"Il Maestro"

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"Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a raccogliere quello che abbiamo piantato." "Ricorda queste parole allievo mio, un giorno saprai cosa fartene, io le ho capite troppo tardi."

Ricordo come se non fossero passati così tanti inverni, queste parole del mio Maestro. La notte seguente a quel giorno la vita abbandonò le sue membra onorando in combattimento la sua morte. So bene che furono gli Assassini delle Lande, così è solito chiamarli, a riscuotere la sua anima. Aveva sempre evitato l'argomento, ma col tempo scoprì che era stato un abile assassino di quell'Ordine e che era divenuto un Ronin, facendo perdere le sue tracce.
Il mio Maestro non era di cattivo animo, integerrimo e rigido, ma fu la persona più buona che incontrai a questo mondo.
Costruì pietra dopo pietra, bambù dopo bambù, per 14 lunghi anni il suo dojo. Era la sua espiazione, diceva, e non permise mai di poggiare nemmeno una pietra in suo sostegno, a qualche d'uno d'animo gentile.
Nell'ultimo periodo della sua espiazione mi trovai io al suo fianco, ero ancora un bambino e non sopportavo di vederlo agonizzare dalla fatica sotto la pioggia, con il vento, con il sole cocente; così lo aiutai sostenendolo procurandogli del cibo e prendendomi cura di lui. Cominciai presto a volergli bene e lo stimavo molto per la sua stoica caparbietà.
Il dojo fu inaugurato dopo un duro inverno, ad inizio primavera. Poggiò l'ultima pietra sotto la fioritura dei sakura: il momento in cui divenimmo una famiglia.

Da quel momento cominciò ad insegnarmi le arti marziali e cominciai a conoscerlo sotto altri aspetti, pur tenendosi sempre in una ferrea riservatezza

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Da quel momento cominciò ad insegnarmi le arti marziali e cominciai a conoscerlo sotto altri aspetti, pur tenendosi sempre in una ferrea riservatezza. Così divenni suo allievo, il suo primo, perchè ne arrivarono presto altri. Altri bambini come lo ero io appena arrivato, senza un luogo dove stare o un posto in cui tornare, il nostro dojo era una casa per chiunque non ne avesse una.
Io ero cresciuto abbastanza per affiancare il Maestro nella gestione del dojo e degli allievi più giovani.
Passarono i giorni più sereni della mia esistenza e solo Dio sa quanto la loro rimembranza sia apparsa inestimabile quando fui gettato a forza nel mondo.
Gli inverni si susseguirono e il nostro numero non crebbe più di 7. Si viveva bene ed in allegria e il cibo non mancava mai per nessuno in tavola. Io ero l'allievo più anziano e per lui quell'aggettivo cominciava ad essere una realtà a cui far fronte, non un epiteto come lo era per me.
Un giorno mi volle parlare in privato e mi disse, con velata reticenza in volto, che aveva intenzione di cacciar via dal dojo tutti gli allievi che avessero le capacità per sopravvivere a pieno diritto da soli. Ultimamente avevo notato che l'atmosfera si fosse appesantita e che qualcosa sottobanco stava succedendo, ma non pensavo potesse arrivare a questa conclusione.
Ciò sapevo valere anche per me e questo mi diede l'arroganza di porre una domanda di dissenso: quale motivo sarebbe potuto essere talmente insormontabile per abbandonare il costrutto di una vita, non potevamo fronteggiarlo tutti assieme, come sempre? Gli importava davvero di tutti gli sforzi compiuti fin ora?
Volevo sapere il motivo, volevo potermene fare una ragione. Il Maestro, ricordo bene, rimase in silenzio, poi si alzò in piedi e mi diede un calcio che mi spedì fuori dalla stanza.
Io mi rialzai scosso e quado lo guardai, aveva il volto digrignato e teneva puntato il dito verso il cancello del dojo che dava sull'esterno.
Fui il primo ad entrarci ed il primo ad esserne bandito. Il giorno seguente anche 4 dei 7 allievi furono congedadi. In un primo periodo rimanemmo nei paraggi, ma poi uno dopo l'altro se ne andò per la sua strada, a vivere la sua vita, fino a rimanere l'unico a far visita al dojo ogni giorno. Ogni giorno mi recavo al cancello. Non rimase mai chiuso, ma sapevo che non era aperto per me. Non provai mai odio nei suoi confronti, conoscevo bene lo spirito del Maestro e preferivo aver diffida del mio, che del suo.
Dopo qualche tempo fu congedado anche un altro allievo, aveva le lacrime agli occhi e pianse finchè non potei più constatarlo: il suo dolore si perse negli echi della lontananza. Era un compagno dall'animo puro e sincero, colui che anche ora ricordo con una smorfia di sorriso; capace di far riemergere, in antri perduti della memoria, i tempi andati.
Poco dopo seguirono gli altri due, ai quali era stato detto di sostenersi a vicenda come fratelli di sangue, non erano ancora pronti, ma il Maestro volle rimanere solo come se sapesse, in qualche modo, cosa sarebbe accaduto la notte stessa.
Riposavo sopra un grande acero nei pressi del dojo, quando fui svegliato da un forte odore di fumo e scorsi il dojo in fiamme.
Corsi, senza un attimo di esitazione, al suo interno e, con il mio intervento, probabilmente ritardai l'uccisione del Maestro; viso che mi intromisi in suo soccorso.
L'incendio si spense verso l'alba e riuscimmo a salvare poco del dojo. Il Maestro non mi disse nulla. Bastò uno sguardo benevolo, ma profondamente ricolmo di un'enorme tristezza e rassegnazione, a dire tutto. Si allontanò sussurrando tra sè e sè: "Ce ne hanno messo di tempo per trovarmi." Intonando con malinconico accento sarcastico.
Lo stesso pomeriggio, si mise a ristrutturare il dojo con la stessa instancabile dedizione con cui lo costruì in anni passati.
Non provai stupore in nessuno dei suoi comportamenti, anche se non aveva mai condiviso nulla di ciò che gli passasse per la testa, riuscivo a leggere bene quei gesti.
Non me ne andai, la mia casa è sempre stata "Lui". Anzi, lasciai sull'uscio del dojo, ogni giorno, del cibo o degli oggetti utili senza mettere piede al suo interno, ma non li toccò neanche una volta.
Un giorno lo trovai ad asspettarmi sull'uscio e rimanemmo a fissarci. Stavamo parlando, ma in silenzio.
Ad un certo punto diede fiato alla parola: "Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a raccogliere quello che abbiamo piantato."
"Ricorda queste parole allievo mio, un giorno saprai cosa fartene. Io le ho capite troppo tardi."
Poi si avvicinò stringendomi in un abbraccio: a conferma del fatto che quello fosse un addio.
Aggiunse: "Adesso non ho più nulla da insegnarti, Takemizu. Prenditi cura della tua anima. ("Ketsukeru na" saluto di addio che si scambiavano i Samurai in segno di rispetto)"
Quando se ne fu andato a riprendere il suo lavoro di restauro, non riuscii a tenere a freno le lacrime e piansi, piansi perchè non avrei potuto fare nulla per far sì di rincontrarlo il giorno seguente.

 ("Ketsukeru na" saluto di addio che si scambiavano i Samurai in segno di rispetto)"Quando se ne fu andato a riprendere il suo lavoro di restauro, non riuscii a tenere a freno le lacrime e piansi, piansi perchè non avrei potuto fare nulla per far ...

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Takemizu, il Samurai ErranteWhere stories live. Discover now