando in basso.

Non mi giardava da quando eravamo rientrati. Si stava sforzando di essere dura, di non piangere.
Io sapevo che Owen aveva mentito, ma sembrava che lei ci stesse credendo. Non potevo permetterlo.

«Non sono stato io, Elsa. Ti prego, guardami. Io non ho fatto incidenti, ha detto una cosa folle solo per spaventarti.»

«Come lo sai? Come sapeva che i miei sono morti?»

Non seppi rispondere. Owen aveva i suoi informatori anche a scuola, tra i ragazzi, ma per quale motivo avrebbe dovuto indagare su di lei?

«Credo sia meglio che torni a casa.» Disse lentamente. Prese il cibo cinese che aveva posato in cucina solo pochi minuti fa, poi andò da Emily col cappotto e le lo fece indossare mentre lei protestava. Voleva finire di vedere il cartone animato, non si era accorta di niente.
Elsa uscì dalla porta, senza guardarmi nemmeno, mentre teneva in braccio Emily per camminare più velocemente verso casa.

Avrei voluto fermarla.

Avrei dovuto giurarle che non c'entravo un cazzo con la morte dei suoi genitori.

Ma non lo feci.

Perché in me nacque un minuscolo dubbio, della grandezza di un granello di polvere. Quella singola possibilità su dieci milioni che Owen non avesse mentito. Che per la prima volta nella sua squallida vita avesse detto il vero.

Sulla strada di quei pensieri il dubbio venne nutrito dalla mia paura.

L'unico modo levarmi la cimice dall'orecchio era parlare con mio padre.
Avevo ancora in rubrica il numero del suo ufficio e chiamai.

Dopo un paio di squilli rispose la sua segretaria Molly, una donna di cinquantasette anni che ne dimostrava ottanta.

«Ufficio del signor Prismore.» Rispose impastando le parole.

«Ciao Molly, sono Matt.» Quando ero piccolo passavo spesso i pomeriggi doposcuola a fare i compiti sulla sua scrivania. Quando mio padre si dimenticava che era il suo turno di venire a prendermi a scuola, veniva lei con un sacchetto di caramelle.

«Oh, Matthew, quanto tempo che non ti vedo. Di cosa hai bisogno caro?»

«Devo parlare con mio padre, è urgente.» Non gliene avevo mai fatto una colpa, al contrario di quanto si possa pensare. Lui lavorava sodo perché non mi mancasse niente e quando arrivò Drina fu come se sentisse il bisogno di lavorare il doppio. Non era lui la mela marcia in famiglia.

Profumo di stelle #wattys2020Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora