32. La storia del villaggio

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«È così che deve andare. Mi farà bene prendere un po' di aria, un po' di sole. Mi sento molto meglio oggi.»

«Non hai dormito nemmeno stanotte.» Shani la prese per le spalle, si sentiva impotente perché guardandola adesso percepiva nella sua compagna una forza, inarrestabile che non aveva mai notato prima d'ora. Aveva paura che quel potere, quella sicurezza, le si potesse ritorcere contro.

Anche Maisie era troppo sicura di sé, le tornò in mente, all'improvviso.

Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Ha ragione Tomas, non devi andare per forza. Oppure Hans o Kuran potrebbero prenderti in braccio, ti risparmierebbero la fatica. Non sei ancora in forma...»

«No. Devo andare con le mie gambe.»

Il sole del mattino era più luminoso di quanto si aspettasse. Il cielo era di un turchese dolce. Le montagne attorno a loro lo scalfivano con le loro cime acuminate. La foresta li proteggeva oltre la staccionata, come una mamma in apprensione che guardava i suoi bambini giocare, non molto distante.

La gabbia della tigre era ancora ricoperta da un drappo nero.

Quella vista annebbiò di rabbia la mente dell'Umana, facendola vacillare.

Una voce intonò il suo nome, alle sue spalle.

Sapeva che erano tutti in apprensione per lei. Bè, non proprio tutti. Ma la maggior parte di loro le aveva mostrato un affetto così sincero che l'aveva sbalordita. Forse era stata lei troppo crudele e prevenuta nei loro confronti.

Doveva andare a tutti i costi. Shani aveva cercato di convincerla in ogni modo, avrebbe, infatti, preferito che fossero loro a venire in infermeria. Ma questo oltre a non essere possibile, sarebbe stato terribilmente umiliante.

Nella sua mente un piano preciso si era delineato durante le notti insonni. Era assurdo e indefinito come i sogni, e, allo stesso tempo, dotato di un'energia e di una vitalità proprie.

Il dolore era una materia oscura e indefinita.

È interessante ricordare che la sua misurazione possa essere ottenuta solo tramite la somministrazione di scale per quantificarlo soggettivamente.

Si trattava di un'esperienza sensoriale ed emozionale molto complessa, di natura spiacevole, causata da un danno. Ma a determinare il dolore, non erano solo le modificazioni dovute al deterioramento fisico, ma soprattutto la personale interpretazione della sua gravità. Il proprio passato, la paura, il sostegno dei propri cari e la percezione di riuscire a farvi fronte giocavano un ruolo cruciale nel determinare il modo in cui il dolore poteva essere vissuto. Le esperienze fisiche e psicologiche si rinforzavano a vicenda creando un circolo vizioso in cui era difficile distinguere il dolore pulito da quello sporco, il vissuto affettivo del danno dalla capacità delle vie nocicettive di trasmettere informazioni spaziali e temporali su un determinato stimolo doloroso.

Per questo Eva non era in grado di quantificare quanto dolore stesse provando.

Il rifiuto e l'abbandono, la ferita interna che la lacerava senza pietà, la stanchezza e la carenza di sonno e di appetito, la paura e l'ansia per il suo avvenire, la rabbia cieca che si era fatta spazio nel suo cuore e non c'era verso di scacciare via.

Si era però accorta che invece che lottare contro queste sensazioni, irrigidendo i muscoli, contraendosi, stringendo i denti, la mandibola e i pugni, poteva semplicemente fargli spazio.

Sebbene lei fosse una ragazza piuttosto piccola e minuta per la sua età, era perfettamente in grado di accogliere tutta la sofferenza, la delusione, la paura e l'angoscia di questo mondo. Bastava accettare la loro presenza, espandersi, riceverli dentro il proprio corpo come vecchi amici che tornavano a trovarla dopo lungo tempo.

UMANA ∽ Ritorno sulla TerraWhere stories live. Discover now