Sotto il cielo stellato di Times Square

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꧁𝑪𝒉𝒂𝒑𝒕𝒆𝒓꧂

34

"𝑆𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜 𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑎𝑡𝑜
𝑑𝑖 𝑇𝑖𝑚𝑒𝑠 𝑆𝑞𝑢𝑎𝑟𝑒"
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Trattenere il fiato fino a credere di non aver mai rilasciato il ben che minimo respiro, portare una mano al petto nella vana speranza di fermare i continui e crescenti battiti del cruore, chiudere gli occhi pregando di non vedere ovunque quelle iridi verdi, quel sorriso con quelle fossette pronunciate, quei ricci disordinati e quelle braccia in cui, anche il più esperto dei solitari, vorrebbe tuffarcisi per trovare una casa, un riparo. Chiudere la porta di casa e lasciarsi cadere dietro di essa senza forza, lasciarsi cadere sempre e ovunque, farsi avvolgere da quelle emozioni così forti e prorompenti da farti credere di non aver mai vissuto davvero, non fino a quel momento. Quel momento in cui lui ha iniziato a far parte della tua vita: l'amore; che sentimento effimero, un attimo prima c'è rendendo tutto più bello e colorato, quello dopo non più, diventando un nitido e doloroso ricordo. «Che fine ha fatto la mia tela colorata Harrison?» pensai ricordando il momento in cui, a Parigi, lui aveva portato vita ad una città che, senza la sua presenza, si prospettava come una misera tela vuota. «Dopo aver toccato il fondo si può solo risalire» mormorai fissando un punto impreciso nel vuoto «O si può annegare» mi morsi la guancia cercando di trattenere un grido disperato di aiuto; eppure, chi può aiutare qualcuno che si è lanciato nel vuoto, fiero di affondare per orgoglio? Chi può, quindi, aiutarmi?

Il telefono iniziò a squillare insistentemente privandomi di qualsiasi attimo di silenzio assoluto. Il mero silenzio, quello ipnotico e privo di ogni tipo di emozione, quello che non provai mai: fino a quel preciso momento. «Cosa c'è Lucy?» risposi, finalmente, al decimo o ventesimo squillo. «Che cazzo stai facendo Bennet!» gridò subito rovinando quell'aria di vuoto che si era creata fuori e dentro di me. Tu lo stai sentendo il mio silenzioso grido di aiuto Lucy? Li leggi i miei occhi? Perché tutti mi vedono ma nessuno mi nota, mi capisce?

«Lucy non è il momento» risposi semplicemente, privata di ogni tonalità, e, se la musica è un riflesso dell'anima anche la voce lo è, e la mia era distrutta. «Un cazzo Bennet! Ora tu mi ascolti!» dichiarò inviperita mentre l'ascoltavo senza interesse. «Tu, quel viscido di Mascon e Harrison siete ovunque! OVUNQUE!» urlò una seconda volta quella parola per calcare un'idea di cui non mi importava minimamente, infatti, non la corressi nemmeno per aver sbagliato il cognome di quell'uomo tanto viscido, quanto inutile. «Dove minchia sei!?» mi chiese forse per la terza volta, senza ricevere alcuna risposta da parte mia. «A casa, dove vuoi che sia?» mormorai portandomi le dita alle tempie, massaggiandole lentamente: era riuscita a farmi venire mal di testa con tutto quell'urlare. «All'Hotel tra quindici minuti Bennet. Se non ti trovo sul tetto di vengo a prendere e ti ci porto a calci in culo» ordinò perentoria facendomi sbuffare: non avevo la forza di alzarmi dal mio fondale, secondo quale subdola idea l'avrei trovata per andare all'Hotel? Chiuse la chiamata senza darmi il tempo di replicare, facendomi sbattere la testa contro la porta; il leggero impatto con il legno fece aumentare il mio mal di testa. «Cosa cazzo sarà successo per farmi correre in Hotel?» pensai trovando finalmente la forza per alzarmi dal pavimento, ma rimanendo ben aggrappata al mio fondale. Le luci spente in tutta la casa rispecchiavano il buio da cui cercavo di salvarmi, inutilmente. Dopo venti minuti, arrivai a destinazione e mi persi ad osservare il grande edificio dinanzi a me: le grandi vetrate riflettevano i raggi solari che, in lontananza, andavano tramontando creando una luce soffusa e meravigliosa, con colori caldi; gli stessi dolci colori caldi che avevano abbellito Parigi, con lui al mio fianco. Quando, guardando quella meraviglia, provai un grande freddo capì che il vuoto mi stava privando, lentamente, di tutte le bellezze. «Me ne sono andata io» pensai mettendo piede nel grande edificio ma, prima di dirigermi verso l'ascensore, decisi di andare alla Hall per togliermi un dubbio che stava attanagliando la mia mente. Lily, la storica ma giovane receptionist, mi sorrise cordiale quando mi notò in mezzo a tutte le persone che occupavano la lussuosa Hall, con i loro bagagli. Barcollai impercettibilmente quando mi resi conto che, nello stesso identico luogo, io avevo conosciuto colui che mi aveva dato un valido motivo per legarmi al fondale e non rialzarmi. «Lo sapevo che mi avrebbe distrutta, ma gliel'ho comunque lasciato fare» pensai non potendo dimenticare tutti i miei timori iniziali. «Buonasera Bennet!» mi sorrise educatamente chiamandomi, finalmente, come le avevo supplicato di fare per settimane. «Scusa Lily sono di fretta. Mi potresti dire a chi è stata intestata la camera 419 in queste settimane?» le chiesi velocemente. «La mia stanza prima di lui» avrei voluto aggiungere, ma non avrebbe capito; le sue dita fini e lunghe digitarono velocemente qualcosa sulla tastiera del costoso Mac, attentamente. Dopo poco il suo sguardo si posò su di me, un sorriso sincero le incorniciava il volto. «Ad Harrison Cox» rispose fermamente, senza perdere quel meraviglioso sorriso e facendomi tremare le gambe. «Grazie mille. Ti prego di non far accedere in nessun modo qualcuno al tetto» le dissi prima di girarmi ed incamminarmi, velocemente, all'ascensore; quando raggiunsi l'ultimo piano notai le luci della porta di servizio che dava sul tetto accese e per questo, con un movimento rapido, l'aprì. Quello che mi trovai davanti non fu Lucy e nemmeno Harrison, ma il vuoto assoluto. Inspirai ed espirai l'aria fresca che mi circondava sentendomi lo stesso appesantita come se effettivamente fossi in apnea, mi incamminai verso il cornicione confusa quando, all'improvviso, lo schermo pubblicitario del grattacielo davanti si accese con il volto di Harrison in primo piano. Il mio cuore perse un battito nel notare il suo viso corrucciato e confuso. «Hey B...» il suono della sua voce roca si diffuse nell'aria ed io sentì, nuovamente, le gambe tremare per questo mi appoggiai meglio al cornicione, per paura di cadere. «Se questo non dovesse funzionare dovrò uccidere Lucy per avermi fatto fare la figura del coglione davanti a tutti» ridacchiò debolmente portandosi una mano ai capelli, scompigliandoli. Sorrisi impercettibilmente a quelle minacce velate, anche se nessuno poteva vedermi. «Sai B non ho mai fatto niente del genere per una ragazza. Non ho mai usato la fama per fare sorprese gigantesche, l'ho sempre trovata una cosa superficiale e pacchiana» continuai a guardare quel ragazzo attraverso uno schermo gigante sentendo, piano piano, il calore avvolgermi interamente. «Ma diamine...tu sei tu e ti meriteresti il cielo intero, non un semplice video» sorrise scuotendo la testa. Abbassai lo sguardo verso la strada e notai centinaia, se non migliaia, di persone affascinate da quello che stava succedendo; i flash dei telefoni che riprendevano, le luci dei lampioni, le insegne dei locali e i fari delle macchine illuminavano la strada sottostante come se fosse un'immensa costellazione. «Sono stato un cazzone. Anzi, lo sono anche ora» scherzò facendomi sorridere, di nuovo. «Non avrei dovuto reagire così l'altro giorno. Avrei dovuto prenderti e baciarti fino a consumarti quelle labbra così belle e, allo stesso tempo, tentatrici che ti ritrovi» mi ritrovai a mordermi, divertita, proprio quest'ultime. «E invece ti ho insultata nel peggiore dei modi perché non potevo crederci che, in mezzo a tutta questa merda che mi circonda, ci fosse anche un diamante così prezioso come te» incrociò le mani, giocherellando con l'anello in argento dell'indice. Rilasciai il respiro che, fino a quel momento, sembrava essersi rinchiuso in me: la sensazione di apnea scomparve lentamente, mano a mano che le parole del ragazzo si susseguivano. «Non potevo credere che dopo di lei, finalmente, riuscissi a provare di nuovo qualcosa di così forte. Qualcosa di ancora più forte, senza precedenti» sorrise con gli occhi lucidi, come se sapesse di avermi davanti. Mi portai una mano al cuore sentendo il battito di quest'ultimo, come sempre in sua presenza, incontrollato. Il vuoto e l'apatia generale scomparvero insieme alla visione delle sue magnifiche iridi. «Vorrei poterti spiegare cosa provo quando ti vedo, quando qualcuno ti nomina o osa toccarti» per un rapidissimo lasso di tempo gli occhi gli si scurirono, per poi schiarirsi velocemente. «Vorrei spiegarti cosa provo quando vedo la Luna» alzò gli occhi al cielo e, solo in quel momento, notai piccoli sprazzi di ciò che lo circondava nello sfondo. Era all'aperto, ma dove? Alzai lo sguardo e sorrisi nel notare che il sole era completamente tramontato e che la luna piena, limpida, torreggiava sulla mia testa. «Non so nemmeno se, effettivamente, sarai arrivata fino a questo punto; ma sono certo che se questo dovesse accadere, in questo momento, non ti sarai nemmeno accorta di me dietro di te» sorrise ed io mi girai di scatto, come se fossi attratta da una calamita, trovando Harrison dietro di me, con le braccia incrociate al petto e gli occhi puntati su di me. Fece qualche passo verso di me, insicuro ma sorridente. «E non so se mi accetterai ancora» gridò ripetendo le parole dello schermo alle nostre spalle, in sincronia. «Te lo dico nello stesso posto in cui io ho capito che tu non avresti mai più lasciato il mio cuore...» continuò facendomi tremare, in preda all'amore che non riuscivo a trattenere per quel ragazzo, tutto il corpo. «Ti amo Bennet Wilson» gridò a perdifiato; la sua voce rimbombò tutto intorno, le stelle sopra le nostre teste brillarono di una nuova luce, la stessa luce che vidi risalendo dal fondale in cui, per troppo tempo, ero rimasta. Tutto intorno, come in un film, riprese la sua vitalità con i suoi colori nitidi e vivi, in lontananza uno stormo di gabbiani, essendo arrivata finalmente l'estate, migrava verso l'oceano.
Il loro garrito di felicità si propagava tutto intorno a noi, e sorrisi sentendomi proprio come loro: libera di spiccare il volo e felice, immensamente felice. Capì che l'aiuto di cui avevo bisogno l'avevo sempre avuto davanti, dovevo solo afferrarlo e dargli l'opportunità di salvarmi. I miei occhi, pieni di lacrime, osservavano il ragazzo davanti a loro, poi alzai lo sguardo verso la luna e sorrisi, capendo cosa fare: azzerai la distanza che intercorreva tra i nostri corpi, correndo verso di lui, per poi abbracciarlo. «Ti amo Harrison Cox» mormorai con le lacrime che solcavano le mie guance. «Ha vinto Lucy» aggiunse facendomi scoppiare a ridere. Le mie lacrime, miste alle nostre risate, descrivevano alla perfezione quelli che eravamo sempre stati, fin dal primo momento: la rabbia che si scontra con le iridi di due ragazzi folli, ma follemente innamorati. La stessa rabbia e tristezza che, grazie a quel sentimento vero, vivo e forte, aveva perso: ne eravamo usciti vincitori, insieme. Mi sollevò e mi fece girare in tondo, come una trottola, mentre le nostre risate si diffondevano nell'aria fino a quando, senza fiato, si fermò ed io mi fiondai sulle sue labbra: tornando finalmente a respirare, completamente.

«Sotto il cielo stellato di Times Square?» mormorai guardando tutto quello che ci circondava.

«Sotto il cielo stellato di Times Square» mi sorrise accarezzandomi con il pollice la guancia.


Sotto il cielo stellato di Times SquareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora