Cinquantatré

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Torino, 11 marzo 2018

Che oggi a Torino si giochi la ventottesima giornata di campionato tra Juventus ed Udinese importa a pochi. Pochi giorni fa il mondo del calcio ha dovuto dire addio ad un calciatore della Fiorentina, e non ad uno qualunque, al suo capitano, a Davide Astori. Oggi la Serie A ha deciso di dedicare un minuto di silenzio in suo onore per ricordarlo, per provare a capire come mai quel bel sorriso che vediamo sul teleschermo dello stadio nessuno lo potrà più vedere dal vivo.

La partita è già cominciata, in mezzo a qualche lacrima e sorriso tirato, ma io sono ferma immobile sulla panchina a pensare a quello che è successo. Com'è possibile che un ragazzo così giovane, in forma, con sani principi e qualità morali sia potuto morire in una camera d'albergo? Come? Come può la sua famiglia trovare il modo per andare avanti senza incappare nella disperazione? Come può sua moglie spiegare alla piccola Vittoria che il suo papà non c'è più? Che non dovrà più aspettarlo tornare a casa stanco dagli allenamenti, che non le darà mai più il bacio della buonanotte, che non vedrà mai le sue recite scolastiche e i suoi saggi di danza? Come può una bambina non vedere più il primo amore della sua vita? Come può una moglie andare a dormire sapendo che la metà vuota del letto accanto a lei rimarrà per sempre fredda?

Come si fa a dire addio ad un uomo, ad un padre, ad un figlio, ad un amico, ad un capitano, ad un guerriero? Me lo chiedo incessantemente da giorni ormai e ancora non riesco a venirne a capo.

Come si fa, in queste circostanze, a credere che le persone che perdiamo in questo modo così crudele siano ancora con noi? Come si fa a trovare la fede quando non si riesce nemmeno a trovare una spiegazione?

Per Federico non è stato facile: Davide era il suo capitano quando era alla Fiorentina, ma era anche un amico, un confidente, una persona dal cuore d'oro e anche da avversario era un uomo leale. Ora è un tatuaggio sul corpo del mio ragazzo, un numero 13 inciso a fondo nella sua pelle, quasi come se Federico volesse fargli vedere il mondo insieme a lui, ora che non può più farlo.

Ma Federico ha la sua fede, pensa che ora lui sia in un posto migliore, pensa che vedrà sua figlia crescere dall'alto, che in qualche strano modo aiuterà la sua famiglia ad andare avanti. Ma io non riesco a capirlo. La fede è un dono che, per mille motivi, ho perso e non ho più ritrovato. Vorrei riuscire a pensarla come lui, ma non posso credere che morire da solo in una stanza d'hotel lontano da casa e dalla famiglia senza una ragione plausibile sia giusto.

Non è giusto. Lui dovrebbe stare a Firenze e fare di tutto per portare la sua squadra alla vittoria. Invece la sua città è invasa da fiori e sciarpe viola in suo onore. Non c'è niente di giusto in tutto questo.

Niente.

Ed è mentre le lacrime iniziano a rigarmi il viso che un forte rumore mi riporta alla realtà, facendomi realizzare che Paulo Dybala ha centrato la porta avversaria con una punizione gioiello, il suo marchio di fabbrica. Mi lascio andare ad un sorriso tirato, anche se gli occhi sono tristi ed umidi.

Ma è sul raddoppio della Joya che mi mordo il labbro, felice per la mia squadra e per il suo numero dieci. Alzo gli occhi al cielo e penso a Davide Astori mentre le lacrime scendono ormai copiose sulle mie guance.

Non ho avuto il privilegio di conoscere Davide mentre era in vita, l'ho visto soltanto due volte in occasione delle partite di campionato, ma da quanto mi ha raccontato Federico so che era un'anima buona, una persona per bene e non si meritava un destino così avverso.

Penso a sua moglie Francesca, alla piccola Vittoria e a tutte le persone che lo consideravano un buon amico e un compagno di squadra. Penso che ora dovranno trovare la forza per andare avanti quando sembra che tutto il loro mondo si sia fermato insieme al cuore di Davide. Penso a tutta la rabbia che avranno in corpo per quello che la morte ha portato via loro.

Fino alla fine || Federico Bernardeschi || [IN REVISIONE 👩🏼‍💻]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora