Tematiche esistenziali

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𝑪𝒉𝒂𝒑𝒕𝒆𝒓
18

"𝑇𝑒𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑖𝑎𝑙𝑖"
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"𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒"
𝐹𝑎𝑏𝑟𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑀𝑜𝑟𝑜

Ci sono cose che nessuno può capire, c'è chi si chiede se l'Universo sia, effettivamente, infinito e chi, invece, si chiede quale sia il gusto di gelato più azzeccato da scegliere. Domande esistenziali e domande banali circondano la vita delle persone quotidianamente ma una sola sembra veramente importante per tutti, indipendentemente. Materia di studio per filosofi, artisti, scienziati e persone comuni: l'amore. Una parola così semplice, così piccola ma con così tante interpretazioni. Lo so potrei cadere nella banalità, ma provate a fermarvi un attimo e a pensarci intensamente, proprio come stavo facendo io in quella calda notte primaverile a Parigi, l'ultima notte, per la precisione. Mi interrogavo su un sentimento che ero sicura di aver già avuto modo di conoscere alla perfezione, in quanto già provato con il mio ex, defunto, fidanzato: colui che mi avrebbe portata all'altare, con la quale avrei passato il resto della mia vita, costruendo una famiglia felice. Il sogno di tutte le ragazze del mondo, e se non di tutte, della maggior parte.
Perché guardatemi: una donna in carriera, sola, con una migliore amica come compagna di vita e lavoro, una casa niente male e abbastanza ricca da permettermi una catena di hotel solo per capriccio. Vista così si potrebbe pensare che tutto fosse perfetto, che non mi mancasse niente, ed invece la vita prima di Josh era veramente monotona: giornate tutte uguali, aria da superiore montata alla perfezione con il suono della sveglia, e poi? E poi niente. È proprio questo il fulcro del mio discorso: siamo tutte brave a non ammettere che anche se amiamo il nostro lavoro, la nostra vita e, come nel mio caso, essere stronze, ci manca quella sensazione di pienezza che si percepisce mettendo piede in casa e trovando le luci accese, qualcuno che canticchia ai fornelli mentre il profumo del nostro piatto preferito invade l'intera cucina. A me, proprio come a voi, mancava qualcosa dopo Josh. Mancava qualcuno con cui confrontarsi, litigare, urlare ma anche con cui ridere, chiacchierare del più e del meno solo per il piacere di passare del tempo insieme; per non contare le "scontate" coccole, le parole dolci, i baci, le parole di conforto a letto, dopo una giornata asfissiante, e l'ultimo ma non per importanza: l'amore, quello che ti riempie l'anima e il cuore mentre le coperte si stropicciano nel tentativo di seguire i movimenti dei vostri corpi connessi. Era tutto così bello quando con me c'era Josh o, per come lo chiamava Lucy, "la lampadina" a causa della sua folta chioma bionda e la sua perenne allegria; allegria che riusciva ad infondermi sempre con la sua presenza: era la mia "lampadina" per la felicità. Era tutto così bello che non riuscivo a capacitarmi di star dubitando del sentimento che avevo provato per lui a causa delle parole della mia migliore amica, era tutto così insensato. Lucy aveva passato la giornata a cercare di dimostrare la sua infallibile teoria, infatti, secondo lei io ero completamente, irremovibilmente innamorata di Harrison ed ero solo troppo stupida ed orgogliosa per capirlo, proprio come lui. A parer suo, lui accendeva in me qualcosa che nemmeno Josh era riuscito ad infondermi, aveva così tanto insistito che a causa del senso di confusione che producevano in me quelle parole ero scoppiata a piangere. Io, Bennet Wilson, dopo otto mesi avevo pianto. Il senso di colpa per aver dato peso, anche se in minima parte, a quelle parole non mi face dormire. Le coperte si aggrovigliarono come il mio stomaco, il muro bianco appariva vuoto come i miei occhi. «Pff che stronzata, io non lo amo» borbottai nel silenzio della camera. Io sapevo cos'era l'amore, avevo amato ed ero stata ricambiata completamente da Josh, non da Harrison. Come se fossi la spettatrice di un film al cinema ripensai ad ogni momento passato con Harrison, soffermandomi sulle nostre litigate e facendo una smorfia di disapprovazione perché con Josh non litigavo mai. Presi il telefono per vedere l'ora e sbuffai stanca, mi conveniva alzarmi visto che avrei avuto l'aereo poco più di due ore dopo. Annoiata entrai su Instagram rimanendo sconcertata dalle migliaia di notifiche che stavano facendo bloccare l'applicazione. Decisi di premere su una di quelle a caso, ma me ne pentii subito dopo: una foto di me ed Harrison mentre ci baciavamo stava intasando ogni tipo di sito ed i commenti erano raccapricciati, si passava dal leggere frasi di puro stupore come: "e menomale che erano solo amici" a parole molto più crude, minacce ed insulti come: "povera Polly, questa Bennet è proprio una troia e, se non ci pensa il karma ad eliminarla, potrei volentieri farci un pensierino io". Deglutii pesantemente quando ricevetti un'altra notifica, questa volta da WhatsApp.

Da: Harrison Cox:
Siamo nella merda B, vieni a salvarmi.
xxx

Sospirai per poi togliere le coperte dalle gambe e digitare velocemente sulla tastiera del telefono un numero: il suo; camminavo freneticamente per la stanza ancora spaesata. «Bennet...» sussurrò rispondendomi e sentì sulla pelle, benché fossi sicura che la finestra fosse chiusa, una ventata improvvisa d'aria calda. «Lo ami e se non te ne accorgi è solo perché sei troppo stupida ed orgogliosa, torna ad essere felice Benny, fallo per te, Josh è morto e non è mai stata colpa tua» le parole che Lucy mi aveva ripetuto con insistenza quel pomeriggio rimbombavano nel mio cervello. «Ehi... come stai?» risposi con voce flebile; potevo concedermi di essere debole, non mi stava guardando, non lo avrebbe capito. «Uno schifo» la sua voce dura mi scosse leggermente «Soprattutto ora che non ci sei tu» concluse la frase rilasciando un sospiro, quasi impercettibile. Me lo immaginai con le mani tra i capelli, nel frustrato tentativo di tirarli indietro, mentre guardava il cielo stellato dalla finestra, proprio come stavo facendo io. Il cuore accelerato e la sensazione di amarezza che stavo provando mi invasero come un'onda anomala, eppure non riuscivo a non essere anche tremendamente felice per il fatto che quel ragazzo così incasinato avesse bisogno di me per portare un po' di ordine nella sua vita. «E lui ama te, solo che è troppo incasinato e fiero di se per ammetterlo: in primis a se stesso» come se si fosse inserita con un incantesimo nella mia testa, le parole di Lucy continuavano a risuonarmi in testa. «Tra poco ho l'aereo, domani sarò lì» cercai di rassicurarlo col fatto che in poco più di ventiquattro ore sarei stata al suo fianco in questo casino. «Ti aspetto» e chiuse così la chiamata, come sempre senza salutare. Mi lasciai cadere sul letto stanca, preoccupata per come si stavano mettendo le cose e triste per come aveva chiuso la conversazione Harrison, nemmeno un banale "ciao". Inutile dire che il viaggio fu straziante, Lucy aveva preteso delle spiegazioni per il mio, a detta sua, "umore di merda" e si era incazzata parecchio per quello che stava succedendo sui social. Devo ammettere che al suo settimo "Paparazzi di merda, meriterebbero di farsele ficcare in gola quelle fotocamere" ero scoppiata a ridere con tanto di lacrime agli occhi, suscitando nella mia amica un aumento esponenziale di rabbia che crebbe, proporzionalmente, insieme alla mia ilarità. Il resto del viaggio lo passai dormendo.

New York, la mia amata e confusionaria "città che non dorme mai" alla notte con i suoi taxi gialli sfavillanti, le mille luci e i tabelloni colorati, i suoi mille vicoli bui, dove i ragazzi finiscono sempre all'uscita delle discoteche, il rumore e le voci, un insieme di fattori detestabili per la maggior parte della popolazione, ma non per me. Per me rimaneva la città più affascinante del mondo, la città dei sogni e dei mille colori. Non so cosa mi spinse a quell'ora di notte, per precisione le 3:08, a lasciare le valige a Lucy e dirigermi da tutt'altra parte rispetto a casa mia, ma quello che fra tutto mi lasciò più sbalordita fu ciò che trovai in quel posto. In quel magico posto che, da quando era diventato di mia proprietà, si era trasformato nell' Hotel: "sotto il cielo stellato di Times Square" trovai la causa dei miei pensieri oppressivi. «Che ci fai qui?» chiesi avvicinandomi al cornicione del tetto. «Sapevo di trovarti qui» rispose Harrison ammiccandomi, comodamente appoggiato con i gomiti sul cornicione. I suoi occhi verde rugiada brillavano totalmente anche nel cuore della notte, suscitando in me emozioni così fortemente familiari e, allo stesso tempo, così sconosciute da confondere ancora di più non solo la mia testa, ma anche il mio cuore. «Come facevi a saperlo?» mi avvicinai a lui non interrompendo il contatto visivo con i suoi occhi: più splendenti dei mille lampioni e luci presenti in quella città, nel cuore della notte. «Non ne avevo la certezza, speravo di trovarti» si corresse assumendo una postura più dritta mano a mano che mi avvicinavo a lui. «Mi hai trovata» sussurrai flebilmente quelle parole che in realtà avevo solo pensato e che in quel momento avevano sferzato l'aria velocemente, così velocemente da non darmi nemmeno il tempo di rendermi conto di averle pronunciate che già galleggiava nell'aria la risposta del riccio. «A quanto pare sì, ti ho trovata B»

Un sorriso felice incorniciava perfettamente quel suo visino così all'apparenza arrogante da lasciarmi con un ghigno divertito ben in mostra, in faccia, e un'anima emozionata abbastanza nascosta, dentro.

Sotto il cielo stellato di Times SquareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora