dance up!

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TRIGGER WARNINGS:

Violenza

Relazione tossica

Autolesionismo

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Ciò che ricordo bene è l'insegna della discoteca nella piccola cittadina dove vivevo. Era squallida, le luci a neon cominciavano a fulminarsi e spegnersi una dopo l'altra, lasciando il cartello sempre meno visibile e più dimenticabile. Certo, non che il nome del locale aiutasse molto a rendere quel posto indimenticabile: recitava "Dance Up!".

Era banale, il proprietario oltre al non sforzarsi per tenerla in uno stato decente non si era nemmeno preoccupato di trovare un motto o una frase che attirasse la gente che ci girava attorno e quella bettola, dopo poco tempo, chiuse definitivamente - erano pure crollate le scale della porta d'ingresso.

Eppure, nel '78, pensavo quasi che quel locale fosse perfetto. L'aria da pub malandato che lo circondava, la gente bizzarra che ci andava proprio perché poco frequentato e le cattive voci che ci giravano attorno lo rendevano dannatamente affascinante agli occhi dell'adolescente che ero, annoiato dalla vita che avevo ricevuto e che non avrebbe mai ceduto alla composta vita che mia madre insisteva a farmi vivere.

Un'altra cosa che ricordo bene era casa mia. Ora, la casa vicina alla discoteca non era nulla rispetto a quella in cui sarei vissuto anni dopo, ma restava quella in cui preferivo stare. Era piccola ma graziosa, totalmente diversa dalla grande villa in cui ci saremmo trasferiti, quando i grandi piani della mia famiglia si erano realizzati e finalmente erano arrivati tutti i soldi che desideravano. Quella vita non mi dispiaceva - a chi sarebbe mai dispiaciuta? - ma le mie radici rimanevano ancorate a quella via di condomini affittati a basso prezzo, alla stradina sterrata che portava a un piccolo boschetto proprio dietro casa mia e a quell'aria di tranquillità che si poteva respirare solo lontano dal grande centro di Busan.

Diamine, se inizialmente c'era qualcosa che odiavo di Busan era proprio quell'aria soffocante e fastidiosa, la troppa gente, la vita frenetica e tutti quei vizi che la città si portava dietro.

Poi arrivò l'83 e, non so bene cosa cambiò nel mio modo di pensare, ma quell'aria mi inghiottì totalmente.

Poco tempo dopo, nel 1985, ero un perfetto abitante del centro, consono e per niente fuori luogo alla mia lussuosa villa, un enorme stop al ragazzino sognatore che ero stato e un occhio di riguardo verso la gente che era esattamente sullo stesso gradino su cui io stesso stavo fino a pochi anni prima.

Quella vita, quella prima di adeguarmi a Busan, mi sembrava così noiosa e umiliante che quasi ridevo nel pensare che fino a un paio di anni prima avrei trovato conforto nel ritornare giornalmente a una vecchia catapecchia con viso nostalgico, che avrei camminato nel bosco sporcandomi le scarpe di fango e alla fine mi sarei buttato sull'erba, occhi chiusi, canticchiando qualcosa, incurante dello sporco del terreno, perché in testa avevo altre mille stronzate.

Ma quei due anni erano stati come una nuova nascita per me. Le prime esperienze in città, le nuove conoscenze e nuovi amici, l'università, il primo bacio e la prima volta con una donna, la prima volta con un uomo. A Busan avevo provato ciò che mai avrei provato in un piccolo comune di provincia il cui unico intrattenimento era una squallida pista da ballo e, con il tempo, avevo iniziato a volermi dimenticare di quella parte della mia vita.

Il 27 aprile del '85 mio padre morì. Un infarto, improvviso, che venne annunciato la mattina stessa da un urlo stridulo e spaventato di mia madre, che fece alzare di scatto sia me e mia sorella, ritrovandoci a scontrarci in corridoio e scambiarci un'occhiata veloce e spaventata.

Due giorni dopo si tennero i funerali e il prete mi aveva detto che sarebbe stato consono che fosse il figlio maschio a parlare per primo in onore del padre defunto. Non ne sono sicuro, ma forse fu questo il momento in cui capì che di me era rimasto una specie di guscio vuoto. Mi ci era voluta un'intera nottata, sveglio, penna immobile su foglio bianco e nulla che mi venisse in mente, per realizzare che non ci sarebbe mai potuto essere niente di buono da dire su quell'uomo.
Alla fine scrissi qualcosa come "Mio padre mi ha insegnato molto sulla vita e mi mancherà. Era un buon uomo.", lo lessi davanti a tutti e non solo dalle facce (esilaranti) di familiari e amici, ma persino a me sembro sembrò estremamente falso e inopportuno, imbarazzantemente breve. Persino quando mi girai vidi il vecchio prete fissarmi, cercando di trattenere lo stupore.

mors non accipit excusationes / yoonkookDove le storie prendono vita. Scoprilo ora