1 - Un motivo per cui sorridere

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  • Dedicata a Pi
                                    

«Ehi, Bonnie

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«Ehi, Bonnie.» Mi richiudo la porta di casa alle spalle.

Finalmente al sicuro tra le mura dell'abitazione nella quale sono cresciuta, posso rilassare i nervi e trarre un sospiro di sollievo, a pieni polmoni. Mi prendo qualche istante per massaggiare gli occhi stanchi e permettere al corpo di lasciarsi alle spalle la tensione; dopodiché, rivolgo di nuovo l'attenzione alla mia amica. Mi sta fissando, come in attesa di qualcosa. Dopo averle concesso un buffetto sulla testa le chiedo in un sussurro: «Tutto a posto?»

Lei, in risposta, affettuosa come è sempre stata fin da quando era una cucciolotta pelosa, spinge il muso umido contro il mio palmo e mi incoraggia a farle delle carezze.

Sono così debole dopo la corsa fino a casa che le gambe faticano a reggermi in piedi; eppure, le sorrido e la accontento di buon grado: mi accuccio sulle ginocchia e le prendo il muso tra le mani. È affusolato, tipico dei pastori scozzesi, e glielo accarezzo con tutta la dolcezza che mi rimane in corpo. «Sei stata brava a fare la guardia?»

Mentre la gratto dietro le orecchie, proprio come so piacerle, Bonnie mugola e mi lecca il mento. La sua coda frusta l'aria: mi chiedo cosa direbbe, se solo avesse il dono della parola.

Rido nel tentare di trattenere il suo entusiasmo. «E il nostro cucciolo? Come sta Liam?»

Quasi avesse compreso le mie parole, Bonnie sfugge alle mie carezze e si insinua nel lungo corridoio buio che fiancheggia la scalinata in marmo per i piani superiori; infine, si posiziona proprio davanti a una porta, quella che dà sul seminterrato, e la gratta con una zampa.

Lo zaino carico di provviste in spalla, la seguo con prudenza nell'androne buio mentre brandisco quello che una volta era il preferito tra i cimeli di mio padre: una mazza da baseball autografata da nientemeno che Babe Ruth, l'atleta migliore di sempre, a detta sua. Un tempo si trattava di una preziosa eredità della famiglia Leesman; ora, tra le mie mani, non è altro che un'arma da difesa.

Una volta nello scantinato, un grande stanzone dalle pareti grezze dove nel corso degli anni è stato stipato ogni genere di cianfrusaglia, brancolo con le mani in avanti per qualche istante, disorientata, mentre gli occhi si abituano alla penombra. Solo quando inizio a delineare il contorno di mobili e oggetti mi incammino in fretta verso la tana dove, mentre ero all'esterno a fare incetta di provviste, ho lasciato Liam.

Per la verità, "la tana" è solo un vecchio divano capovolto che papà ha nascosto nel sottoscala, per poi sormontarlo di qualche vecchio lenzuolo; eppure, è sufficiente a farci sentire un po' meno allo scoperto. Al punto che, a volte, quando Liam si sveglia nel bel mezzo di un incubo e prende a piangere cercando mamma, riesco a fargli credere sia tutto solo un gioco: noi due e Bonnie siamo dei pericolosi pirati e il divano è la nostra nave che solca i sette mari. Le mie bugie sono sufficienti ad allontanare da lui brutti pensieri e paure o, se non altro, a rimandarli al giorno seguente. Il più delle volte, quantomeno.

Giunta al nostro nascondiglio di fortuna sollevo la tenda giallognola che ne cela l'entrata e scivolo carponi attraverso il pertugio, trascinando con me lo zaino. Una volta dentro, mi accorgo che Liam si è addormentato in attesa del mio ritorno, rintanato sotto una delle coperte. Sto a guardarlo per qualche minuto alla luce della torcia stretta tra i denti mentre strofino tra loro i palmi, nel tentativo di scaldarli. I lineamenti distesi, i capelli arruffati come le piume di un pulcino, le manine congiunte a mo' di preghiera: l'innocenza che sprigiona è un dolore per i miei occhi.

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