20. Alyson spiega tutto

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Il corpo inerte di Elise venne avvolto da una nebbia violacea, simile a polvere, finché non riuscii più a vederla. Quella polverina si dissolse... portando con sé anche la ragazza. Era sparita, sparita nel nulla!

Caddi a terra con un tonfo. Era colpa mia... solo colpa mia. Avevo ucciso una persona, indirettamente ma ero stata pur sempre io ad aver deciso chi delle due far morire. Non me lo sarei mai perdonata. Avevo le mani macchiate di sangue, perché ero stata io a decidere -ingiustamente- il destino di una mia compagna.

Mi presi il viso tra le mani iniziando a singhiozzare, più di rabbia e frustrazione che tristezza. Sbirciai attraverso lo spazio tra le mie dita e vidi il corpo di Alyson cadere verso terra, fino a cozzare sul suolo. Gattonando mi avvicinai a lei e le presi il polso. Il battito era accelerato, ma c'era. I suoi capelli sembravano un groviglio di rovi e il suo viso era più magro di quanto lo ricordassi. Cercai di asciugarmi le lacrime con la manica della felpa, ma quelle continuavano a sgorgare come farebbe l'acqua da una fontana.

Mormorai una serie di "Mi dispiace" e lo ripetei talmente tante volte che quelle due parole persero il loro significato. Intanto, sentivo la mia voce distante, come quando ti si tappano le orecchie per lo sbalzo di pressione e, quando parli, la tua voce non ti sembra più la tua. Lo stesso valeva per i passi provenienti da un qualche punto dietro di me. Mentre ero ancora inginocchiata accanto ad Alyson, una mano si posò sulle mie spalle. Era Dylan... il ragazzo sempre pronto a sostenermi. Prendendomi da sotto le ascelle mi sollevò e mi girò verso il suo petto. Alzai la testa, il viso bagnato di lacrime. Eravamo così vicini... solo un paio di centimetri separavano i nostri nasi. Lo spinsi via con delicatezza e mi voltai a guardare la ragazza stesa a terra.

Tutto il resto era sparito, il vortice nero e il tizio sotto il mantello. Oppure no... ad una distanza che era pari a circa una trentina di metri, vi era un corpo avvolto in un mantello nero. Era ancora lì, quel bastardo. Dylan mi strinse la mano e, prima di lasciarla andare, mi fece capire dove stava andando. Lo seguii rimanendo qualche passo indietro gettando costantemente un'occhiata sul corpo di Alyson.
Con un gesto veloce e preciso, il ragazzo strappò via il mantello nero dalla figura che si trovava ai suoi piedi. Io rimasi dietro di lui, troppo scossa anche solo per ragionare.

Ai nostri occhi si rivelò un ragazzo, più o meno dell'età di Dylan, gli occhi e i capelli di un azzurro senza sfumature, compatto. Sotto e sopra l'occhio destro aveva un disegno -una specie di ricamo- del medesimo colore. Che strano tipo. Gli zigomi erano lievemente spigolosi ma gli donavano un certo fascino... però aveva l'aria tenera. Come se un mostro qual era potesse avere l'aria tenera. Scacciai il pensiero.
Dylan gli lasciò ricadere addosso il mantello. Si voltò, l'espressione disgustata, e tornò indietro verso Alyson seguito a ruota da me.

La ragazza non si era ancora ripresa, così passammo le sue braccia dietro il collo e la trascinammo, facendo più attenzione possibile, fino all'edificio diroccato che avevo usato poco prima come bersaglio. Cavolo se era pesante! La poggiammo delicatamente a terra, mettendole la schiena contro la parete. Mi sedetti di fianco a lei e fissai il cielo. Mi sentivo come se mi mancasse un pezzo. Era terribile ed era solo colpa mia. Chiusi gli occhi e desiderai solo che tutto quello sparisse, desiderai di tornare a casa, desiderai che quello fosse solo un brutto sogno.

Quando aprii gli occhi mi trovavo chiaramente in un sogno, quanto brutto dovevo ancora stabilirlo.
Tenevo la mano di qualcuno, mentre penzolavo sopra un burrone. Scorsi una ciocca azzurra, prima che una voce mi gridasse di prendere l'altra sua mano. Infatti cercai di afferrarla, come se non fossi più io a controllare il mio corpo. Ho detto cercai, perché mentre provavo a sollevare il braccio, l'altra mano scivolò e perdetti la presa. Mi ritrovai a precipitare nel vuoto fissando quegli occhi azzurri e il segno sulla parte destra del suo viso.
Il cielo era annuvolato, coperto da una coltre grigia che conferiva al paesaggio -alberi oltre la soglia del burrone sempre più lontana e la pietra tutto intorno a me- un che di spettrale.
Quando la mia testa urtò qualcosa di duro (probabilmente spaccandosi, perché udii un rumore di ossa rotte a dir poco raccapricciante) finì tutto. Sapevo solo di essere stesa sul fondo di roccia del burrone. Vedevo ancora quei bellissimi occhi celesti, però pieni di lacrime.

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