CAPITOLO 5

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San Francisco – 16 dicembre 2028

L'operazione della DEA*, soprannominata in codice Black Tiger e organizzata in collaborazione con la sezione narcotici dell'FBI, era stata pianificata per settimane, nei minimi dettagli.

Tutta l'area intorno all'isolato tra Scott Street, Ellis Street, Beideman Street e O'Farrell Street era stata circondata da decine e decine di agenti dei due enti investigativi, con il preciso intento d'impedire qualunque tipo di fuga agli affiliati al cartello colombiano emergente (uno dei più spietati in circolazione) dei Dark Lions. I quali, dopo la vasta retata, sarebbero stati incriminati oltre che per traffico internazionale aggravato di stupefacenti, in quarantotto Stati della confederazione americana, anche per decine di omicidi e sequestri a fini estorsivi. Le meticolose indagini condotte nei due anni precedenti dagli agenti della DEA avevano portato alla luce l'esistenza di un'ampia e pericolosissima struttura criminale in rapida ascesa, a matrice verticistica, le cui gerarchie restavano saldamente localizzate nella Colombia del sud, pur disponendo di un centro di coordinamento e controllo delle varie attività illecite proprio a San Francisco.

Gli ordini alle centinaia di affiliati disseminati su tutto il suolo statunitense arrivavano dall'America latina e, a cascata, smistati dal quartier generale americano, attraverso i vari livelli intermedi ai boss locali e di quartiere delle varie città.

Si trattava di un'organizzazione in grado di soggiogare e controllare sempre più gangs, tra le centinaia sparse sul territorio confederato, con il fine di creare un'unica associazione criminale internazionale, di tipo monopolistico, dedita alle attività illegali più redditizie, da finanziare in parte proprio con il sempre crescente traffico di stupefacenti, di ogni tipo.

*Drug Enforcement Administration, Agenzia Federale Antidroga statunitense, facente capo al Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti.

Arrivare a controllare e gestire totalmente un simile mercato, per i membri del terribile cartello colombiano dei Dark Lions sarebbe equivalso a impadronirsi, del tutto, di un immenso traffico, esteso ormai ai cinque continenti, dal fatturato multimiliardario.

La piccola ricetrasmittente ancorata al fermo in velcro sulla spalla destra della divisa di Monica Muller aveva appena terminato di gracchiare. Il via libera era finalmente arrivato.

Dopo estenuanti, interminabili minuti di attesa, l'ordine era pervenuto forte e chiaro. L'operazione Black Tiger poteva finalmente cominciare. Gli ultimi mesi di preparazione al blitz, organizzato in maniera tanto meticolosa da far impallidire gli agenti più esperti e scafati, si erano rivelati a dir poco sfibranti. Settimane e settimane di mattinate trascorse a compiere importanti, decisivi pedinamenti, effettuati nelle condizioni ambientali peggiori, sotto la sola spinta delle scariche di adrenalina. Un copione così asfissiante da non poter essere tollerato a lungo neppure dai poliziotti più coriacei. Da quell'istante in poi sarebbe stato impossibile tornare indietro. Gli agenti speciali Monica Muller e Robert Stratton, entrambi della DEA, procedevano cauti e guardinghi giù per le scale che portavano agli scantinati del palazzo individuato come il quartier generale dei Dark Lions. Erano alla testa di una trentina di uomini, tra i quali alcuni specialisti del Federal Bureau, armati sino ai denti, in assetto da combattimento. Ognuno di loro indossava un giubbotto Pollux NIJ-3°, a prova di proiettili calibro .357 SIG e .44 Magnum. Il rischio di violente sparatorie era molto alto e simili accorgimenti non potevano in alcun modo essere trascurati. L'intero isolato era stato circondato. Fuggire da uscite di sicurezza secondarie, o da pertugi nascosti, era di fatto impossibile. I cecchini sorvegliavano le strade del quadrilatero dai tetti e dalle finestre degli edifici circostanti, nascosti nelle posizioni più strategiche, mentre lo spazio aereo era stato interdetto a qualunque elicottero che non fosse della polizia di San Francisco, della DEA o dell'FBI. Altri reparti speciali sorvegliavano tutto il perimetro del sottosuolo circostante. Il cappio si stava lentamente stringendo intorno all'obiettivo. La scalinata lungo cui gli agenti stavano scendendo con estrema prudenza era più lunga del previsto. C'era un buio profondo in quell'angusto anfratto di ferro e cemento lungo cui si mischiavano i respiri affannosi dei componenti il commando. Man mano che si avanzava anche la temperatura calava sensibilmente. Le potenti luci tattiche montate sui fucili d'assalto M4 illuminavano, come lucciole impazzite, la stretta scalinata lungo cui gli uomini procedevano con passo cauto, ma sicuro. Erano pronti a qualunque sorpresa. In fondo ai gradini non sembrava esserci anima viva. Soltanto un gelido buio e una crescente puzza di muffa e stantìo. Quando restavano ormai solo pochi metri al termine della scala in muratura, s'intravide leggermente defilata, sulla destra giù in fondo, una porta in ferro. Le torce tattiche vennero spente e si passò ai visori a infrarossi attivi. Con quelli non c'era bisogno di sfruttare fonti di calore. La porta era arrugginita in più punti, soprattutto sulla parte inferiore, ma era un dettaglio che non doveva trarre in inganno. Anche attraverso i visori s'intuiva subito che si trattava di una porta blindata che non poteva essere facilmente forzata. In corrispondenza dei due spigoli superiori svettavano, seminascosti, due quadratini neri, di un centimetro per lato l'uno. Si trattava di telecamere termiche di ultimissima generazione. Dettagli che stridevano con il fatiscente quadro d'insieme circostante. Ma il commando era preparato a una simile eventualità. Per questo ogni agente aveva indossato sotto il giubbotto antiproiettile, una particolare maglia in tessuto sperimentale, usata dai reparti speciali dei SEALs, capace di azzerare le emissioni di calore corporeo. Robert Stratton puntò un dito in alto, invitando la collega Muller e gli altri agenti, più arretrati, a notare i due piccoli particolari. I suoi guanti, neri come la pece, si muovevano rapidi nelle direzioni delle due telecamere di sorveglianza appena individuate. Il fattore sorpresa sarebbe stato determinante nella riuscita dell'operazione. Oltre la pesante porta in ferro c'era il quartier generale dei Dark Lions e i laboratori per il taglio e il confezionamento delle più disparate tipologie di stupefacenti. Centri altamente avanzati e tecnologici di cui il cartello colombiano disponeva per organizzare e gestire al meglio i traffici illegali lungo tutta la West Coast. Sia Monica Muller che Robert Stratton sapevano bene quanto fossero feroci i criminali che si trovavano oltre la massiccia porta in ferro, eppure entrambi non vedevano l'ora di fare irruzione. Di entrare finalmente in azione dopo mesi e mesi di angoscianti preparativi.

L'adrenalina era ai livelli massimi.

Serviva subito del C-4 con cui far saltare quella porta. In più, occorreva usare dei lacrimogeni per creare l'effetto diversivo indispensabile a coprire l'irruzione, e garantire al commando i maggiori margini di sicurezza possibili. Dalle retrovie della duplice fila di uomini si fecero avanti, in fretta, due agenti. Il primo, esperto in esplosivi, si diede da fare a fissare due pezzi di C-4 in corrispondenza della maniglia e a ridosso dei cardini centrali della porta, l'altro invece, rimasto in posizione più arretrata, estrasse dallo zaino caricato sulle spalle alcuni lacrimogeni che provvide a distribuire ai compagni più vicini. Mancava poco. Il pulsante del detonatore collegato al C-4, sul cui piccolo display digitale scorrevano i numeri in rosso del conto alla rovescia, era stato premuto. Non appena l'esplosivo al plastico avesse fatto il suo dovere (e non c'erano dubbi che lo avrebbe fatto), la porta sarebbe stata divelta all'istante e la ferrea preparazione militare degli agenti speciali della DEA e dell'FBI si sarebbe scontrata, in pochi attimi, contro la dilagante ferocia da strada dei membri dei Dark Lions. La decisiva resa dei conti era lì che aspettava gli uni e gli altri.


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⏰ Last updated: Jun 26, 2019 ⏰

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